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Il dramma dell’uomo moderno

di Francesco Lamendola - 01/10/2017

Il dramma dell’uomo moderno

Fonte: Accademia nuova Italia

 

L’uomo moderno rappresenta un tipo antropologico particolarissimo: la sua caratteristica fondamentale, e il suo intimo dramma, è non riuscire più a credere, ad aver fede in Dio, ad accogliere una verità soprannaturale. Per l’uomo pre-moderno, la fede in Dio non era un problema, anzi: era il fondamento della vita stessa. Ovunque andava, il pius Aeneas innalzava altari, recitava preghiere, interrogava la divinità per mezzo dei responsi, interpretava i sogni; non trascurava mai una cerimonia, non faceva nulla che potesse tradire mancanza di rispetto e di devozione verso il mondo dell’invisibile; non tralasciava né le solenni esequie funebri, né i loro anniversari: e i morti gli erano accanto quanto i vivi, erano presenze autentiche nella sua esistenza. La stessa attitudine era condivisa dall’uomo medievale: non si vive solo per se stessi, si vive per Dio, con Dio e in Dio; la vita è un pellegrinaggio, la nostra meta, la nostra patria vera è il Cielo; i santi e le anime beate sono al nostro fianco nella battaglia terrena contro il male, mentre il diavolo e le sue schiere cercano di sviarci, di perderci. L’uomo vive al centro di un dramma cosmico, al quale han posto mano e cielo e terra; la vita umana non avrebbe alcun senso, sarebbe una beffa, un’ironia, se fosse conclusa in se stessa, se non schiudesse un altro orizzonte: quello dell’eternità. L’uomo medievale parla con Dio, gli confida le sue pene, ne invoca il soccorso, gli domanda perdono per le sue debolezze, per le sue cadute, per le sue infedeltà. Non è un santo, ma rispetta e ammira profondamente la santità: perfino i briganti della foresta esitano a levare le mani su di un santo monaco che va per la sua strada, sentono accanto a lui la presenza di Dio e temono di provocarne la collera. L’ateismo, del resto, è rarissimo, e suscita incredulità, più ancora che scandalo: che Guido Cavalcanti potesse non credere nell’immortalità dell’anima, era una cosa che a stento poteva essere concepita; accettata, mai: e il suo migliore amico, Dante, fa capire che proprio per tale peccato Guido non potrà evitare il castigo eterno, come non l’ha evitato, per un altro motivo, l’amato maestro Brunetto Latini. L’uomo medievale, cioè il cristiano serio, prende le cose sul serio: Dio, per lui, è una cosa estremamente seria; e la vita dopo la morte lo è altrettanto. Quando incomincia a scherzare sulle cose sacre, vuol dire che l’uomo medievale ha perso la fede: lo si vede nel Decameron, son passati pochi anni dalla Divina Commedia, mai però Dante avrebbe potuto scrivere a quel modo delle cose sacre; mai ci avrebbe riso e scherzato sopra. La sacrilega confessione di ser Ciapelletto, che prende in giro il confessore in punto di morte, raccontandogli un sacco di fandonie per trarlo in inganno, quando già si trova con un piede nella fossa, ha qualcosa d’inaudito e quasi di pauroso nella sua enormità: è veramente la testimonianza della fine di un’epoca e di una civiltà.

Oggi la situazione si è completamente rovesciata: oggi la difficoltà non è quella di dubitare, ma di riuscire a credere. Si direbbe che l’uomo moderno si sia condannato da se stesso all’impossibilità di credere in Dio: a forza di ripetere, o di sentirsi dire, che Dio non esiste o che, se esiste, è ininfluente per noi; a forza di sentirsi dire che la fede religiosa è il frutto di una pia illusione, coltivata dai preti presso le società ignoranti e superstiziose, non ancora gioiosamente rischiarate dai lumi della Ragione; una volta introiettate tali cose dopo una dozzina di generazioni, a partire dall’Illuminismo, si è auto-convinto di essere radicalmente chiuso alla trascendenza, di aver smarrito il significato stesso della relazione con Dio, e dunque di potere e di dover vivere, in qualsiasi caso, etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse. Infatti, se c’è, noi non possiamo sapere nulla di Lui; se non c’è, faremmo meglio a concentrare le nostre energie e la nostra attenzione su problemi assai più utili e immediati per noi e per la nostra vita. Che ci piaccia o no, siamo condannati all’incredulità; e la scienza moderna, materialista, meccanicista, riduzionista, è stata costruita in maniera tale da escludere la credenza in Dio: essendo una fede totalizzante anch’essa, o si crede in Dio o si crede in lei. E chi mai preferirebbe un vecchio dio male in arnese, per giunta soltanto ipotetico, a una scienza piena di vigore, che ci sta cambiando il mondo ogni giorno, sotto il naso?

Ma perché l’uomo moderno è praticamente condannato a non poter credere, se in tutte le epoche della storia passata gli uomini hanno sempre creduto in Dio e mai hanno dubitato, se non a livello di singoli individui e non di gruppi, tanto meno di popoli e nazioni? Lo abbiamo già detto: perché ha rotto la relazione con Dio, la relazione d’amore fra la creatura adorante e il Creatore che spinge il suo amore per l’uomo sino al punto di volersi incarnare, per condividere con gli uomini la loro stessa vita e per mostrare loro che è possibile, dentro un corpo mortale, vivere nella piena e incondizionata fedeltà al volere del Signore. Tuttavia, non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu, dice Gesù nell’oro degli olivi, pregando con il massimo fervore, pochi minuti prima di essere arrestato come un brigante.

Abbiamo sostenuto più volte che la radice dell’incredulità dell’uomo moderno è nella sua superbia intellettuale; e, di fatto, la civiltà moderna nasce proprio dal rifiuto di Dio e dalla pretesa dell’uomo di far da sé e di spiegare il mondo con le sue sole forze. La prova di questa affermazione sta nel fatto che solo l’uomo occidentale sta vivendo questa fase d’irreligiosità; il fenomeno è meno accentuato, o non si nota affatto, nelle altre culture, a cominciare da quella islamica. Possiamo quindi ragionevolmente dedurne che la scienza moderna, per come è nata e si è sviluppata, mano a mano che si afferma, scalza via dal piedistallo il dio trascendente e s’insedia al suo posto, sul piano della immanenza. Si direbbe che non possano coesistere, e l’una escluda l’altra. Naturalmente non è così, e grandi figure di scienziati e matematici, da Enrico Medi ad Antonino Zichichi, son lì a dimostrare che si può essere scienziati e credenti; come lo si era in passato, ad esempio ai tempi di Blaise Pascal. Dobbiamo tuttavia prendere atto che la maggioranza degli scienziati occidentali moderni ha ritenuto, o sentito, che le due fedi si escludono a vicenda, e che tale persuasione, per quanto arbitraria, si è largamente diffusa nella società, divenendo patrimonio della gran parte della popolazione. D’altra parte, la religione dell’Occidente è, o piuttosto, era, il cristianesimo; dobbiamo desumere che il cristianesimo, specificamente, è incompatibile con la scienza moderna e con la moderna mentalità razionale. Oppure la stessa cosa sarebbe accaduta anche, per ipotesi, con il confucianesimo, come davvero pare che stia accadendo nella Cina dei nostri giorni? È inutile fare delle supposizioni oziose: limitiamoci a ragionare su quel che vediamo e su quel che possiamo comprendere, perché è parte del nostro orizzonte intellettuale e spirituale. Il cristianesimo (o il post-cristianesimo) è parte del nostro bagaglio interiore: si tratta perciò di capire quale sia, esattamente, l’elemento specifico che blocca, annulla e scredita in partenza l’esperienza della fede. Infatti, la fede è, per prima cosa, un’esperienza interiore; poi è anche un fatto di natura intellettuale. Peraltro non stiamo parlando di una fede generica, ma di una fede molto precisa: quella in Cristo Gesù, il Verbo Incarnato, morto e risorto per amore degli uomini, secondo quanto predetto dai Profeti e testimoniato dalle Scritture e dalla sacra Tradizione. Gli uomini di un tempo, anche i geni, le menti più raffinate, Dante Alighieri, san Bonaventura, sant’Alberto Magno, san Tommaso d’Aquino, Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro, non hanno trovato impossibile credere in Gesù, Verbo Incarnato, morto e risorto in qualità di Salvatore; non hanno trovato che una simile fede fosse in contrasto insanabile con la razionalità, anche se, ovviamente, ciascuno di essi a suo modo, hanno tutti collocato la fede su di un livello diverso, e non certo inferiore, rispetto a quello spettante alla ragione. E forse il nodo da sciogliere si trova proprio qui.

La fede in Gesù Cristo è, se vogliamo, difficile, nel senso che richiede un sacrifico nei confronti di ciò noi riteniamo probabile; non però un sacrifico intellettuale radicale, tanto meno un suicidio della ragione, poiché non vi è niente, in essa, che sia contrario e ripugnate alla ragione. I miracoli? Non sono contrari alla ragione: sono solo improbabili, se giudicati con il metro della realtà ordinaria. Al limite, è teoricamente possibile che la scienza stessa, un domani, dimostri non solo la “possibilità”, ma la realtà effettiva di quel che il cristianesimo chiama “miracolo”. Il problema della fede non è, o non è in prima istanza, quello di una impossibilità della ragione: che Gesù abbia camminato sulle acque non è contrario alla ragione, è solo difficile da credere sulla base dell’esperienza comune. Però, nell’esperienza comune, noi abbiamo a che fare con persone umane e non con il Verbo Incarnato: davanti ad esso, siamo in presenza di un livello di realtà difficile da capire, difficile perfino da “vedere”, come sarebbe difficile, o impossibile, ad un ipotetico essere bidimensionale, scorgerne uno a tre dimensioni. Giungiamo così a una importante conclusione: quel che è realmente difficile da credere, per l’uomo moderno, non è che Gesù abbia camminato sulle acque, o abbia moltiplicato i pani e i pesci, o abbia trasformato l’acqua in vino, e neppure che abbia richiamato in vita Lazzaro, o che, alla fine sia risorto da morte Egli stesso; no: quel che è difficile da credere, o meglio, quel che è difficile da accettare, è innanzitutto che Dio ci sia, e poi che, esistendo, si prenda cura delle sue creature. Pertanto non si tratta di una difficoltà propriamente intellettuale - il caso di Enrico Medi e quello di Antonino Zichichi lo dimostrano – bensì di una difficoltà di ordine psicologico: l’uomo moderno ha così poca fiducia nella relazione con l’altro, che gli riesce estremamente difficoltoso ammettere che l’Altro ci sia, e che sia interessato a lui. L’uomo moderno è da un lato estremamente superbo, al punto da volersi sostituire a Dio come re dell’universo; dall’altro è troppo poco pietoso di se stesso, è troppo carico di sottile auto-disprezzo, per cui non si ritiene degno d’amore e non può ammettere che qualcuno, e meno che mai Dio, possa amarlo a tal punto da volersi fare simile a lui e morire per lui. È questo che proprio gli riesce inaccettabile, prima ancora che incomprensibile. Se l’uomo moderno credesse nella relazione con l’altro, crederebbe anche che si può voler morire per amore di qualcuno; e se si volesse un po’ più di bene, accetterebbe l’idea di poter essere lui quel qualcuno, per amore del quale il Dio fattosi uomo ha voluto morire (e poi risorgere).

Pertanto, è una situazione paradossale quella in cui la cultura moderna ci ha sospinti, un poco alla volta, giorno dopo giorno, con una gradualità e una continuità tali da toglierci la chiara consapevolezza che ci stavamo spostando per l’azione di una scala mobile, pur se qualcuno di noi restava fermo sulle gambe. Nella nostra relazione essenziale con Dio, è come se fossimo paralizzati da un incantesimo, di cui noi stessi siamo i responsabili. Non riusciamo a credere in Lui, né nel suo amore, a causa della strana mescolanza di superbia e disamore verso noi stessi che abbiamo alimentato. La superbia parte dalla Rivoluzione scientifica e cresce con l’Illuminismo, toccando il vertice con la cultura del positivismo e del neopositivismo; il disamore di sé nasce, in parallelo, con l’evoluzionismo darwiniano, culmina con la psicanalisi freudiana, prosegue con le avanguardie novecentesche. L’uomo moderno si vede, contemporaneamente, come un sovrano assoluto e come una scimmia, un bruto senz’anima, capace degl’impulsi più ignobili; è fiero di se stesso sul piano razionale, per le sue conquiste scientifiche e la sua potenza tecnologica, ma, al tempo stesso, prova disgusto e orrore di sé, di ciò che è diventato, del mostro che alberga in lui e che potrebbe erompere ad ogni istante. Si sente come Jekyll e Hyde: si abbandona a sogni superomistici di grandezza, e intanto rabbrividisce ogni volta che si guarda nello specchio, e si domanda, incredulo e terrorizzato: Ma sono proprio io, quello? L’uomo contemporaneo è perfettamente compendiato nel personaggio di Smerdjakov ne I fratelli Karamazov: superbo e pieno di auto-disprezzo. Paradossalmente, un tale uomo è troppo evoluto e troppo primitivo per potersi affidare a Dio. È troppo evoluto perché la sua ragione, divenuta scettica, maligna, distruttiva, gli presenta tutta una serie di obiezioni che gli appaiono insuperabili, ma che non sono tali sul piano logico, dato che non lo sono state per menti raffinate come quelle di Tommaso d’Aquino, Dante, Pascal, Kierkegaard, mentre lo sono sul piano psicologico, a causa della sua superbia e auto-disprezzo, e anche per il timore del giudizio altrui: quanti intellettuali non piegano il ginocchio davanti a Cristo, perché temono l’ironia o il sarcasmo dei loro colleghi? E quel che fanno gli intellettuali, è preso a modello da milioni di persone comuni. Ma l’uomo moderno è anche troppo primitivo per poter credere in Dio, poiché il suo scientismo ha aggredito la sua dimensione spirituale, l’ha anestetizzata, prosciugata, svuotata: e un uomo privo di spiritualità regredisce a livelli quasi animaleschi, perché non è la ragione, ma la spiritualità a fare l’umanità dell’uomo. Con la sola ragione l’uomo può essere anche null’altro che un barbaro crudele e inumano: come talvolta accade, purtroppo, sia a livello individuale, con certi grandi criminali, sia a livello collettivo, nelle pagine più buie della storia. Ma le pagine della storia, così come quelle del diario personale di ogni individuo, sono sempre buie, quando si spegne la relazione con Dio: perché Dio è la nostra luce e senza di Lui sprofondiamo nelle tenebre e diveniamo capaci di azioni orrende. Una sola cosa possiamo fare, prima che sia troppo tardi: gettarci in ginocchio davanti a Dio e pregare così: Padre, non sono degno… ma tu di’ soltanto una parola, e l’anima mia sarà salvata.