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Dove nasce il divorzio tra sinistra e popolo

di Raffaele Liucci - 01/10/2017

Dove nasce il divorzio tra sinistra e popolo

Fonte: Il Sole 24 ore 



Oggi i «ceti medi riflessivi» guardano agli immigrati come a una risorsa ideologica, lontana dai conflitti reali
«Non conosco un libro destinato a farci tanto male quanto questo. Come negare tuttavia un suo contenuto di verità?». Dinnanzi al recente volume del sociologo torinese Luca Ricolfi, un lettore di sinistra potrebbe riesumare le parole di Pietro Nenni dedicate nel ’48 all’ultima fatica del suo conterraneo Leo Longanesi. Come mai le pagine di Ricolfi, lucide, urticanti, provocatorie, non passano inosservate? Perché costringono a contemplare un problema rimosso, ossia il divorzio fra sinistra e ceti popolari. Non si tratta di un evento contingente, in Italia addebitabile soltanto a Renzi, come sostengono i suoi detrattori, bensì di un processo storico che risale almeno agli anni Ottanta. Ricolfi ne ricostruisce la genesi, in connessione con le prime insorgenze populiste (ricordate, da noi, la Liga Veneta?), in grado di attrarre voti considerati patrimonio esclusivo delle forze progressiste.
Secondo Ricolfi, il populismo del 2000 non è soltanto una visione del mondo (il popolo incontaminato vs le élite corrotte). È anche una drammatica «domanda di protezione che sale dai ceti più svantaggiati». Un tempo era la sinistra a tutelarli, mentre ora la base sociale di quest’ultima è costituita soprattutto dai «ceti medi riflessivi» (Paul Ginsborg), attratti dai valori post-materialistici. Costoro, in genere, non vivono nei quartieri più degradati, impoveriti dalla disoccupazione e minacciati dall’immigrazione incontrollata (in Europa il tasso medio di criminalità degli stranieri è maggiore di quattro volte rispetto a quello dei nativi). Per questo l’attuale sinistra riformista e globalista «non vede letteralmente il problema» (la «mucca nel corridoio», per dirla alla Bersani), salvo poi trasecolare quando le crescenti diseguaglianze figlie della globalizzazione, l’insicurezza economica, la paura dello straniero (troppo spesso assimilata al razzismo) e l’insofferenza per gli eccessi del politicamente corretto gonfiano le vele dei Grillo e dei Trump.
Conscio di quanto le soluzioni offerte dal populismo siano comunque inadeguate, Ricolfi ci invita a un esercizio inusuale, ossia a indossare i panni altrui. Per esempio, immedesimandoci in chi abbia perso il lavoro perché l’azienda di cui era dipendente ha delocalizzato o viva in un condominio di periferia dove il racket degli alloggi è gestito da una banda di immigrati. Potrà mai, costui, dare il voto a esponenti politici che parlano ogni giorno della globalizzazione in termini di «straordinaria opportunità» e dell’immigrazione come di un «arricchimento culturale»? È vero: la società planetaria è irreversibile (le origini della globalizzazione contemporanea risalgono al 1870-1914) e senza la «libertà di emigrare» non ci saremmo mai evoluti e saremmo rimasti tutti in Africa, dove nacque l’homo sapiens, circa 100 mila anni fa. Ma snobbare i costi umani di questi fenomeni epocali è quantomeno miope.
Giungiamo al punto forse più scabroso della lettura di Ricolfi, e cioè al ruolo dell’immigrazione nell’immaginario simbolico dell’odierna sinistra, rimasta senza popolo: «La sinistra ha bisogno, un assoluto bisogno degli immigrati e delle politiche di accoglienza perché i migranti, in quanto deboli o ultimi per definizione, sono l’unico segno rimasto della sua vocazione a occuparsi di chi sta in basso». Senza di loro, la sinistra si troverebbe nuda, incapace di presentarsi ancora come tale.
L’eterodosso Ricolfi (una sorta di liberista no-global e anti-Maastricht) è tanto impietoso verso l’odierna sinistra quanto per nulla nostalgico di quella antica, entrambe prive di cultura empirica, nonché sempre riluttanti a sintonizzarsi con il proprio tempo. In fondo, questo libro rappresenta per Ricolfi anche un’implicita resa dei conti con il suo passato sinistrorso. Cominciò ad allontanarsene forse già nel 2005, allorché pubblicò un caustico pamphlet sulla presunta superiorità morale del ceto progressista. Oggi Ricolfi deplora il «pensiero fin troppo ascoltato di Norberto Bobbio» e incensa quello «troppo presto rimosso» dell’economista anti-keynesiano Friedrich von Hayek.
A volte, trascinato dall’abbrivio, l’autore vuole épater le bourgeois. Ad esempio, quando attribuisce al «fortunato libriccino» di Bobbio intitolato Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica (uscito nel 1994, qualche mese prima della vittoria berlusconiana), le radici del disprezzo coltivato dalla sinistra italiana verso la controparte politica: come se un solo volumetto potesse modellare la forma mentis di milioni di persone. Oppure, quando denuncia la «natura giacobina e decisamente antidemocratica» del Manifesto di Ventotene (1941), quasi un preludio dell’Europa tecnocratica di Maastricht. Ma così facendo decontestualizza un documento che, con tutti i suoi limiti, ebbe il merito di riflettere compiutamente sui danni del nazionalismo e sulla necessità di porvi rimedio promuovendo una federazione europea .
Luca Ricolfi, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi , Longanesi, Milano, pagg. 282, € 16,90