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Il ritorno alla terra, opportunità per i giovani

di Susanna Tamaro e Andrea Segrè - 14/10/2017

Il ritorno alla terra, opportunità per i giovani

Fonte: Il Corriere della Sera

L’urgente appello a prestare responsabilmente ascolto al grido della terra, lanciato da papa Francesco e dal patriarca ecumenico Bartolomeo I in occasione della giornata per la custodia del creato lo scorso 1 settembre, non può rimanere inascoltato. Troppo grande è la violenza che il nostro pianeta ha subito per mano dell’uomo nel corso degli ultimi secoli: un’era chiamata, non a caso, antropocene. Troppo grandi sono le conseguenze di questa pressione sugli stessi uomini, soprattutto quelli più poveri e vulnerabili. Riguarda anche le giovani generazioni, e il loro futuro.

La crisi ha colpito duramente le nostre due «case»: quella più piccola, l’economia, e quella più grande l’ecologia. Case perché la radice delle due parole è la stessa (oikos-eco-casa). In questo gioco lessicale l’ambiente economico e quello naturale sono intimamente collegati, anche se i più fanno fatica a riconoscere questo rapporto. Anzi, pretendono che le logiche economico-finanziarie governino le scelte ambientali-territoriali. Noi siamo invece convinti che la logica e, soprattutto, il buon senso vorrebbero la casa piccola, basata sull’immaterialità del denaro, rispettosa dei limiti materiali ovvero delle risorse naturali fondamenta della casa più grande: il suolo, l’acqua, l’energia.
Analogamente potremmo pensare che le azioni efficaci a livello locale possano essere estese al globale, ribaltando il famoso detto — caro alle generazioni precedenti a quella attuale che viene identificata con l’ultima lettera dell’alfabeto, la Z — pensa globale e agisci locale. Oggi dobbiamo fare il contrario, ripartendo dal piccolo e dal basso per cercare di risolvere i problemi più grandi.
La nostra proposta riguarda quindi la terra, intesa come bene comune locale, e l’economia (agraria) intesa come lavoro per la sua salvaguardia. Aggiungendo un elemento, anzi un ingrediente fondamentale: deve essere per i giovani.
Nonostante le misure avviate dagli ultimi governi per stimolare l’insediamento giovanile nelle campagne — con risultati timidi ma incoraggianti, a dimostrazione che la risposta c’è —, l’effetto evidente della crisi agricola è sotto i nostri occhi da anni. Continuo abbandono delle aree collinari e montane centro-meridionali; progressivo invecchiamento degli attivi agricoli; costi di produzione sempre più alti e prezzi di vendita sempre più bassi che spingono a non raccogliere i prodotti; eventi climatici estremi che colpiscono violentemente le aree rurali spopolate dove non c’è più governo del territorio; un apparato burocratico che scoraggia anche i più volonterosi e motivati.
La tendenza non è dunque cambiata. Tuttavia alcune ricerche dimostrano che l’occupazione in campagna attirerebbe chi ha meno di 35 anni e non ha origini agricole: sono gli agricoltori di prima generazione. Cosa si potrebbe fare, concretamente, per rendere possibile questa disponibilità a ritornare alla terra? Dobbiamo puntare su due «leve» fondamentali e intimamente connesse: la formazione e il reddito.
Per la formazione bisogna promuovere un patto con le scuole agrarie superiori e universitarie affinché possano offrire, gratuitamente per i beneficiari, dei corsi per imprenditori agricoli direttamente sul campo. Una sorta di moderne cattedre ambulanti, quelle dove i professori andavano nelle campagne e trasmettevano materialmente ai contadini i vari saperi agrari. Le nuove generazioni vanno guidate nella quotidianità e nelle difficoltà delle pratiche agricole riducendo al minimo il peso burocratico-amministrativo delle stesse. La teoria è importante ma la pratica è fondamentale per riuscire nell’impresa e garantire un reddito almeno soddisfacente, come dicevano una volta gli economisti agrari.
La seconda leva è collegata alla prima e riguarda appunto il reddito. Che non è scontato, soprattutto per chi inizia e non viene dal mondo contadino. Qui arriviamo alla seconda proposta. Garantire ai giovani un «reddito di contadinanza»: un contributo limitato nel tempo che possa fungere da humus, da concime, aspettando che gli investimenti necessari a far decollare l’impresa possano generare i primi frutti.
L’obiettivo — legando il reddito all’apprendimento — è quello di evitare la trappola mortificante dell’assegno da ritirare ogni mese per sopravvivere. Dobbiamo puntare a un incentivo che non intacchi la dignità di chi lo riceve, che non crei subalternità o dipendenza. Il reddito di contadinanza spezzerebbe questo circuito vizioso perché è legato all’operatività, al fare, in un settore, quello agricolo, che storicamente rappresenta il legame privilegiato tra la casa piccola e quella grande. E che ha bisogno, per realizzarsi, di conoscenza e tempi lunghi: quelli della natura. Gli agricoltori producendo il cibo che mangiamo tutelano il nostro territorio. Tanto meglio si fa questo lavoro tanto meglio staremo nelle nostre case.
Certo, i costi di questi due interventi andranno accuratamente stimati. Tuttavia è assai verosimile che possano essere inferiori rispetto ai benefici ottenibili in termini di salvaguardia della natura, dell’agricoltura che ne fa parte, di prevenzione dei disastri ambientali e del lavoro che la nostra Costituzione vorrebbe garantire in particolare ai giovani. E poi sarebbe un modo per rispondere concretamente all’appello lanciato dal Papa e dal Patriarca. Ma il nostro Paese saprà farsene carico?