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Chiedere scusa al fratello maggiore della parabola?

di Francesco Lamendola - 23/11/2017

Chiedere scusa al fratello maggiore della parabola?

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

Il primo ad arrivarci, o, quanto meno, ad esplicitare la sua perplessità, è stato il padre domenicano Riccardo Barile, il quale, con un articolo apparso su La Nuova Bussola Quotidiana del 09/10/2017, ha svolto una riflessione intitolata Chiediamo scusa al fratello maggiore della parabola. Invitiamo tutti ad andare a leggerselo: è molto interessante e molto attuale. Egli nota, opportunamente, che il significato della parabola evangelica del padre misericordioso, di solito conosciuta come parabola del figlio prodigo, non può essere separato dal suo contesto; che essa è la terza, dopo quella della moneta perduta dalla massaia e della pecora smarrita dal pastore, sul medesimo argomento: la salvezza di quanti sono “perduti” per il Regno di Dio, ossia dei peccatori; e che Gesù, facendo questi tre esempi, rispondeva a una critica diretta dei farisei e degli scribi, i quali, avendo visto che pubblicani e peccatori si avvicinavano a Lui per ascoltarlo, si erano affrettati a mormorare: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro, come riferito dal Vangelo di Luca (15, 2). Ora, se si omette questa circostanza particolarissima, e se si vuole assolutizzare l’elemento polemico che Gesù inserisce nella parabola, diciamo pure la sua deliberata forzatura di una situazione paradigmatica, allo scopo di replicare alle maligne e interessate insinuazioni dei suoi nemici, si finisce per stravolgere il senso della parabola stessa e per capovolgere l’insegnamento che Gesù, con essa, voleva dare ai suoi ascoltatori. Questa è la giusta osservazione di padre Barile: che non si può fare del figlio prodigo un eroe, né del padre misericordioso un padre ingiusto, il quale ignora la fedeltà e la bontà del figlio maggiore; né, soprattutto, fare di quest’ultimo il prototipo dell’invidioso, del subdolo, del meschino che non si rallegra per il ritorno di suo fratello.
Poiché riteniamo che qui sia in gioco un punto fondamentale del Vangelo e di tutta la Rivelazione divina, ci permettiamo di sviluppare ulteriormente la riflessione, ampliandone ancor più la portata di carattere generale. Padre Barile, assai giustamente, è preoccupato per la strumentalizzazione che esercitano quanti assolutizzano il significato letterale della parabola e non ne rispettano il senso, anzi, lo capovolgono addirittura. Egli precisa che il concetto centrale è il gaudio universale per la salvezza di un peccatore che si pente, e su questo non può esserci il minimo dubbio; dopo di che, è lecito nutrite molti e ragionevoli dubbi sull’onestà delle intenzioni di chi vuol far passare il fratello maggiore per quel che non è. Sul piano umano, infatti, è naturale che il fratello maggiore si rammarichi del fatto che suo padre, per lui, non avesse mai fatto alcuna festa, che non avesse mai allestito un pranzo con un solo capretto, mentre ora, per il fratello scioperato che è tornato a casa, dopo anni di assenza, durante la quale è stato lui, il maggiore, a mandare avanti la baracca, con fatica e sacrificio quotidiano, si prepara un banchetto col vitello più grasso; così come è naturale lo sconcerto di quegli operai che si vedono pagare un soldo per l’intera giornata di lavoro nei campi, mentre un soldo viene dato dal padrone anche a quegli operai che hanno lavorato poche ore soltanto, oltretutto quelle più fresche della sera. Ora, è vero che essi avevano concordato un soldo di paga, ma è altrettanto vero che le parole del padrone, davanti al loro mormorio, appaiono un po’ troppo severe, quasi sprezzanti: Forse che io non possa fare del mio denaro quello che voglio? Oppure siete invidiosi perché io sono buono? Prendete dunque la vostra paga e andatavene, perché io voglio dare anche agli ultimi quello che ho dato ai primi. Anche in quel caso, le parole di Gesù vanno contestualizzate: se non si tiene conto del fatto che Gesù era costantemente criticato dai farisei e dagli scribi per una sua presunta ed eccessiva familiarità coi peccati, che a quegli altri sembrava disprezzo della Legge, al punto che lo criticavano persino per aver guarito dei malati in giorno di sabato, si rischia di snaturare il senso delle sue parole. Egli non voleva dire che il Padre celeste è simile a un padrone capriccioso e imprevedibile, che dà molto a chi non merita, e dà poco, in proporzione, a chi ha ben meritato; al contrario, Egli vuol far capire che il metro di giustizia umano è troppo corto per penetrare il mistero della bontà divina, e che nessuno può presumere di giudicare, dall’esterno, ciò che è giusto agli occhi di Dio. Ed è talmente concentrato su questo concetto, che, quando un uomo lo apostrofa chiamandolo “maestro buono”, Egli reagisce, ribattendo: Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non il Padre che è nei Cieli. Come dire: la bontà appartiene a Dio solo; di quel che noi pensiamo, diciamo o facciamo riguardo ad essa, solamente il Padre celeste è giusto giudice, e noi dobbiamo rimetterci interamente al suo giudizio. Una cosa, però, è certa: Gesù non ha mai inteso dire che il peccatore è migliore di colui che non pecca; o che a Dio i giusti sono meno graditi, e meno cari al suo cuore, che non i peccatori. Si rilegga bene anche la parabola del figlio prodigo: viene detto che il padre, quando seppe che il figlio maggiore si rifiutava di entrare in casa, uscì lui per parlargli e, addirittura, per “supplicarlo”. E tanto dovrebbe bastare per chiarire che Gesù non intende presentare quel figlio come il prototipo dell’invidioso, e che si rende conto di come sia delicato, per un padre, far capire a due figli così diversi che li ama entrambi e che non fa preferenze, ma, semplicemente, che gioisce per la salvezza del figlio che credeva perduto. Chiunque sia genitore e abbia almeno due figli, o due figlie, di temperamento assai diverso fra loro, sa molto bene di che cosa stiamo parlando, e non sottovaluta la complessità delle dinamiche relazionali che si vengono a creare.
In ogni caso, oggi siamo in presenza di una situazione nuova e paradossale: il senso delle parole di Gesù viene forzato oltre ogni limite, per accreditare una interpretazione inedita e “rivoluzionaria” del Vangelo: cioè per colpire i sostenitori della vera dottrina cattolica, per screditare e biasimare quanti si tengono stretti fedelmente ad essa, dipingendoli come delle persone “rigide”, “chiuse”, “egoiste”, poco misericordiose, e per fare dei peccatori i veri detentori della Verità divina. Qui siamo in presenza di una malizia veramente diabolica: l’affermazione di Gesù, che i pubblicani e le prostitute precederanno gli scribi e i farisei nel Regno dei Cieli, viene strumentalizzata per fargli dire che i peccatori andranno in Cielo, ma senza pentimento, come gli omosessuali e le prostitute del blasfemo, orribile  affresco del duomo di Terni, voluto, commissionato e profumatamente pagato da monsignor Paglia, quand’era vescovo di quella città (e che, infatti, se n’è andato lasciando le casse diocesane in rosso), ed eseguiti da un pittore argentino, tale Ricardo Cinalli, dichiaratamente omosessuale, nonché militante LGBT. Lì si vede il Cristo medesimo (un Cristo rappresentato in maniera insopportabilmente oscena, con le pudenda in vista) che sta portando in alto i peccatori, verso la gloria celeste, entro una rete da pesca, mentre la scena viene osservata da angeli che paiono dei demoni, tanto è torvo e inquietante il loro aspetto: ma non vi è traccia di pentimento sui volti di quelle persone, al contrario, esse continuano a toccarsi e ad accarezzarsi in maniera lasciva (e il bello è che, fra quelle persone, c’è anche l’autoritratto del monsignore in persona: contento lui, contenti tutti…), e dunque il messaggio che “passa” è che i peccatori vanno in Cielo così come sono, senza pentirsi, senza cambiar vita, senza conversione, e ci vanno proprio in quanto peccatori, cioè legittimati e approvati nel loro peccato. Orribile stravolgimento della Verità rivelata: il Vangelo, secondo questa “versione”, diventa una specie di contro-rivelazione: non c’è bisogno di alcuna Redenzione, perché i peccatori sono già salvi, e sono salvi proprio perché Dio ama i peccatori. Ma allora Gesù Cristo, il Verbo Incarnato, che cosa è venuto a fare sulla terra? Poteva risparmiarsi la Passione, la Morte e la Resurrezione; poteva risparmiarsi tutto ciò, perché non vi era alcuna necessità che Egli soffrisse, morisse e risorgesse dal sepolcro. La Buona Novella, secondo la teologia di Vincenzo Paglia, è che i peccatori sono già salvi fin da ora; e i transessuali come Luxuria, nell’idea del cattolicesimo che hanno i vari don Andrea Gallo, sono le pecorelle predilette del Signore, meglio se si trasformano in attivisti dei movimenti LGBT, e vanno per gli asili e le scuole a insegnare ai bambini la bella ideologia gender, nel qual caso Iddio li ama ancora di più. E d’altronde, chi siamo noi per giudicare?
Il trucco da quattro soldi sotteso a questa incredibile deformazione del Vangelo, del vero Vangelo del nostro Signore Gesù Cristo, è sorvolare il “piccolo” dettaglio che Gesù, sì, amava i peccatori, come il padre misericordioso amava il figlio traviato: ma perché soffrivano entrambi al pensiero della loro rovina, e perché non cessavano di sperare e di pregare affinché si ravvedessero. Se si toglie il fatto che Gesù chiama tutti alla conversione e al pentimento, a cominciare da quanti sono più immediatamente in pericolo, come la pecorella che si è smarrita lontano dal gregge; se si sorvola su questo fatto, e si tace sull’ammonizione che Gesù rivolge alla donna adultera, dopo averla sottratta alle grinfie di quanti volevano lapidarla: Vai, e d’ora in avanti non peccare più; se si tace o si sorvola su quel e non peccare più, si capovolge completamente il significato del Vangelo, cioè della divina Redenzione. Eppure, è proprio quel che un clero modernista e una neochiesa progressista stanno cercando fare: e stanno cercando di farlo da parecchio tempo, particolarmente a partire dal Concilio Vaticano II. Tutto ha inizio con la dichiarazione Nostra aetate del 28 ottobre 1965, dedicata ai rapporti fra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane. È possibile che le intenzioni, almeno di una parte dei Padri conciliari, fossero buone: ma quel che ne è risultato è stato l’approvazione di un falso principio, cioè che la Rivelazione di Gesù Cristo non è il passaggio necessario e indispensabile verso la Verità e, quindi, anche verso la salvezza. In particolare, incomincia allora quel ribaltamento dei rapporti con il giudaismo che culminerà, ai nostri giorni, nell’esplicita dichiarazione che gli ebrei non hanno necessità di convertirsi, riconoscendo la divinità di Cristo, perché l’Antica Alleanza è ancora valida: ma se se le cose stanno così, ripetiamo, Gesù Cristo che cosa è venuto a fare? Egli è venuto nel mondo per la salvezza di tutti gli uomini: segno che tutti gi uomini sono bisognosi della sua Redenzione, nessuno escluso. Tanto meno sono esclusi quanti, o perché peccatori, o perché seguaci di altre religioni, rifiutano il Vangelo e ne sono lontani, negano la divinità di Gesù, negano la morale insegnata da Lui. Come! Dopo duemila anni di Magistero, il quale incrollabilmente, sul solidissimo, duplice fondamento della Tradizione e della Scrittura, ha sempre asserito che nulla salus extra ecclesiam, non vi sono altre strade per la Verità e la salvezza, adesso un certo clero viene a dirci che le strade sono tante, compresa l’adorazione del dio Ganesha, con la testa di elefante, trionfalmente invitato ad “entrare” in una chiesa dal parroco in persona, per la gioia, si fa per dire, non solo dei suoi adoratori induisti, ma anche dei cattolici?
Siamo qui in presenza di una manovra infame, quella mirante a sottrarci la Verità della divina Rivelazione, per così dire, sotto il naso; una manovra alla quale dobbiamo opporci e reagire con tutte le nostre forze, perché la posta in gioco è altissima, inestimabile. Non era mai accaduto che si profilasse un pericolo così immediato e sconvolgente: che qualcuno, dall’interno della Chiesa, arrivasse a rovesciare il senso del suo insegnamento. L’insegnamento della Chiesa, infatti, non appartiene alla Chiesa, né ai vescovi, né al papa: essi hanno solo il dovere di custodire e trasmettere la Verità divina; quel che dicono, non lo dicono da sé, perché non si tratta di parole umane, ma della Parola divina; e la Parola divina è il Verbo incarnato, Gesù Cristo. Chiunque presuma di avere la libertà e il diritto di cambiare quella Parola, sta tradendo il mandato ricevuto; se si tratta di laici, ad esempio di sedicenti teologi o storici “cattolici”, stanno abusando dell’aggettivo “cattolico”, mentre dovrebbero qualificarsi con il loro vero nome: modernisti, vale a dire eretici e nemici subdoli della vera Chiesa di Gesù Cristo. Situazione inedita, gravissima: la Chiesa in balia di eretici che stanno stravolgendo la divina Parola e la stanno trasformando, riducendola a parola puramente umana, e, come tale, presuntuosa e superba, ma soprattutto ingannevole. Anche qui, il trucco c’è, e si vede. Non potendo dire apertamente quel che stanno facendo, ossia che stanno tentando di adulterare la Parola divina, ecco che quei signori – a partire dal Concilio Vaticano II - hanno “scoperto” la parola-trappola per contrabbandare una falsa dottrina e spacciarla per quella vera: la parola è approfondimento. Secondo loro, la Verità divina è sempre quella (e ci mancherebbe…), ma cresce la nostra capacità di approfondirla, e perciò di comprenderla sempre meglio. Straordinario: la Verità divina, in tal modo, è posta sullo stesso piano di una qualsiasi verità umana, per la quale vale la legge del progresso. Ma non è così. Nelle scienze umane, il trascorrere dei secoli porta a nuove scoperte e quindi, effettivamente, a una maggiore comprensione delle cose; nella Parola di Dio, che è Cristo, non c’è niente da approfondire, nel senso che intendono loro, cioè niente da far progredire. Che c’entra il santo Vangelo con l’idea di progresso e con le sue dinamiche? Lasciamo il progresso agli illuministi e teniamo per fermo che la Verità divina non progredisce per niente, poiché essa si rivela ai fedeli in tutta la sua pienezza, ora come duemila anni fa: e che il cardinale Karl Rahner o il teologo Enzo Bianchi non ne sanno più di quanto ne sapesse san Paolo, né hanno capito più cose di quante ne avesse capite sant’Agostino. Ma era inevitabile che si arrivasse a tali aberrazioni, da quando la svolta antropologica  in teologia ha spostato il baricentro della Verità da Dio all’uomo…