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Siamo in guerra, dobbiamo prenderne atto

di Francesco Lamendola - 05/12/2017

Siamo in guerra, dobbiamo prenderne atto

Fonte: Accademia nuova Italia

 

Siamo in guerra, ma non siamo disposti a prenderne atto: i nostri politici, le nostre (sedicenti) guide religiose, i nostro intellettuali, questi meno di tutti gli altri, non vogliono ammetterlo, anzi, lo negano fermissimamente, e sono pronti a scagliare le loro folgori, anche giudiziarie, contro le sentinelle che gridano che il nemico è alle porte, o meglio, che è già dentro le porte, e ci sta massacrando. No, il popolo italiano non deve sapere. Tutto al contrario: il popolo italiano deve essere indotto a credere che il disarmo unilaterale, lo spalancare le porte e le finestre all’invasore, il cedergli la nostra cittadinanza e la nostra sovranità, regalargli le nostre case, rimetterlo in libertà se compie dei reati anche assai gravi, tutto questo è una buona e saggia politica di accoglienza, un atteggiamento lungimirante che ci permetterà di fonderci armoniosamente con i “nuovi” italiani e di creare, così, su due piedi, cioè nel giro di una o due generazioni, un’altra Italia, non più italiana, non più europea, non più occidentale, non più cristiana e non più cattolica: ma che tutto ciò sarà bello, esaltante, pieno di possibilità per i nostri figli. Quasi una nuova Terra Promessa. Quasi una muova versione delle classiche religioni di salvezza; solo che la salvezza, questa volta, passerà per la distruzione della nostra identità, delle nostre radici, della nostra storia, della nostra cultura, della nostra civiltà.
Sorge perciò, inevitabile, una domanda: ma ci hanno presi tutti per dei deficienti? Come possono darci a bere una fandonia così grande: che dalla nostra estinzione nascerà un mondo migliore e più conveniente per tutti? Nemmeno ai Pellerossa nordamericani, gli uomini bianchi arrivavano a rifilarle così grosse: quando li costringevano a entrare nelle riserve, dopo averli messi in ginocchio con la fame e con la guerra, dopo averli spogliati delle loro terre e della loro fierezza, non pretendevano di sentirsi dire: “grazie”; non avevano la faccia tosta di aspettarsi di ricevere delle frasi di eterna gratitudine. Mentre a noi, i nostri politici felloni e i nostri sacerdoti infedeli, questo stanno dicendo: che dobbiamo ringraziare i nostri invasori, che dobbiamo considerarci fortunati di questa invasione. I vari Boeri ci dicono, infatti, che è solo per merito degli immigrati se l’Inps potrà pagare in futuro le pensioni agli italiani; e i vari Paglia e Galantino ci assicurano che più immigrati islamici verranno in Italia, tanto meglio sarà per tutti, anche per i cattolici: basterà stringersi un poco, aggiungere un posto a tavola e ceder loro qualche chiesa, perché ne facciano altrettante moschee. Forse dovremo rinunciare al nostro modo di essere e di vivere; forse dovremo mettere i mutandoni alle statue dei nostri musei, coprire i nudi, perché i capi di Stato islamici non si scandalizzino con la nostra arte un po’ troppo disinibita; forse dovremo pregare un po’ di nascosto, occultando i Crocifissi e gli altri simboli della nostra religione; forse le nostre ragazze dovranno rinunciare ai pantaloni e tutte le donne, ad andare in giro libere e senza il velo sul capo: ma che importa? Avremo in cambio la società multietnica, benedizione dei popoli: ci sprovincializzeremo un poco, finalmente. Ora come ora, siamo così noiosamente europei, siamo così banalmente cattolici: è tempo che spalanchiamo le finestre sul mondo. Dio non è cattolico, ha detto il papa Francesco chiaro e tondo, e i muri vanno abbattuti, bisogna solo gettare ponti. Dialogare, aprirsi, accogliere, includere, ospitare: ecco i nostri imperativi categorici per il terzo millennio. E chi non la pensa così, la peste lo colga.
Domenica 3 dicembre 2017, pieno centro a Milano, galleria Corso Fontana: un giorno come tanti, una cronaca come tante; al punto che non fanno più notizia. Nel locale di McDonald’s, un gruppo di ragazzi nordafricani infastidivano i clienti: erano entrati e si erano seduti al tavolo, ma non avevano ordinato nulla, non consumavano, in compenso facevano i bulli, i prepotenti, forti del numero. Un addetto alla vigilanza si è avvicinato e li ha invitati a uscire, accompagnandoli fino alla porta; ma appena giunti in strada, gli stranieri lo hanno circondato, lo hanno aggredito – una guardia giurata di soli ventinove anni -, lo hanno tempestato di calci e pugni, e, per finire, gli hanno sferrato una coltellata nella schiena, che avrebbe potuto ucciderlo. Poi, come loro costume, si sono dati alla fuga. L’uomo è ora ricoverato in ospedale, in condizioni molto serie: dal codice giallo è passato al codice rosso, segno di un peggioramento. Speriamo che si riprenda; sta di fatto che, di episodi come questo, ne succedono tutti i santi giorni, in tutte le città e i paesi d’Italia; alcuni anche più gravi, altri meno, ma tutti caratterizzati dalle stesse dinamiche: l’arroganza e la violenza cieca di questi sedicenti profughi, di questi stranieri che non si sa neanche chi siano e quanti siano, se regolari o clandestini, se provvisti di documenti oppure no; e l’incredibile remissività della magistratura, che quando qualcuno di loro viene arrestato, con gravi fatiche e pericoli, da parte degli uomini delle forze dell’ordine, li rimettono prontamente in libertà, perché imbevuti di una cultura marxista e sessantottina, se non anche cattocomunista, secondo la quale la legge deve difendere sempre il più debole, e il più debole, chi sa perché, è sempre lo straniero: anche se entra nelle case per rubare, o picchiare, o stuprare, e l’inquilino reagisce per  difendersi.
Ormai qualsiasi bigliettaio che, sul treno o sulla corriera, chieda a questi stranieri di mostrargli il biglietto della corsa, rischia gli insulti, le botte e le coltellate; e qualunque poliziotto o carabiniere in servizio, che chieda i documenti a qualche africano che si aggira per i giardini delle nostre città, negli ambienti tipici dello spaccio della droga, rischia i calci, i pugni e, pure lui, le coltellate. Ma niente paura: se il “povero” negro verrà infine arrestato e tradotto in carcere, ci penserà un giudice buonista e progressista a tirarlo fuori, in quattro e quattr’otto: non sia mai che il poveretto, venuto in Italia in cerca di “un futuro migliore”, e palesemente afflitto da una sindrome di “disagio ambientale”, debba rendere conto di quello che ha fatto; eh, no, giammai: sarebbe razzismo; sarebbe intolleranza; sarebbe pregiudizio etnocentrico. E se gli uomini delle forze dell’ordine, armati e in divisa, rischiano le coltellate, e non di rado se le prendono, figuriamoci cosa rischiano i nostri pensionati, le nonne che vanno in posta a ritirare un vaglia, o che vanno al supermercato a far la spesa: rischiano la pelle, tutti i santi giorni, specialmente in certi quartieri. Ma che gliene importa, ai nostri politici di sinistra e ai nostri preti di strada, amici sempre e solo dei negri e degli islamici? Nulla, assolutamente nulla. Hanno altre cose a cui pensare. I politici di sinistra dovevano pensare a far approvare il matrimonio omosessuale, anche perché alcuni di loro vi erano direttamente interessati: e così è stato. Quelli sì, che sono problemi sociali meritevoli della massima attenzione; quelle sono cose di cui si deve parlare, perché in gioco vi sono questioni di civiltà. È civile una nazione che legittima l’unione fra due uomini e due donne: questa è la loro idea di civiltà. E che consente a quei due uomini, se hanno soldi in tasca, di comperarsi un bambino da una donna povera, che lo scodella apposta per loro - per ora andando all’estero, ma domani, speriamo, anche nel nostro Paese - mediante la pratica dell’utero in affitto. Questo importa ai partiti di sinistra; queste sono le loro battaglie di civiltà. Mica preoccuparsi delle nonnine che vengono aggredite, picchiate e derubate ogni giorno dai giovanottoni nigeriani, di quei quattro soldi che avevano in borsa per comprare il pane e il latte. E quanto ai preti progressisti e modernisti, quel che importa a loro è il futuro, la gioventù: aria nuova, aria fresca: facciamo spazio a tutti questi giovani africani, pieni di ormoni e di voglia di vivere. Noi, abbiano già vissuto abbastanza; abbiamo avuto, abbiamo dato: mettiamoci il cuore in pace. L’unico rimedio alla nostra società stanca e senescente è una bella iniezione di gioventù africana ed asiatica, in dosi da cavallo. E poi, non lo dice il Vangelo, che bisogna accogliere l’affamato, l’assetato, l’ignudo, il carcerato? Benissimo. L’unica cosa strana è che, fino a quando l’affamato, l’assetato e l’ignudo era un italiano, nessuno ha mai visto questi preti progressisti e modernisti prendersela tanto calda; nessuno li ha visti metter loro a disposizione non solo le sale parrocchiali, ma anche le chiese stesse. Ora che si tratta di negri e d’islamici, invece, sì. Vuoi vedere che si tratta proprio del colore della pelle? Solo che, in questo caso, sarebbe proprio una forma palese di razzismo all’incontrario.
Siamo arrivati al punto che i mezzi d’informazione si autocensurano; se a compiere reati di questo genere sono degli immigrati, essi tacciono la loro nazionalità, tentano di dare a intendere che gli autori erano dei cittadini italiani. Così è stato per quella bambina di Terni di dodici anni, rimasta incinta di un “trentunenne”: così la raccontavano le due maggiori testate nazionali, La Repubblica e il Corriere della Sera. Per sapere che quel trentunenne era uno straniero, ce n’è voluto del bello e del buono. Non che l’Italia sia sola, in questa politica suicida di auto-censura e di auto-inganno; non si può dire che le femministe tedesche, per non parlare di quelle italiane, se la siano presa tanto calda per gli stupri di massa di Colonia, quando decine di donne di quella città, la sera di Capodanno del 2016, vennero aggredite da un migliaio di baldi giovanotti arabi e africani: prese a sputi, sbeffeggiate, picchiate, insultate e stuprate. Ora, nel corso del processo, è venuto fuori che le vittime furono 500: 500 donne tedesche aggredite e violentate in casa loro, nella ordinatissima Germania della signora Merkel, nel Paese leader del politicamente corretto. Ma quanto se e è parlato in giro? Quanto ne hanno parlato i politici e i mass-media? Tutti, tutti si sono autocensurati. Gli stupratori erano poveri profughi, erano islamici, e allora guai a fare di tutta l’erba un fascio, guai a lasciarsi trasportare dai pregiudizi; e poi, si sa, i tedeschi hanno delle colpe storiche da farsi perdonare, delle colpe così orripilanti che, forse, non basteranno mille anni perché siano loro condonate. Quindi…
In compenso, tornando alle cose di casa nostra, apertura dei telegiornali sul terribile fattaccio della bandiera “nazista”, che poi non era tale, ma della vecchia Germania imperiale, esposta da una finestra della caserma dei carabinieri, a Firenze; che poi non era ”esposta”, ma si vedeva, anzi, s’intravedeva, e a fatica, dalla strada. Così ha “aperto” il telegiornale di mezzogiorno della Terza rete, sempre il 3 dicembre: col ministro Pinotti che invoca una punizione esemplare per l’orrendo criminale. Reo di aver propagandato l’ideologia nazista. Queste sono le grandi notizie che vengono date in pasto agli italiani; per questo i contribuenti pagano il canone della Rai; e di tutti i crimini veri, e quotidiani, compiuti dagli immigrati, moltissimi dei quali sono “profughi” richiedenti asilo, che passano il tempo a spacciare droga, rubare, rapinare, picchiare, stuprare, di quello ci dicono il minimo indispensabile, e anche qualcosa di meno. Insomma, il pericolo non è l’invasione in atto da parte di milioni di stranieri, africani ed asiatici, quasi tutti islamici, i quali stanno terrorizzando la nostra popolazione e islamizzando il nostro Paese; no: il vero pericolo è che un giovanotto in uniforme abbia messo a capo del suo letto una bandiera tedesca di un secolo fa. Quello è il pericolo che ci deve far tremare; di ciò dobbiamo aver paura. In questo modo si addormentano le coscienze, si rimbambiscono i cervelli, si cloroformizza l’opinione pubblica. Il pericolo non c’è; il pericolo è il fascismo di quasi un secolo fa: non sia mai che ritorni, se solo abbassiamo un po’ la guardia. Le ondate di falsi profughi non sono un problema; anzi, sono una risorsa. E finché la nostra percezione dei problemi sarà questa, non c’è nulla da sperare: la nostra fine è certa, come quella del vitello condotto per la cavezza al mattatoio.
Ma che cosa dovremmo fare, dunque, per non lasciarci trascinare al mattatoio? Primo: prendere atto che il problema c’è; che la guerra c’è; e che dobbiamo difenderci. Secondo: recuperare la nostra fierezza, tornare alle nostre radici, affermare la nostra identità. Terzo: prendere l’iniziativa sul piano politico-militare, varare una spedizione sulle coste della Libia per distruggere interamente le flottiglie dei barconi, come sostiene da tempo il professor Paolo Becchi: solo così potremo fermare l’invasione, è inutile dare soldi ai sedicenti governi libici, che non contano nulla sul terreno: sono soldi buttati. Il mondo intero ci getterà la croce addosso, ma, in segreto, ciascuno penserà che abbiamo fatto bene, che dovevamo farlo prima. Un Paese serio, che si rispetti e si faccia rispettare, agisce così: valuta quali sono i propri interessi vitali e, se li vede minacciati, a mali estremi risponde con estremi rimedi. Il mare davanti alla Libia è il mare di casa nostra: non possiamo lasciare che quei porti siano abbandonati a dei governi fluttuanti e irresponsabili. Abbiamo non solo il diritto, ma il dovere di agire: di agire da grande Paese, quale in realtà siamo, anche se ce ne siamo scordati. Davanti ai cosiddetti flussi migratori (espressione ingannevole, perché tende a presentarli come una realtà naturale, e quindi inarrestabile, mentre sono frutto di un disegno planetario), abbiamo due possibilità: tentare di frenarli, oppure incoraggiarli. Un passo avanti lo abbiamo fatto ponendo dei limiti e sfrattando le cosiddette Organizzazioni non governative, che scaricavamo in casa nostra migliaia di falsi profughi al giorno. Ora dobbiamo andare avanti per quella strada: la strada della dissuasione. Bisogna far capire ai migranti/invasori che il tempo delle vacche grasse è finito, e non sono più graditi. Ma come fare, sinché avremo dei politici e un clero che seguitano a incoraggiarli in ogni modo, e dei mercanti di schiavi che li richiedono, per farli lavorare a cinque euro il giorno?