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E' il Federalismo l’antidoto alla Globalizzazione

di Paolo Becchi - 20/12/2017

E' il Federalismo l’antidoto alla Globalizzazione

Fonte: SakerItalia

Ormai solo uno zar ci può salvare” è l’inconsueto (per la stampa italiana) titolo di un fondo comparso su Libero il 30 novembre scorso a firma Paolo Becchi. Gli Stati Uniti, argomenta il Prof. Becchi, erano la terra votata alla “salvezza intrisa di senso religioso del genere umano”, ma sono ora divenuti “il luogo dove si prepara un futuro post umano, dove gli uomini saranno governati da intelligenze artificiali robotizzate”. L’Europa ha perso il suo carisma, ed è incapace di resistere alla deriva di oltre Oceano. E allora solo Mosca, la terza Roma, potrà rianimarci con “l’idea di un’altra Europa, perché la Russia è sempre stata essa stessa una idea di Europa”: è lì che “si è spostato il katèchon, l’ultima forza che possa frenare l’americanizzazione del mondo. L’ultima speranza anche  per l’Europa”.

Non avevamo bisogno di questa ultima prova per essere incuriositi dal pensiero di Paolo Becchi, filosofo, professore di Filosofia del Diritto a Genova, autore di numerose pubblicazioni su temi che spaziano dalla filosofia del diritto, alla storia della cultura giuridica, alla bioetica. Grazie alle sue fulminanti apparizioni televisive, che lo vedono persecutore inarrestabile di ogni forma di ortodossia globalista del politicamente corretto, il Prof. Becchi è in ogni caso un personaggio la cui notorietà ha superato di gran lunga il perimetro dell’accademia per diventare comune presso il grande pubblico.

Avvicinandoci alla fine dell’anno abbiamo pensato di chiedere al professore una sua opinione su quello che ci aspetta nel prossimo scorcio di futuro. Ne è seguita una interessante chiacchierata che spazia dal tema della sovranità a quello della politica estera, dal tema della bioetica a quello delle prossime elezioni italiane. E’ il nostro regalo di Natale a voi lettori: speriamo davvero che leggere il pensiero del professore possa essere interessante per voi così come lo è stato per noi ascoltarlo.

Avendo letto alcuni suoi interessanti contributi relativi a diverse discipline, contributi di largo respiro, che contengono importanti indicazioni sul mondo in cui noi ed i nostri figli vivremo, la nostra redazione ha pensato di soffermarsi su questi aspetti. Ad esempio, prendendo le mosse da quella che potrebbe essere la concezione dello stato nei prossimi decenni, ci incuriosiva il tipo di lettura “sovranista “ da Lei proposta che, se abbiamo capito bene, non si esaurisce nel riportare le lancette dell’orologio indietro al secolo scorso, ma si apre anche al mutamento del mondo contemporaneo e alle esperienze passate tentando nuove strade. E’ così?

Credo che si debba affrontare la questione partendo da un problema, il problema della crisi degli stati nazionali. E’ fuori discussione che tale crisi esista, questo è un dato di fatto. Il problema è come uscirne. Le ipotesi, sul punto, sono molto diverse fra loro. Ci sono quelli che sostengono, partendo dall’interpretazione offerta da Carl Schmitt, che l’epoca dello stato nazionale, quella costruzione nata in Europa a partire dal ‘500, sia definitivamente tramontata. Per costoro è inutile proseguire su questa strada, visto che gli stati nazionali sono ormai deperiti.  Purtroppo, però, questo discorso del deperimento si fa da parecchio tempo, almeno dagli anni sessanta, ed anche prima: Carl Schmitt aveva elaborato teorie che andavano proprio in direzione del superamento dello stato nazionale, partendo dalla crisi dello jus publicum europeum. Io non voglio contestare questa analisi, ma solo attirare l’attenzione su di un fatto, ovvero che gli stati nazionali hanno una persistenza superiore a quella che ci si poteva aspettare: gli stati nazionali continuano ad esistere. Certo, alcune istanze, come le richieste autonomistiche o addirittura indipendentiste (e si pensa immediatamente al caso della Catalogna) parrebbero segnalare una crisi dello stato nazionale. Ma anche qui: cosa vogliono, in fondo, i Catalani? Rifarsi un loro stato, del tutto indipendente. Quindi la forma stato, e lo stato nazionale in particolare, non mi pare che venga messo in discussione. Certo, c’è l’idea di separarsi perché non ci si riconosce più in quello stato. Ma questo lo si fa per crearne un altro. Si vede quindi che la forma stato non è superata in assoluto. Piuttosto si osserva che alcuni stati nazionali, così come si sono strutturati al tempo della loro formazione, entrano in crisi in alcuni aspetti particolari. Prendiamo l’esempio della Catalogna: questa comunità non ha mai avuto un’integrazione completa, ha conservato una propria lingua, una propria tradizione, ha cercato di avere il più possibile autonomia, anche fiscale. Lo stato nazionale non ha voluto accogliere tutte queste richieste costringendoli a chiedere l’indipendenza. Tutto ciò non contesta l’idea dello stato nazionale: semplicemente da uno se ne vogliono fare due. Non riesco quindi a vedere nessun superamento dello Stato. Eventualmente avremo la nascita di un nuovo Stato. Ma non c’è una nuova forma di organizzazione politica per cui i popoli decidono di vivere diversamente. I Catalani hanno un parlamento, un governo, un’amministrazione paragonabili a quelli di qualunque stato. In conclusione ad entrare in crisi è un’idea di stato nazionale centralistico, una specifica organizzazione dello stato che non lascia spazio alla pluralità di istanze presenti sul suo territorio. E’ questo tipo di stato, di provenienza se vogliamo napoleonica, fondato su un’ dea di sovranità leviatanica, ad essere entrato definitivamente in crisi. Io però ho cercato di evidenziare in alcuni scritti che nella storia del pensiero politico europeo non c’è solo questa idea bodiniana e hobbesiana di sovranità.  C’è anche un modello alternativo che può essere seguito. Il modello fondamentale di questa struttura alternativa dello stato lo si trova in Althusius che ci fornisce un’alternativa a quella prassi organizzativa che poi si è imposta. Il fatto che, in effetti, si sia affermato piuttosto il modello leviatanico non significa che non sia possibile ripercorrere un’altra strada. Credo quindi che il modello federale sia un tentativo di superare l’ idea di uno stato centralistico, autoritario, dotato di una sovranità forte, sostituendolo con uno stato pluralistico dotato di una sovranità debole. Ho quindi introdotto queste due categorie che mi pare non siano ancora presenti nel linguaggio giuridico e politico : “sovranismo debole” e “sovranismo forte”. Sostengo che in crisi sia entrata solo il primo di questi due modelli, non il sovranismo in quanto tale, perché c’è una idea di sovranismo “debole” che può essere considerata un risposta alle crisi attuali di questi stati centralistici. Ovviamente, per quanto riguarda l’Italia, tutto ciò significa la valorizzazione delle autonomie. Abbiamo avuto un referendum in Lombardia e Veneto, ed è possibile che la strada autonomistica venga percorsa anche in Liguria. Questo significa che l’idea dello stato centralistico che nega la pluralità di istanze presenti al suo interno è entrata in crisi. Ma non credo che questa crisi implichi il venir meno della forma stato.

E come si pone questa sua idea nei confronti degli organismi sovranazionali? Ci riferiamo ovviamente in primo luogo, per quanto riguarda l’ Italia, all’Unione Europea. E, sul piano internazionale, al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale, tutte istituzioni che sembrano avere svuotato di sovranità gli stati sostituendola con i cosiddetti “piloti automatici”. Questi enti svuotano gli stati di sovranità dall’alto. Poi ne abbiamo altri che per così dire incidono dal basso, e ci riferiamo non alle comunità territoriali ma ad altri organismi internazionali come le organizzazioni non governative. Non crede che il suo stato a “sovranità debole” diventerebbe troppo debole per contrapporsi a questi tentativi esterni di limitazione di sovranità?

Il sovranismo, questo vocabolo reintrodotto nel linguaggio politico (e che io ho cercato di distinguere come descritto), da cosa nasce? Nasce proprio dalla crisi dell’Unione Europea. Questo tentativo di superare gli stati nazionali all’interno di un super stato che dirige tutto dall’alto in maniera burocratizzata e con il pilota automatico di cui si parlava, non ha funzionato. Il fatto saliente è che quando c’è stato il tentativo di imporre una costituzione europea i popoli chiamati ad esprimersi su questa costituzione l’hanno bocciata, tant’è vero che poi l’ hanno dovuto trasformare nel Trattato di Lisbona, perché la costituzione europea di fatto non esiste. Come dobbiamo interpretare questo fatto? Semplicemente gli stati nazionali hanno avuto una enorme resistenza, una forte resistenza nei confronti di questo processo, non riconoscendolo. La battaglia non è stata vinta dall’Unione Europea, al momento. L’Unione Europea appare a tutti un’organizzazione politica nominalmente sovranazionale, ma sostanzialmente diretta dalla Germania, quindi da uno stato che ha una potenza incomparabile rispetto a tutti gli altri stati che compongono, al momento, l’Unione. Il ritorno del sovranismo “identitario” nasce proprio da questo, dal fallimento nel creare una struttura sovranazionale, che ha prodotto un superstato in cui i cittadini ed i popoli europei non si identificano. Quindi l’ obiezione secondo cui gli stati nazionali siano troppo deboli per contrastare gli organismi sovranazionali si scontra con il dato di fatto che tali stati rappresentano, al momento, l’unica forma di contrasto, e in effetti una forma che resiste con successo alla tendenza accentratrice dell’Unione. Tutto quello che è riuscita ad oggi a fare l’Unione è stato varare una moneta che al momento, al posto di riuscire a creare una omogeneizzazione fra gli stati membri non ha fatto altro che disgregarli ulteriormente. Quindi un fattore che a sua volta è stato negativo, rispetto all’aspirazione ad unificare il continente. In conclusione io vedo negli stati nazionali una formula di successo per la resistenza non solo all’Unione Europea, ma anche alla globalizzazione. Qual era lo scopo della globalizzazione? Creare un impero globale, centralizzato attorno agli Stati Uniti d’America e organizzato a sua immagine. Un processo che doveva portare ad una totale omogeneizzazione dei popoli attraverso la creazione di una entità astratta, cosmopolita, come lo Stato Mondiale. Anche questo processo è stato bloccato da uno stato nazionale, ed in particolare dagli stessi Stati Uniti che hanno eletto un presidente che, qualunque valutazione si voglia dare rispetto alla fedeltà fra la sua prassi di governo e le promesse della campagna elettorale, si comporta sostanzialmente come leader di un paese che vuole innanzitutto pensare agli interessi del proprio popolo. L’idea di partenza era quindi questa: non muoversi più nel solco dell’imperialismo globalizzante della fase precedente, ma in un’ottica di interesse nazionale. Quindi gli stati nazionali costituiscono una forma di resistenza, una forma di resistenza che al momento riesce nella sua operazione, tant’è vero che la globalizzazione è in crisi. Mentre si parla di crisi degli stati nazionali, si omette spesso di notare che vera e propria crisi è quella di quel processo di globalizzazione. Ciò è avvenuto grazie alla resistenza degli stati. In questo contesto l’Europa diviene centrale perché la costruzione dello stato moderno è avvenuta proprio in Europa. Questo spiega la resistenza degli stati nazionali europei rispetto al tentativo di dissolverli a livello regionale ma anche a livello globale. Ripeto: l’idea che ormai la costruzione westfaliana del mondo sia conclusa è una narrazione che probabilmente va ripensata. Questo non significa tornare al vecchio modello di stato nazionale, al nazionalismo e a tutto quanto ne è in passato conseguito. Significa solo che, se vogliamo, possiamo costruire una nuova idea di nazione che abbia una valenza diversa da quella passata. Nel futuro si potrebbe partire dal presupposto del riconoscimento delle realtà locali presenti nella nazione. Non vedo quindi incompatibilità fra il processo di sovranismo e il localismo: quello che contrasta il localismo non è lo stato nazionale, ma il globalismo. Il problema è che gli uomini  non riescono a vivere in uno spazio così indifferenziato come quello prefigurato dal globalismo cosmopolita universale. Hanno bisogno di radici, di elementi di identificazione. E gli stati nazionali continuano ad offrire ai popoli questo elemento di identificazione.

Veniamo all’ Italia. Abbiamo la sensazione che nel nostro paese la dimensione municipale sia ancora più sentita di quella regionale, il che risponde peraltro alle tradizioni storiche del paese, in particolare nel centro nord. Il riscontro lo si trova nelle tornate elettorali: le elezioni dei sindaci sono di solito più partecipate di quelle regionali. Lei pensa che la forma regione sia quella ideale per il decentramento,  o che possano esserci diversi livelli?

Bisogna distinguere due aspetti di autonomia: un conto è l’autonomia che si basa sulla decentralizzazione, che però non è una vera sottrazione di potere al centro, ma semplicemente una delega organizzativa del centro. In altre parole una decisione verticistica dello stato che ritiene di strutturarsi in un determinato modo. Può essere che questa sia la soluzione verso cui ci stiamo muovendo (si parla di “regionalismo differenziato” sulla base di quanto concede la nostra costituzione) ma io sarei dell’ idea di una ristrutturazione complessiva dello stato italiano in senso autenticamente  federalistico. Il federalismo è diverso rispetto al semplice riconoscimento delle autonomie, perché parte dal presupposto che il potere venga ceduto. La “sovranità debole” di cui ho parlato significa che la stessa sovranità si frammenta, si articola sul territorio senza identificarsi più solo nello stato, perché lo stato, nel cedere sovranità, non la cede all’Europa, ad una entità esterna, ma al proprio interno, riconoscendo le particolarità nel proprio seno. Credo quindi che la soluzione alla crisi dello stato nazionale sia la creazione di stati federali, che partono dal presupposto che si sta insieme perché si vuole stare insieme con chi vuole stare insieme. E’ questa l’idea che credo dovrebbe essere posta al centro dell’ attenzione. L’idea dell’autonomia, su cui si basano anche i recenti referendum, parte al contrario dal presupposto di una decentralizzazione, ma secondo me questo è un obiettivo limitato, perché non cambia nella sostanza la natura dello stato. C’è solo una sorta di decentramento amministrativo. A mio avviso, invece, nel nostro paese sarebbe necessaria una riforma in senso federale che dia agli organi sottostanti allo stato, che possono essere i comuni o le regioni, una propria autonomia politica. La sovranità leviatanica non prevede corpi intermedi fra il cittadino e lo stato, in quell’ottica le organizzazioni territoriali hanno una funzione del tutto secondaria. Io sostengo invece una redistribuzione di sovranità all’interno in luogo dell’attuale cessione all’esterno. Questa redistribuzione dovrebbe essere compiuta con una riforma che vada in senso assolutamente opposto a quello in cui andava la riforma tentata da Renzi, che perseguiva la centralizzazione totale, il compimento della centralizzazione. Insomma,  non abbiamo bisogno di tante regioni a statuto speciale, non si tratta semplicemente di aggiungere la Lombardia, il Veneto e la Liguria alle cinque che già abbiamo. C’è invece bisogno di mutare l’ organizzazione dello stato con una svolta in senso federalistico. Si potrebbe obiettare che qualcosa di simile si era tentato nel 2005, e questa iniziativa è stata bocciata dai cittadini. E tuttavia dobbiamo chiederci: in quella consultazione il popolo ha respinto il federalismo o l’idea, connessa a quel referendum, di un premierato forte, di maggiori poteri al governo, di uno stato che certo si “federalizzava”, ma in cui le decisioni politiche fondamentali venivano prese da un potere politico ancora più forte. A me pare che gli italiani abbiano bloccato Renzi perché hanno letto nel suo progetto un tentativo di ricentralizzare lo stato dando un potere eccessivo al governo rispetto al parlamento e che per la stessa ragione venne bloccata nel 2005 la riforma di Berlusconi con il premierato forte, e che questa sia la comune ragione del rifiuto popolare, più che il federalismo proposto nel 2005.

Quante possibilità crede che una ipotesi simile abbia di realizzarsi, e più in generale quale futuro vede nell’immediato per la politica del nostro paese?

Oggi tutti partono dal presupposto che le elezioni dell’anno prossimo saranno un caos e che quindi Gentiloni continuerà a governare. Io sono di tutt’altro parere.  Credo che se  le forze del centrodestra riuscissero a mettersi d’accordo su un minimo di programma condiviso, basato sul recupero dell’orgoglio nazionale, potrebbero raggiungere con questo sistema elettorale una maggioranza sufficiente per  governare. Il quesito centrale è quindi: esistono i margini per cui si possa convergere su alcuni punto condivisi, come il recupero della sovranità monetaria e, magari dell’ idea federale, che nel 2005 aveva accomunato due forze importanti come Forza Italia e la Lega di allora? Io non dico che sia necessario ripetere quell’esperienza. Ma si può far tesoro degli errori che sono stati commessi, senza mettere in discussione un processo di federalizzazione dello stato che mi pare sia voluto dagli italiani perché, in definitiva, il dato di fatto saliente è che in Veneto il referendum è stato un successo notevole, avendo superato abbondantemente il quorum previsto. Si potrà magari dire che in Lombardia il risultato non è stato eclatante, ma tuttavia molti milioni di lombardi hanno approvato il progetto autonomista. Ciò significa che questa idea, che si può considerare come indizio anche per un cambiamento più radicale in senso federale, è ancora presente nel nostro paese, e che la si può perseguire senza magari voler legare tali istanze (come è successo con la Lega Nord del passato) a disegni secessionistici. Prendiamo la realtà della Germania, un chiaro esempio di stato federale in cui i Länder hanno autonomia, hanno un parlamento, ed hanno viste soddisfatte tutte le proprie esigenze. Però, proprio perché la richiesta di autonomia è stata soddisfatta con questa forma di federalismo, non ci sono tendenze che vanno in senso secessionista. Nessuna regione si vuole separare dalla Germania, anzi abbiamo avuto l’esempio del Saarland, un piccolo Land, il più piccolo, sempre conteso fra Francia e Germania, che con un referendum nel secondo dopoguerra ha deciso di far parte della Germania. Abbiamo sicuramente una Baviera che gode di totale autonomia, con un partito che svolge addirittura un ruolo nazionale, la CSU, ma non ci sono disegni secessionisti né nel partito né nella regione. Perché il federalismo consente un’apertura che il centralismo non può riconoscere. Certo, bisognerebbe anche parlare di come è avvenuta la riunificazione, ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano.  Vedremo ora cosa succederà in Francia, con questo voto che si è tenuto in Corsica, dove gli autonomisti hanno avuto un successo notevole. Però lì abbiamo uno stato centrale, uno stato che non intende riconoscere le autonomie. Ripeto: io penso che il futuro non sia soltanto nelle autonomie, ma in una ristrutturazione, in un ripensamento completo della forma stato in senso federale.

Le chiederemmo di allargare il campo di analisi, che sino ad ora ha esaminato i principali paesi dell’ Europa occidentale, e di spingersi ad est, dove la presenza della Russia sta svolgendo un ruolo attualmente molto discusso in occidente. Ebbene, Lei ritiene che la Russia possa svolgere un ruolo importante a livello di gestione degli affari politici internazionali? Crede che la Russia possa fornire un qualche spunto anche a noi, o che sia un paese troppo diverso per poter essere assunto come pietra di paragone?

Che la Russia, attraverso Putin, sia riuscita a ridiventare un protagonista della diplomazia internazionale è sotto gli occhi di tutti. Se c’è uno statista che meriterebbe il titolo di uomo dell’anno, o meglio di uomo degli ultimi anni, è proprio Putin, perché è riuscito a compiere, a livello internazionale, operazioni assolutamente notevoli: si pensi solo all’’intervento in Siria e a come la questione mediorientale è stata affrontata dalla Russia. Il problema dell’ ISIS è stato praticamente risolto dall’intervento programmato di Putin. Sullo scacchiere internazionale la Russia è diventata di nuovo uno dei protagonisti fondamentali. Per quanto riguarda i rapporti con l’Europa, io credo che l’Europa, che nel momento attuale è in perdita (ho scritto un pezzo per approfondire la questione), ha tutto l’interesse a stringere rapporti con la Russia, perché questo paese incarna oggi quei valori tradizionali che erano tipicamente europei e che in Europa si sono persi. Se vogliamo trovare le radici, alcune radici dell’Europa, penso in particolare alle radici cristiane, o spirituali, oggi non le troviamo più nell’Unione Europa, o negli stati che fanno parte dell’Unione Europea, ma nella Russia. La Russia, dislocata fra l’Asia e l’Europa, ha sempre mantenuto un piede in Europa. Quindi credo che l’errore peggiore che si possa fare da tutti i punti di vista (economico, culturale, spirituale) sia questo tentativo di imporre una totale rottura, una politica imposta da Nato e dagli Stati Uniti. E’ chiaro che la Germania avrebbe molto più interesse, come stato, ad avere un buon rapporto con la Russia di Putin nello scacchiere che si sta configurando. La Russia può svolgere un ruolo pacificatore, perché non ha la mentalità imperialistica che l’America ha sempre avuto. L’aspetto importante è che la Russia parte dal riconoscimento della pluralità, del “pluriverso” in cui è articolato politicamente l’universo. Non vuole imporre il suo modello ad altri stati. Sotto questo profilo è molto più facile avere un rapporto con la Russia. Quindi questi rapporti devono instaurarsi, e se non saranno instaurati dall’Unione Europea come istituzione dovranno essere i singoli stati a farlo. Se l’Unione Europea non vuole, i singoli stati potranno mantenere rapporti di apertura nei confronti della Russia, che incarna la possibilità di costruire un mondo plurale, mentre l’America continua a rappresentare la volontà di ridurre il mondo alla singolarità, quantunque Trump abbia manifestato qualche segnale di voler andare in altra direzione. Per la verità questi segnali erano frequenti prima e durante la campagna elettorale e sono diminuiti dopo l’ elezione. Tuttavia non sono completamente scomparsi dal suo orizzonte politico.

Quindi, ricapitolando: una organizzazione del nostro spazio con più apertura alle istanze locali, disponibile alla collaborazione fra l’ovest e l’est del nostro continente. Veniamo alla questione sociale. Praticamente tutti gli indicatori che studiano la distribuzione della ricchezza nelle nostre società dalla caduta del muro ad oggi mostrano una divaricazione della forbice fra i redditi delle élites e quelli delle masse. Come si può fare i conti con questa emergenza?

E’ una questione che ritengo centrale per ogni lettura sovranista. La mia idea è che il sovranismo identitario, o etnico, non sia sufficiente. Anzi, forse non è nemmeno così determinante, se per identità intendiamo la necessità, poniamo, di essere nato in Veneto da genitori veneti e nonni veneti per essere cittadino veneto. Questa forma di identità così forte non mi pare realista. Il sovranismo può vincere la sua battaglia oggi soltanto se unisce la questione nazionale a quella sociale. Sotto questo profilo è del tutto fondamentale che le forze che si richiamano ad istanze sovranistiche pongano al centro dell’ attenzione la critica dei  modelli di sviluppo neoliberali. E’ inutile richiedere maggiore autonomia vantando eccellenze espresse secondo graduatorie di merito liberali: “noi abbiamo il bilancio in ordine, noi abbiamo tagliato le spese, noi abbiamo ridotto i costi della sanità”. Ma questo è proprio quello che vuole il neoliberalismo! Questo “autonomismo” delle identità locali, che si basa sul pareggio di bilancio, sul pagare più tasse e avere sempre meno servizi efficienti, di avere addirittura il bilancio in attivo, è una ingenua espressione di vanto dei governanti per essere riuscite a far star peggio i propri governati. E’ chiaro che fino a che ci si ferma alle regioni ricche queste logiche possono anche apparire ragionevoli, ma se le si estende alle regioni più povere, mostrano immediatamente la loro natura. Perché l’ Unione Europea impone i propri vincoli non solo agli stati, ma anche alle regioni, per cui ha poco senso oggi volersi battere per il “regionalismo differenziato” sulla base dell’ art. 116 della Costituzione e nello stesso tempo ignorare l’ art. 117, che limita espressamente la tua autonomia, perché i conti sono controllati non da “Roma Ladrona”, ma da Bruxelles. Quindi questa apologia del 116 senza voler vedere il 117 è miope. Va bene l’euforia nata dall’esito del referendum, ma non possiamo ignorare che le regioni hanno comunque le mani legate perché secondo la nostra costituzione l’obbligo di pareggio di bilancio è previsto anche a livello regionale e comunale. Tutte le comunità intermedie sono quindi subordinate a decisioni verticistiche assunte sulla nostra testa. Ecco che quindi il recupero della sovranità è prima di tutto recupero della sovranità monetaria, perché senza il controllo della moneta non controlli nulla. Questo vuol dire disgregare la zona euro? Pazienza. Abbiamo vissuto per secoli senza l’euro, credo che non sia indispensabile per sopravvivere. Anzi, al momento, senza l’euro, in alcuni stati, come il nostro, si starebbe sicuramente meglio. Credo quindi che il sovranismo abbia un senso solo se declinato in questo modo. Segnalo invece i paradossi che si creano quando i sovranisti, che sono tutti schierati contro il centralismo europeo, si schierano contro le richieste di autonomia come è successo recentemente in Catalogna. E’ una contraddizione in termini, un ritorno al “sovranismo forte” che invece, quello sì, è totalmente superato.

Proviamo a passare da una dimensione politico economica ad una più ampia: culturale, sociologica, antropologica. Assistiamo al confronto fra alcune istanze identitarie locali ed altre più cosmopolite che tendono alla diluizione in un’unica identità generale, che però ha il paradossale effetto di atomizzare la società in singoli individui. Quale tendenza vede come prevalente nei prossimi anni?

Purtroppo andando nella direzione intrapresa dal globalismo, il riconoscimento di un individualismo astratto da ogni concretezza esistenziale, verrà compromessa anche l’identità biologica. Non ci sarà più distinzione fra uomo e donna perché entrambi i sessi saranno considerati esclusivamente prodotti della volontà del singolo individuo che, crescendo, deciderà il sesso a cui appartenere. In questa forma di individualismo estremo, astratto, anche le identità più concrete, date biologicamente, verranno messe in discussione. Questo è esattamente complementare alla ideologia neoliberale,  rappresentandone un ulteriore sviluppo. E’ una tendenza che deve essere ovviamente contrastata.

Contrastata in che modo? Le istanze globaliste paiono disporre di notevoli risorse mediatiche…

Quello che nel nostro paese manca (e i responsabili sono ovviamente gli organi di informazione ed i media) è una tribuna, una possibilità di esprimersi per il pensiero non allineato. Questa tribuna veniva garantita fino a poco tempo fa dalla rete, perché questi dibattiti si potevano svolgere in quell’ambiente. Carl Schmitt parlava di “terra e mare” nella sua teoria degli elementi, ma ora abbiamo un elemento ulteriore: l’aria. Tutta la geopolitica moderna si è basata sul contrasto fra terra e mare come aveva messo in rilievo Schmitt. Ora internet, la rete, inserisce un nuovo elemento, l’ aria. Ma la terra ed il mare si sono resi conto di questo contrasto e stanno cercando di eliminare, di soffocare l’aria, in cui fino a poco fa poteva esprimersi il pensiero dissidente. E’ chiaro che introducendo la censura sulla rete, facendo sì che la censura non avvenga attraverso gli stati ma venga esercitata a monte dagli stessi canali su cui si basa la rete, dai motori di ricerca come Google, dai social network come Facebook e Twitter, è possibile tentare di arginare la diffusione e la circolazione del pensiero libero. Il pericolo oggi è il controllo integrale delle comunicazioni online, in cui fino a poco tempo fa si poteva esprimere la propria diversità, e che invece da ambiente “anarchico” (in senso positivo) va verso una totale omologazione. Si avverte quindi in maniera ancora più acuta la mancanza di una piattaforma di espressione del dissenso. Magari in altri paesi chi la pensa diversamente ha ancora la possibilità di esprimersi su alcuni media tradizionali, ma in Italia ciò non è più possibile. Le televisioni sono controllate dai partiti di governo e la stampa anche: voci di dissenso se ne trovano sempre meno, una tendenza all’omologazione destinata ad aggravarsi quando la censura che si vuole imporre alla rete sottrarrà anche questo spazio di libertà.

Quindi le prospettive, per come Lei le legge, sono sfavorevoli sia sotto il profilo del confronto ideologico che sotto quello della libertà comunicativa?

Io dico soltanto che difficoltà aumentano, ma guai a cadere nel fatalismo, nella rassegnazione, nella passività. Voglio solo far capire che gli spazi si stanno chiudendo. Si tratta però di resistere a questa chiusura, di cercare altri spazi. Antropologicamente l’uomo resiste all’ingabbiamento totale, cerca di sfuggire in tutti i modi. E’ questo il dato antropologico che ancora ci salva, non siamo bestie facili da domare, da  sottomettere ad un controllo totale, per lo meno fino a che ci lasceranno la libertà del codice genetico; quando controlleranno anche quello non avremo più l’uomo ma qualcosa di diverso.

La sua lettura parrebbe risentire di qualche impostazione anarchica: penso sia alla libera organizzazione delle masse dal basso verso l’alto di Bakunin, sia alla visione dell’uomo come una entità che è portata alla ricerca biologica della libertà, in opposizione ai tentativi di omologazione che la società effettua…

Nel senso del Trattato del ribelle di Ernst Jünger sì, in questo senso anarchico ci potrebbe anche stare. Ma volendo volare bassi, possiamo anche limitarci a richiedere una riforma della democrazia, che recuperi il coinvolgimento del cittadino, gli restituisca la possibilità di esprimersi politicamente, valendosi degli strumenti di democrazia diretta. Era un po’ questo il sogno (parlo almeno per me, che ho vissuto dall’inizio quell’avventura) del Movimento Cinque Stelle. La grande novità rappresentata dal Movimento Cinque Stelle (si era nel 2012, 2013…) grazie alla lucidissima mente di Gianroberto Casaleggio era proprio questa: il tentativo di far emergere un movimento che uscisse dagli schemi della democrazia rappresentativa tentando di iniettare in questa forma di democrazia elementi di democrazia diretta, cercando di fare riemergere quello spazio comunitario che l’individualismo astratto neoliberista aveva cancellato. Ahimè, è finito tutto come sappiamo. Ma il tentativo c’è stato, purtroppo la lunga malattia e la morte di Casaleggio hanno sospinto il Movimento in un’altra direzione. Ora ci sono altri tentativi, che non vengono dalla rete e che quindi sono diversi. Il Movimento Cinque Stelle era nato nella rete, faceva della rete il suo elemento fondamentale. Al centro c’era il blog di Grillo (che poi non era, diciamolo chiaramente, il blog di Grillo, era il blog di Casaleggio). Casaleggio scriveva gli articoli, sua era l’elaborazione teorica; certo, su alcuni temi si confrontava con Grillo, ma l’impianto complessivo era suo. Oggi questa ipotesi di Movimento nato in rete è tramontata. Abbiamo quindi istanze politiche che vengono oggi  rappresentate in un movimento politico (mi riferisco ovviamente alla Lega) e da una galassia di gruppuscoli diffusi, che però non riescono a trovare un punto di convergenza. E tuttavia la loro semplice esistenza dimostra che questa ipotesi sovranista è  presente nel nostro paese. La Lega (non più Lega Nord) è l’unica forza politica che può oggi dar voce a queste istanze.

Quindi chiudiamo con una nota di fiducia? Parliamo con tanta gente che ci pare ripetere “va sempre peggio, andrà sempre peggio, rassegnamoci”. Lei non è tanto pessimista.

Ma no, assolutamente, non voglio dare questa impressione. Secondo me l’Italia può farcela. Gli italiani possono farcela. La cosa importante è esprimere la propria identità regionale:  sentirsi  Veneti, Lombardi, Siciliani, Valdostani (perché queste sono  le nostre radici ) ma al tempo stesso essere italiani. Perché non credo si possano risolvere i gravi problemi che abbiamo semplicemente lasciando che ogni regione vada per i fatti suoi. L’idea secessionista secondo me non ha molto senso oggi nel nostro paese.  In ogni caso le attuali istanze, relative ad un “regionalismo differenziato” sono molto più modeste, non seguono velleità secessioniste come agli esordi della Lega, che poi sono state superate dalla svolta impressa da Salvini. Una svolta che mi pare abbiamo poco a che vedere con il lepenismo, checché ne dicessero i commentatori. Ciascun paese, ciascun partito ha la sua storia. La Francia è uno stato super centralizzato e la Le Pen non aveva nulla a che fare sin da allora con la svolta della Lega. Oggi si dice che c’è stata una svolta lepenista che sarebbe stata abbandonata dopo le presidenziali francesi e la vittoria di Macron, ma sono tutte frottole. L’ipotesi sovranista della Lega si regge su un discorso diverso, ora non so quanto potrà andare avanti, ma trovo per esempio significativo che Salvini abbia annunciato che “Nord” verrà cancellato dal nome del partito, in modo che la Lega possa diventare la Lega di tutti gli italiani. Questo è il messaggio forte, secondo me:  Veneti, Lombardi, sì ma tenendo  presente che ci salviamo tutti assieme, tenendo insieme Trieste e Palermo. Questo senza voler negare che se qualcuno, a un certo punto, dovesse decidere di volersene andare per i fatti propri dovrebbe avere il diritto di farlo. Perché il tratto fondamentale del nuovo “diritto naturale” dovrebbe proprio essere “stare con chi si vuole e stare con chi ci vuole”. Un tema già introdotto da Gianfranco Miglio ma da lui declinato in un senso indipendentista. Io invece lo leggo in senso diverso: certo, se uno alla fine vuole andarsene dovrebbe avere il diritto di farlo. Ma il tentativo è quello di stare assieme, risolvere i problemi assieme, dando spazio alla pluralità di voci di cui l’Italia è composta. Per questo ritengo che un’ ipotesi di riforma federale dell’organizzazione dello stato dovrebbe essere al centro di un  futuro governo.

Non è incredibile? Ci spingono già oggi a pensare che tanto non cambierà niente. Gentiloni, ci viene spiegato, non si dimetterà, tanto ci sarà di nuovo lui. E allora perché dovremmo tornare a votare se tanto ci sarà di nuovo lo stesso governo? Si cerca di  inoculare nelle menti l’idea che il voto tanto non serve più a niente. Si pensi agli articoli comparsi di recente  sul “Corriere della Sera” in cui si sostiene che tanto il voto popolare è qualcosa che nella democrazia si potrebbe anche  eliminare.

Si parla addirittura con crescente frequenza di “rischio voto”…

Addirittura. Il voto non è una opportunità di cambiamento, ma un rischio. Eppure, in Germania hanno votato, e nel caso non dovessero trovare un accordo si tornerà a votare. Dov’è il problema? Che siccome eventualmente il voto non è risolutivo in Germania allora bisogna dissuadere gli italiani dall’andare a votare? Spiegargli che comunque il voto è del tutto ininfluente perché già si sa che ci sarà Gentiloni anche dopo? Questa operazione che stanno facendo i giornali, che stanno facendo le televisioni, è un tentativo totalitario di bloccare il significato del voto democratico. Criticano Putin perché sarebbe non democratico nelle elezioni? Proprio loro che stanno dicendo che il voto che ci sarà a marzo è del tutto ininfluente, perché hanno già deciso chi ci sarà dopo, un qualcosa che Putin non penserebbe mai di fare!

Tutti osserviamo che la democrazia è prima stata ridotta al mero parlamentarismo, al mero appuntamento elettorale, che deve legittimare a posteriori le scelte già fatte, e poi adesso, visto che quelle scelte comunque non sono condivise, anche il solo mettere la scheda nell’urna diventa un “rischio” che potrebbe sconvolgere le nostre vite.

La paura si vede molto bene nella decisione di resuscitare un uomo di 80 e passa anni che davano per morto e sepolto fino all’anno scorso e che è diventato d’improvviso  il “salvatore della patria”. Si veda la svolta del “Corriere della Sera”, di “Repubblica”, di Scalfari, che ha dichiarato che Berlusconi è comunque meglio dei grillini. E’ il tentativo di bloccare ogni istanza “sovranista” che potrebbe creare seri problemi all’establishment. Stanno tutti cercando di mettere la Lega nell’angolo.  Vedremo se ci riusciranno.

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Intervista a cura di Marco Bordoni per Saker Italia