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Breve storia dell'idea di progresso

di Alain de Benoist - 09/01/2018

Breve storia dell'idea di progresso

Fonte: Francesco Marotta

 

L’idea di progresso appare come uno dei presupposti teorici della modernità.  Non senza ragione, siamo stati persino in grado di intravedere la vera «religione della civiltà occidentale». Storicamente, questa idea si formula, prima di quanto sia stato ipotizzato, intorno al 1680, nel quadro della disputa degli Antichi e dei Moderni, alla quale partecipano Terrasson, Perrault, l’abate di Saint-Pierre e Fontenelle, per diventare più precisa a seguito dell’iniziativa di una seconda generazione che comprende principalmente Turgot, Condorcet e Louis Sébastien Mercier.

Il progresso può definirsi come un processo che accumula tappe, la più recente delle quali è sempre giudicata preferibile e migliore, ossia qualitativamente superiore a quella che l’ha preceduta. Questa definizione comprende un elemento descrittivo (un cambiamento interviene in una data direzione) e un elemento assiologico (questa evoluzione è interpretata come un miglioramento).  Si tratta dunque di un cambiamento orientato e orientato verso il meglio, nel contempo necessario (non si ferma la corsa del progresso) e irreversibile (nessun ritorno indietro è possibile). Il miglioramento, ineluttabile, significa che l’indomani sarà sempre meglio.

I teorici del progresso si dividono sulla direzione del progresso, il ritmo e la natura dei cambiamenti che l’accompagnano, probabilmente i suoi attori principali. Tuttavia, tutti aderiscono a tre idee chiave: 1) Una concezione lineare del tempo e l’idea che la storia ha un senso orientato al futuro. 2) L’idea dell’unità fondamentale dell’umanità, chiamata nella sua totalità a evolvere nella stessa direzione. 3) L’idea che il mondo possa e debba essere trasformato, il che implica che l’uomo s’impone come padrone sovrano della natura.

Queste tre idee provengono originariamente dal cristianesimo. A partire dal XVII secolo, lo sviluppo della scienza e della tecnica determina la loro riformulazione in un’ottica secolarizzata.

Per i Greci, solo l’eternità del cosmo è reale. L’Essere autentico è immutabile: il movimento circolare che assicura l’eterno ritorno dello stesso in una serie di cicli successivi è l’espressione più perfetta del divino. Se c’è salita e discesa, progresso e declino, è all’interno di un ciclo al quale non può che succederne un altro (teoria della successione delle età in Esiodo, del ritorno dell’età dell’oro in Virgilio). D’altra parte, la determinazione maggiore viene dal passato, non dal futuro: il termine archè rinvia innanzitutto all’origine («arcaico») in quanto autorità («arconte», «monarca»).

Con la Bibbia, la storia diventa un fenomeno oggettivabile, una dinamica di progresso che mira, in una prospettiva messianica, all’avvento di un mondo migliore. La Genesi assegna all’uomo la missione di «dominare la Terra». La temporalità è il vettore grazie al quale il migliore è chiamato a rivelarsi gradualmente nel mondo. Di conseguenza, l’evento assume un ruolo di salvezza: Dio si rivela storicamente.  La temporalità inoltre, è orientata verso il futuro, dalla Creazione alla Parusia, dal Giardino dell’Eden al Giudizio universale. L’età dell’oro non è più nel passato, ma alla fine dei tempi: la storia finirà, e finirà bene, almeno per gli eletti.

Questa temporalità lineare esclude ogni eterno ritorno, ogni concezione ciclica della storia, dall’immagine dell’alternanza delle età e delle stagioni.   Da Adamo ed Eva, la storia della salvezza si svolge secondo una necessità stabilita da sempre, avanza con l’antica Alleanza e, nel cristianesimo, culmina in una Incarnazione che non si può ripetere. Sant‘Agostino sarà il primo a trarre da questo concetto una filosofia della storia universale che ingloba l’umanità intera, chiamata a progredire di età in età verso il meglio.

La teoria del progresso secolarizza questa concezione lineare della storia, da cui derivano tutti gli storicismi moderni. La differenza maggiore è che l’al di là è lascia il posto al futuro e che la felicità sostituisce la salvezza. Nel Cristianesimo, il progresso resta in effetti escatologico più che storico in senso letterale. L’uomo deve cercare di costruire la sua salvezza quaggiù, ma in prospettiva del mondo di lassù. Egli non ha, d’altra parte, nessun controllo sul piano divino.  Infine, il Cristianesimo condanna il desiderio insaziabile e come lo stoicismo sostiene che la saggezza morale consiste nella limitazione più che nella moltiplicazione dei desideri. Solo la corrente millenarista, ispiratasi all’Apocalisse, fa precedere il Giudizio universale da mille anni di regno terreno. Secolarizzando la visione di Agostino, ispirerà la posterità spirituale di Gioacchino da Fiore.

Per pervenire alla sua formulazione moderna, la teoria del progresso aveva dunque bisogno di elementi supplementari che si manifestano all’inizio del Rinascimento, e sbocciano a partire dal XVII secolo.

Lo sviluppo della scienza e della tecnica, unito alla scoperta del Nuovo Mondo, nutre così l’ottimismo aprendo la via ad un’infinità di possibili miglioramenti. Francesco Bacone, che è il primo ad utilizzare la parola «progress» (progresso) in senso temporale e non più spaziale, afferma che il ruolo dell’uomo è di dominare la natura conoscendo le sue leggi.  Anche Cartesio suggerisce agli uomini di diventare padroni e possessori della natura. Quest’ultima scritta per Galileo Galilei «in linguaggio matematico», diventa quindi muta e inanimata. Il cosmo non ha più un senso. Non è altro che meccanica, che bisogna smontare per conoscerla e strumentalizzarla. Il mondo diventa puro oggetto dell’uomo-soggetto. L’uomo subisce la convinzione che, grazie alla ragione, può affidarsi solo a se stesso.

Il cosmo degli Antichi cede così il posto a un mondo nuovo, geometrico, omogeneo e (presumibilmente) infinito, governato dalla legge di causa-effetto. Il modello che si applica è un modello meccanico, più precisamente quello di un orologio. Il tempo stesso diventa omogeneo, misurabile: è il «tempo dei mercanti», che subentra al «tempo dei contadini» (Jacques Le Goff). La mentalità tecnica scaturisce da questo nuovo spirito scientifico. La tecnica ha l’obiettivo principale di accumulare utilità, ossia di aiutare a produrre cose utili.

C’è una convergenza evidente tra questo ottimismo scientifico e le aspirazioni di una classe borghese sul punto di affermarsi sui mercati nazionali la cui creazione è andata di pari passo con quella dei regni territoriali.  La mentalità borghese tende a considerare valide, e persino reali, le sole quantità calcolabili, ossia i valori mercantili.  Georges Sorel vedrà più tardi, nella teoria del progresso, una «dottrina borghese».

Nel XVIII secolo, gli economisti classici (Adam Smith, Bernard Mandeville, David Hume), dal canto loro, riabilitano il desiderio insaziabile: i bisogni dell’uomo, secondo loro, sono sempre soggetti ad aumentare. E’ dunque nella natura stessa dell’uomo volere sempre di più e agire di conseguenza, cercando costantemente di portare al limite massimo il suo primo interesse. Unita all’ottimismo circostante, questa argomentazione tende a relativizzare o cancellare dalla mente la tematica del peccato originale.

Si sottolinea quindi, con particolare insistenza, il carattere cumulabile del sapere scientifico. La conclusione che se ne trae è il carattere necessario del progresso: se ne saprà sempre di più, dunque tutto andrà sempre meglio.  Stante che il buon ingegno è «composto da tutti quelli che l’hanno preceduto», se ne deduce la costante superiorità dei Moderni: «Siamo nani sulle spalle di giganti», dice Bernardo di Chiaravalle, e ripreso da Fontenelle. Quindi non esiste più l’autorità degli Antichi. La tradizione anzi viene percepita come un ostacolo naturale all’avanzata della ragione. Il confronto tra presente e passato, sempre a vantaggio del primo, permette allo stesso tempo di svelare il moto dell’avvenire. Il moto comparativo diventa così assoluto: il progresso, espresso inizialmente come il risultato dell’evoluzione, s’instaura come il principio di questa evoluzione.

Un’altra idea, già formulata da Sant’Agostino, è quella di un’umanità concepita come un organismo unitario, che avrebbe progressivamente abbandonato l’infanzia delle «prime epoche» per entrare nella «età adulta». Turgot parla così del «genere umano, considerato a partire dalla sua origine […] che appare agli occhi del filosofo un tutto immenso che ha come ogni individuo, la sua infanzia e i suoi progressi». Il meccanicismo qui cede il posto alla metafora organicistica, ma si tratta di un organicismo paradossale poiché non sono presi in considerazione né l’invecchiamento né la morte. Questa visione di un organismo collettivo che diventa costantemente «più adulto» farà nascere l’idea contemporanea dello «sviluppo» inteso come crescita indefinita. Nel XVIII secolo, essa incoraggia un certo sprezzo dell’infanzia, che procede di pari passo con disdegno delle origini e degli inizi, sempre considerati inferiori.

La nozione di progresso implica pure l’idolatria del novum: ogni novità è a propri migliore per il solo fatto che è nuova.  Questa sete di «nuovo», considerato sistematicamente sinonimo di migliore, diventerà rapidamente una delle ossessioni della modernità. Nell’arte, essa sfocerà nella nozione di «avanguardia» (che ha le sua contropartite anche in politica).

La teoria del progresso possiede ormai tutte le sue componenti. Nel 1750, Turgot e in seguito Condorcet, la esprimono sotto forma di una convinzione che si formula in modo semplice: «La massa totale del genere umano avanza sempre verso una perfezione maggiore». La storia dell’umanità è dunque percepita come assolutamente unitaria. Ciò che è stato conservato del cristianesimo è l’idea di una futura perfezione dell’umanità e la certezza che l’umanità si dirige verso un fine unico. Ciò che è abbandonato, è il ruolo della Provvidenza, sostituita dalla ragione umana. L’universalismo si fonda, d’ora in avanti, su una ragione «una e intera in ognuno», che deborda ogni contesto e trascende ogni particolarità.

Parallelamente, l’uomo non è soltanto un essere di desideri e bisogni, che si ripetono senza tregua, ma anche un essere perfettibile all’infinito. Una nuova antropologia ne fa alla nascita una tavola rasa, una cera vergine, o gli attribuisce una «natura» astratta, totalmente dissociata dalla sua esistenza concreta. La diversità umana, individuale o collettiva, è vista come contingente e indefinitamente trasformabile attraverso l’educazione e «l’ambiente». La nozione di artificio diventa centrale e sinonimo di una cultura raffinata. Si presume che l’uomo si realizzi solo opponendosi a una natura da cui gli è necessario affrancarsi per «civilizzarsi».

L’umanità deve allora liberarsi da tutto ciò che potrebbe intralciare l’irrefrenabile avanzata del progresso: i «pregiudizi», le «superstizioni», il «peso del passato». Si accenna qui, di riflesso, alla giustificazione del Terrore: se l’umanità ha come fine necessario il progresso, chiunque ostacoli il progresso può legittimamente essere soppresso; chiunque s’opponga al progresso dell’umanità può legittimamente essere escluso dall’umanità e decretato «nemico del genere umano» (da qui la difficoltà di riconciliare le due affermazioni kantiane dell’uguale dignità degli uomini e del progresso dell’umanità). I totalitarismi moderni (comunismo sovietico, nazional-socialismo) diffonderanno l’idea che vi sono «uomini in eccesso», dei quali la sola esistenza impedisce l’avvento di un mondo migliore.

Questo atteggiamento di rifiuto della «natura» e del «passato» è spesso rappresentato come sinonimo di un affrancamento da ogni determinismo. In realtà, la determinazione mediante il passato è sostituita dalla determinazione mediante il futuro: è il «senso della storia».

L’ottimismo inerente alla teoria del progresso si estende rapidamente a tutti gli ambiti, alla società e all’uomo. Si ipotizza che il regno della ragione sfoci in una società contemporaneamente trasparente e pacificata. Ritenuto vantaggioso per tutte le parti, il «dolce commercio» (Montesquieu) è chiamato a sostituire lo scambio al conflitto, le cui cause «irrazionali» saranno progressivamente eliminate. L’abate di Saint-Pierre enuncia così, molto prima di Kant, un «progetto di pace perpetua», che Rousseau criticherà duramente. Condorcet propone di perfezionare rigorosamente la lingua e l’ortografia. La stessa morale deve presentare tutti i caratteri di una scienza. L’educazione mira ad abituare i bambini a sbarazzarsi dei «pregiudizi», fonte di tutti i mali sociali, e a fare uso della sola ragione.

La marcia dell’umanità verso la felicità s’intende quindi come completamento della felicità morale.  Per gli uomini dell’Illuminismo, dato che l’uomo agirà in futuro in modo sempre più «illuminato», la ragione si perfezionerà e l’umanità diventerà anch’essa migliore. Il progresso, lungi dall’interessare solo la cornice esterna dell’esistenza, trasformerà dunque l’uomo stesso. Un progresso acquisito in un campo si rifletterà inevitabilmente in tutti gli altri. Il progresso materiale determina il progresso morale.

Sul piano politico, la teoria del progresso è rapidamente associata a un animus antipolitico. Lo sguardo posato sullo Stato dai teorici del progresso è tuttavia ambiguo. Da un lato, lo Stato imbriglia l’autonomia dell’economia, considerata come la sfera della «libertà» e dell’azione razionale per eccellenza: William Godwin afferma che i governi creano per natura ostacoli alla naturale propensione dell’uomo a evolversi. Dall’altro, consente all’uomo, nella tradizione contrattualistica inaugurata da Hobbes, di sottrarsi alle costrizioni proprie dello «stato di natura». Lo Stato può dunque essere contemporaneamente ostacolo e motore del progresso.

L’idea più comune è che la politica deve diventare razionale.  L’azione politica deve cessare di essere un’arte, governata dal principio di prudenza, per divenire una scienza, governata dal principio di ragione. Ad immagine dell’universo, la società può essere considerata un meccanismo, di cui gli individui sono gli ingranaggi. Essa deve quindi, essere gestita razionalmente in base a principi regolari quanto quelli che si osservano in fisica. Il sovrano deve essere il fisico incaricato di far evolvere la «fisica sociale» verso «la più grande utilità pubblica». Questo concetto ispirerà la tecnocrazia e la concezione amministrativa e gestionale della politica che si ritroverà in un Saint-Simon o un Auguste Comte.

Una questione particolarmente importante è sapere se il progresso è indefinito oppure se sfocia in uno stadio ultimo o terminale che sarebbe o una novità assoluta, o come la restituzione più «perfetta» di uno stato originale o precedente: sintesi hegeliana, società senza classi che ricostituisce il comunismo primitivo (Marx), la fine della storia (Fukuyama), etc. Allo stesso tempo, si pone la questione di sapere in anticipo se esiste la meta finale, qualora ce ne fosse una.  In cosa sfocia il progresso, per quanto sfoci in qualcosa di diverso da se stesso?

Qui, i liberali tendono a credere in un progresso indefinito, a un miglioramento senza fine della condizione umana, mentre i socialisti gli destinano piuttosto un fine felice, ben determinato. Questo secondo atteggiamento fa confluire progressismo e utopismo: il perpetuo cambiamento sfocia nello stato stazionario, il movimento della storia si afferma solo per meglio prevederne la fine. Il primo atteggiamento non è tuttavia più realista. Da una parte, se l’uomo è in cammino verso la perfezione, in quanto chiamata a realizzarsi, dovrà ben un giorno cessare di perfezionarsi. D’altra parte, se non c’è una meta comprensibile del progresso, come si può parlare ancora di progresso, poiché solo il riconoscimento di una meta data consente di affermare che uno stato nuovo rappresenta, rispetto a questa meta, un progresso rispetto allo stato precedente?

Un’altra questione altrettanto importante è questa: il progresso è una forza incontrollata che agisce da sola, oppure gli uomini devono intervenire per accelerarlo o ancora eliminare ciò che lo ostacola? Il progresso è d’altro canto regolare e continuo, o implica salti qualitativi bruschi e rotture? Si può accelerare il progresso intervenendo nel suo corso o si rischia, così facendo, di ritardare la sua realizzazione?  Anche qui, i liberali, fautori della «mano invisibile» e del «laisser-faire», si separano dai socialisti, più volontaristi, se non rivoluzionari.

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E’ proprio nel XIX secolo che la teoria del progresso conosce in Occidente il suo apogeo. Essa si riformula tuttavia in un clima diverso, segnato dalla modernizzazione industriale, il positivismo scientista, l’evoluzionismo e la comparsa delle grandi teorie storiciste.

L’accento è posto allora sulla scienza più che sulla ragione, nel senso filosofico del termine. Si diffonde la speranza di un’organizzazione «scientifica» dell’umanità e di un dominio di tutti i fenomeni sociali da parte della scienza. E’ il tema sul quale ritornano instancabilmente Fourier, con il suo Falansterio, Saint-Simon, con i suoi principi tecnocratici, Auguste Comte, con il suo Catechismo positivista e la sua «religione del progresso».

I termini «progresso» e «civiltà» tendono allo stesso tempo a diventare sinonimi. L’idea di progresso serve a legittimare la colonizzazione, che dovrebbe diffondere, ovunque nel mondo, i benefici della «civiltà».

Si riformula la nozione di progresso alla luce dell’evoluzionismo darwiniano, essendo la stessa evoluzione del vivente reinterpretata come progresso (in particolare in Herbert Spencer, il quale definisce il progresso inteso come evoluzione dal semplice al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo). Di conseguenza, le condizioni del progresso si trasformano sensibilmente. Il meccanicismo illuminista si coniuga d’ora in poi con l’organicismo biologico, mentre il suo pacifismo ostentato cede il posto all’apologia della «lotta per la vita». Il progresso deriva d’ora in avanti dalla selezione dei «più idonei» (i «migliori»), in una visione concorrenziale generalizzata. Questa reinterpretazione incoraggia l’imperialismo occidentale: poiché la civiltà dell’Occidente è «la più evoluta», è anche inevitabilmente la migliore.

E’ proprio allora che l’evoluzionismo sociale arriva al massimo della popolarità. La storia dell’umanità è divisa in «stadi» successivi, che segnano le differenti tappe del suo «progresso». La dispersione delle diverse culture nello spazio è ritrasposta nel tempo: le società «primitive» rimanderebbero agli Occidentali l’immagine del proprio passato (sono «antenati contemporanei»), mentre l’Occidente presenterebbe loro quella del loro futuro. Condorcet faceva passare l’umanità attraverso dieci tappe successive. Hegel, Auguste Comte, Karl Marx, Freud, ecc., propongono schemi analoghi, che vanno dalla «credenza superstiziosa» alla «scienza», dall’era «teologica» all’era «scientifica», dalla «mentalità primitiva» o «magica» alla mentalità «civilizzata» e al regno universale della ragione.

Coniugata al positivismo scientista, che concerne innanzitutto l’antropologia   e nutre l’illusione che si possa misurare in assoluto le cultura in valore, questa teoria è all’origine del razzismo, che percepisce le civiltà tradizionali sia come definitivamente inferiori,  sia come provvisoriamente in ritardo (la «missione civilizzatrice» delle potenze coloniali consiste nel far loro colmare questo ritardo), e postula l’esistenza di un criterio universale, un paradigma sovrastante,  che permette di gerarchizzare le culture e i popoli. Il razzismo appare quindi direttamente legato all’universalismo del progresso che a sua volta nasconde un etnocentrismo incosciente o celato.

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Non si discuterà qui della critica dell’idea di progresso, che in epoca moderna inizia con Rousseau, né delle innumerevoli teorie della decadenza o del declino che le sono state contrapposte. Si osserverà solo che quest’ultime rappresentano spesso (ma non sempre) il doppio negativo, il riflesso speculare, della teoria del progresso. L’idea di un movimento necessario della storia viene conservata, ma in una prospettiva inversa: la storia è interpretata, non come costante progressione, ma come inevitabile regressione (puntuale o generalizzata). In realtà, la nozione di decadenza o di declino appare altrettanto poco oggettivabile di quella del progresso.

Da almeno vent’anni, si moltiplicano le opere sulle disillusioni del progresso. Alcuni autori arrivano fino al punto di dire che l’idea del progresso non è altro che una «idea morta» (William Pfaff). La realtà ha senza dubbio più sfumature.  La teoria del progresso al giorno d’oggi è messa seriamente in discussione, ma non c’è dubbio che sopravviva in forme diverse.

I totalitarismi del XX secolo e le due guerre mondiali hanno, con ogni evidenza, scalzato l’ottimismo dei due secoli precedenti.  Le disillusioni sulle quali si sono infrante molte speranze rivoluzionarie hanno suscitato l’idea che la società attuale, per quanto deludente e priva di senso, sia malgrado tutto la sola possibile: la vita sociale è sempre più vissuta nell’orizzonte della fatalità.  L’avvenire, che appare ormai imprevedibile, ispira più inquietudini che speranze. L’aggravamento della crisi appare più probabile di un «futuro radioso».

L’idea di un progresso unitario è demolita. Non si crede più che il progresso materiale renda l’uomo migliore, o che i progressi conseguiti in un campo si ripercuotano automaticamente negli altri. Nella «società del rischio» (Ulrich Beck), il progresso materiale appare ambivalente. Si riconosce che i vantaggi hanno un prezzo. E’ evidente che l’urbanizzazione selvaggia abbia moltiplicato le patologie sociali e che la modernizzazione industriale abbia comportato un degrado senza precedenti dell’ambiente naturale. La distruzione massiccia dell’ambiente ha dato origine ai movimenti ecologisti, che sono stati tra i primi a smascherare le «illusioni del progresso». Lo sviluppo della tecno scienza, infine, solleva oltremodo la questione delle finalità. Lo sviluppo delle scienze non è più percepito come qualcosa che contribuisce sempre alla felicità dell’umanità: lo stesso sapere, come si apprende dal dibattito sulle biotecnologie, è considerato portatore di minacce.  In strati di popolazione sempre più vasti, si comincia a comprendere che più non è sinonimo di meglio. Si distingue fra l’avere e l’essere, la felicità materiale e la felicità “tout court”.

La tematica del progresso resta tuttavia significativa, anche solo a titolo simbolico. La classe politica continua a fare appello a un raggruppamento di «forze del progresso» contro gli «uomini del passato» e a tuonare contro «l’oscurantismo medievale» (o i «costumi di un’altra epoca»). Nel discorso pubblico, la parola «progresso» conserva nel complesso un’ampia risonanza o una carica positiva.

L’orientamento verso il futuro resta altrettanto dominante. Anche se si ammette che l’avvenire è carico di minacciose incertezze, si continua a credere, a rigore di logica, che le cose dovrebbero nel complesso migliorare in futuro.  Sostituito dallo sviluppo delle tecnologie di punta e dalla pianificazione mediatica delle mode, il culto della novità resta più forte che mai.  Tuttavia, si continua a credere che l’uomo è tanto più «libero» quanto più egli si sradica completamente dai suoi legami biologici o dalle sue tradizioni ereditate dal passato.   L’individualismo dominante, – unito a un etnocentrismo occidentale che ormai si legittima con l’ideologia dei diritti dell’uomo – si esprime attraverso la destrutturazione della famiglia, la dissoluzione del vincoli sociali e il discredito delle società tradizionali del Terzo Mondo dove gli individui sono ancora solidali con la comunità d’appartenenza.

Ma soprattutto, la teoria del progresso resta ampiamente presente nella sua versione produttivistica. Essa nutre l’idea che una crescita indefinita è al contempo normale e auspicabile e che un avvenire migliore passi necessariamente attraverso l’accrescimento costante del volume dei beni prodotti, e inoltre che favorisca la globalizzazione degli scambi. Nell’epoca attuale questa idea ispira l’ideologia dello «sviluppo», che continua a reputare le società appartenenti al Terzo mondo (economicamente) indietro rispetto all’Occidente e a fare del modello occidentale di produzione e di consumo l’esaltante destino di tutta l’umanità.  Questa ideologia dello sviluppo è stata interamente formulata da Walt Rostow, che nel 1960 enumerava le «tappe» che tutte le società del pianeta devono percorrere per accedere all’universo dei consumi e del capitalismo mercantile.  Come hanno sostenuto diversi autori (Serge Latouche, Gilbert Rist, ecc.), la teoria dello sviluppo non è altro alla fin fine che una credenza. Finché non avremo abbandonato tale credenza, non avremo ancora chiuso l’argomentazione sull’ideologia del progresso.

A.D.

Traduzione a cura di Cristina Laura Masetti