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L'Iran nel mirino dei mercati occidentali

di Paolo Borgognone - 23/01/2018

L'Iran nel mirino dei mercati occidentali

Fonte: Interesse Nazionale

I primi giorni del 2018 hanno fatto scorgere, a livello internazionale, l’alba di un nuovo tentativo di “rivoluzione colorata” in Iran. Notare, e cito dal sito dell’ANSA, chi siano stati gli attori geopolitici internazionali ad aver appoggiato le proteste in Iran dei giorni scorsi:

Gli Usa e Israele, ma anche l’Arabia Saudita e leader dell’Isis, hanno dichiarato apertamente il loro appoggio alle proteste cominciate lo scorso 28 dicembre a Mashhad, seconda città dell’Iran.

Bene, ora sappiamo, e lo dice l’ANSA e non un sito “complottista antioccidentale”, chi siano gli esponenti della coalizione anti-iraniana per il regime change a Teheran. Toh... C’è anche l’ISIS, vecchio strumento d’intelligence dell’imperialismo nel Vicino Oriente. E ci sono, naturalmente, i wahhabiti di Riyad, coloro i quali il circo mediatico liberal definisce, interessatamente, gli «islamici moderati». Tutti insieme dunque, americani, sionisti, wahhabiti e ISIS, per destabilizzare l’Iran sciita e rivoluzionario e portare a termine il “piano Kivunim” (1982) di partizione del Vicino Oriente in protettorati USraeliani organizzati su basi etniche e confessionali. I presupposti per la strategia rivoluzionario-colorata (geopolitici, l’Iran è il Paese vincitore del conflitto in Siria e rientra, da sempre, negli obiettivi bellici Usa-Israele) e gli attori politici impegnati sul campo (comparse, manovali del terrore e della sedizione, guest-stars patinate esposte a uso e consumo delle telecamere occidentali per persuadere l’opinione pubblica nostrana delle motivazioni liberal e glamour della “rivolta”) furono, pertanto, dispiegati integralmente. L’obiettivo dichiarato, sin dagli esordi dei moti studenteschi del luglio 1999 a Teheran, di chi, in Occidente e presso le corti delle petromonarchie del Golfo, intende perseguire politiche tese a ottenere il regime change in Iran è sempre e indiscutibilmente il medesimo: aprire il Paese, un mercato da 400-500 miliardi di dollari, alle aziende private straniere (alle condizioni di “investimento” dettate da queste ultime). Ovviamente, i fautori della riconversione occidentale dell’economia iraniana non intendono negoziare codesto processo di transizione con le autorità, democraticamente elette peraltro, di Teheran, e spingono sul tasto della velvet revolution per poter così insediare, in Iran, un esecutivo integralmente fiduciario degli interessi di chi intende investire miliardi nell’economia di un Paese ricchissimo di risorse e terreno di opportunità affaristiche e speculative notevoli per il mercato euro-atlantico dei capitali. L’Iran infatti, per limitarci a un paio di esempi, è il quinto Paese al mondo per riserve complessive di greggio e il secondo per riserve, pressoché poco sfruttate, di gas naturale. In questo senso, gli investimenti stranieri sarebbero attesi in Iran per ammodernare l’industria petrolifera interna, non completamente in grado, poiché ancora relativamente arretrata, di sfruttare al meglio le immense risorse energetiche naturali del Paese. Inoltre, l’Iran è, secondo i dati forniti da il Sole 24 Ore, un Paese attraversato da un vero e proprio boom di attività edilizie, con «un volume di 154 miliardi di dollari» annui in una nazione abitata da 80 milioni di persone, di cui il 50 per cento sotto i 30 anni di età. Stati Uniti e Ue sono recentemente entrati in contrasto sul dossier iraniano perché le cancellerie europee, sostanzialmente schierate sulla direttrice Obama-Kerry in politica estera, auspicano di potersi inserire, col loro business, nel mercato iraniano di concerto con il procedere delle riforme liberiste annunciate dall’esecutivo dell’hojatoleslam Hassan Rohani mentre l’amministrazione Trump, stretta alleata del governo israeliano, mantiene un atteggiamento aggressivo anche dal punto di vista bellico nei confronti dell’Iran. Il pretesto yankee per la “guerra umanitaria” è infatti sempre lo stesso: si afferma che è “diritto-dovere” degli Usa e dei loro “alleati” occidentali intervenire militarmente per “liberare” un Paese le cui élite “autoritarie” starebbero “massacrando” i giovani rivoltosi che chiedono più “libero mercato” economico e più “diritti civili”. Interessante notare come coloro i quali, nell’ambito del circo mediatico di complemento agli interessi Usa-Israele, al minimo stormir di fronda piazzaiola nei Paesi individuati da Washington e Tel-Aviv come target da colpire con strike missilistici “umanitari” preventivi, sbraitino per invocare regime change e “rivoluzione”, siano invece i primi a biascicare ripetutamente a favore di “ordine e stabilità” (neoliberale) nei Paesi a regime economico ipercapitalista e a regime culturale sorosiano e politically correct. Gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Trump, intendono arrivare al regime change in Iran per via militare o sanzionatoria (embargo). La Ue ambisce invece, ora che ha trovato in Rohani un interlocutore compatibile, a ottenere un graduale cambiamento di sistema in Iran facendo ricorso agli strumenti del soft power (guerra culturale, sostegno politico-mediatico agli attori sociali iraniani più sensibili, per estrazione di classe e stile di vita, al richiamo delle mode occidentali). Paradossalmente, il soft power europeo potrebbe arrecare, in prospettiva, danni più profondi al tessuto sociale e istituzionale della Repubblica islamica rispetto al, per ora fortunatamente soltanto ventilato, ricorso, da parte di Trump e della sua amministrazione, all’hard power. Il soft power è in effetti teso a provocare il regime change in Iran non attraverso una guerra militare preventiva e/o un embargo che avrebbero, come effetto immediato, il ricompattamento della società iraniana, notoriamente improntata, dal punto di vista ideologico, al patriottismo e alla diffidenza nei confronti dei tentativi stranieri di ingerenza nelle sue dinamiche interne. Il soft power, infatti, mira a dividere la nazione iraniana in una “società civile” urbana, occidentalizzata e avvezza a recepire i beni di consumo occidentali come status volti a garantire maggiori possibilità di ascesa individuale e una sterminata suburra di elementi “marginali”, per motivi culturali o di censo esclusa dall’accesso ai gadget e agli stili di vita modernizzanti riservati a una minoranza upper class di nuovi professionisti della transizione del Paese in direzione della cosiddetta free market democracy. Il soft power occidentale è il fattore politico-ideologico (e mediatico) di stimolo, in Iran come in tutti i Paesi soggetti a processi di ricolonizzazione geopolitica e adeguamento socio-economico in chiave mainstream, del partito liberale transnazionale della destabilizzazione e della guerra civile e settaria interna a codesti Paesi (Stati-Nazione sovrani strumentalmente e impropriamente definiti, dalla propaganda atlantista, Rogue States, “Stati canaglia”). I quadri ideologici del liberalismo americano d’assalto (clintoniani e neocon) considerano infatti il soft power occidentale l’arma più sofisticata ed efficace da utilizzare per attuare, concretamente, i propri propositi di ricolonizzazione dei cosiddetti Rogue States. I liberal favorevoli alla dottrina dell’esportazione della free market democracy all’estero accusano infatti Trump di aver rinunciato al soft power come strumento privilegiato a disposizione dei ceti professional e manageriali euro-atlantici e finalizzato a «creare attrazione per gli Usa» (cit. Joseph Nye) nel novero dell’immaginario collettivo dei popoli di tutto il pianeta. L’Iran è, secondo l’accurata ricostruzione del giornalista Fulvio Scaglione, un Paese giovane e istruito. Scrive infatti Scaglione sul sito Linkiesta:

L’Iran è prima di tutto un Paese di giovani, proprio come il Medio Oriente è una regione di giovani. In Iran (82 milioni di abitanti) l’età media è di 30 anni e il 40% della popolazione ha meno di 25 anni. In Medio Oriente oltre il 30% dei circa 430 milioni di abitanti ha meno di 30 anni. Nell’uno come nell’altro caso si tratta di giovani educati e preparati. Il tasso di iscrizione all’Università, in Iran, nel 2015 è arrivato al 70% (solo nel 1999 era al 20%), più che in Italia, Giappone e Regno Unito e pari a due volte la media mondiale. Velo o non velo, quasi il 70% degli studenti universitari sono ragazze […]. Moltissimi di questi studenti, inoltre, integrano o completano gli studi con corsi all’estero. Nell’anno accademico 2015-2016, per fare un esempio, l’Iran è stato l’11° Paese al mondo per numero di studenti mandati negli Usa: 12.269, affiancati da 1.891 visiting professor e ricercatori.

Nel perimetro di questa gioventù iraniana istruita, urbana (molti dei giovani iraniani benestanti, figli della borghesia privata autoctona, risiedono nei quartieri altolocati di Teheran Nord) e di ceto medio, si insinuano i potenziali interlocutori politici dell’Occidente in grado di ricoprire il ruolo di manovalanza rivoluzionario-colorata in un’ottica di innesco della dinamica eterodiretta di regime change nel Paese. L’Iran è un Paese solidale ma preda di gravi questioni sociali irrisolte (disoccupazione) e animato da un profondo conflitto culturale interno tra i giovani modernizzanti e filoccidentali delle classi agiate urbane (una percentuale minoritaria ma comunque non trascurabile e, soprattutto, politicamente attiva, nel computo complessivo della società autoctona) e i tradizionalisti residenti nelle città di provincia (Mashhad, Qoom) e nelle aree periferiche e rurali del Paese. In particolare, i settori più filoccidentali e favorevoli ai processi di globalizzazione liberale del femminismo iraniano (l’Iran è, in realtà, un Paese dove le donne possono ricoprire ruoli pubblici di altissimo profilo e in cui sono, nella loro vita privata e quotidiana, molto meno discriminate di quanto vogliano far apparire, mentendo, i media mainstream) affermarono che le rivendicazioni di cui i propri quadri ideologici si facevano interpreti e portavoce erano tese a favorire «le giovani ragazze che cercano più opportunità professionali» nell’ambito della società capitalistica di mercato. In altri termini, i giovani iraniani di ceto medio ambiscono a ottenere, dalle autorità pubbliche post-rivoluzionarie, un surplus di opportunità e, si badi bene, flessibilità, volto a incrementare le proprie possibilità di accesso ai “diritti categoriali” (per aspiranti manager e professionisti occidentalizzati e ideologicamente fedeli al credo liberal postmoderno) caratteristici di una società individualizzata e tecno-mercantile. Al di là delle numerose contraddizioni interne a un Paese, l’Iran, attraversato da episodi di malcontento pubblico riconducibili anche agli strati sociali provinciali, culturalmente conservatori e tradizionalisti, penalizzati dalle politiche liberiste varate, dal 2013 a oggi, dall’esecutivo moderato-riformista di Rohani, è ovvio che le potenze internazionali impegnate a lavorare per lo smantellamento del sistema socio-economico e istituzionale della Repubblica islamica (Velāyat-e faqih, governo del giurisperito) ritrovino i loro interlocutori politici privilegiati in quella fazione di ceto medio-alto della borghesia urbana che, sulla scorta dei propri omologhi occidentali, tendono ad attribuire un valore di scambio alla realtà nel suo complesso. I giovani iraniani di ceto medio urbano (la upper class cosmopolita di Teheran) tendevano a farsi strumentalizzare con una certa qual facilità da possibili agenti esterni aventi il compito di fomentare disordini e caos nel Paese. Nel 2009, al culmine del tentato golpe dell’Onda Verde, l’allora leader del movimento contestatario, il candidato riformista uscito sconfitto dalla competizione elettorale presidenziale, Mir-Hossein Mousavi, per scrollarsi di dosso l’aura, nefasta in un Paese fortemente patriottico quale l’Iran, di beniamino di potenze straniere, occidentali, disse che la sua coalizione politica non avrebbe mai incluso i sostenitori degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, di Israele e del ritorno della monarchia nel Paese. Tuttavia, le frange più politicizzate della protesta iraniana del gennaio 2018 parvero piuttosto in sintonia con i presupposti occidentali delle politiche di riconfigurazione americana del Vicino Oriente tanto che, nelle manifestazioni a Teheran (peraltro scarsamente partecipate, nell’ottica delle poche centinaia di protestatari), furono lanciati slogan come «Non per Gaza, non per il Libano, non per la Siria, la mia vita per l’Iran» (un motto, questo, molto gettonato tra la “gioventù bene” della capitale iraniana) e invettive contro Russia e Cina. Da notare come il ceto politico-mediatico liberal italiano, solitamente intento a tacciare di “massimalismo” e “irresponsabilità” i sostenitori, in Occidente, del disimpegno militare americano nei Paesi occupati dagli yankee a seguito di guerre imperialiste sul tipo dell’Iraq o della Libia, nel caso iraniano si fosse immediatamente precipitato ad abbracciare la causa “anti-interventista” (l’Iran è infatti impegnato, anche militarmente, con consiglieri e alcuni reparti speciali di pasdaran in loco, a difesa della sovranità siriana pesantemente minacciata dalla guerra per procura mossa contro Damasco dalla coalizione occidentale e saudita a guida Usa) promossa dai gruppi più filoccidentali tra i manifestanti di Teheran. Gli slogan “anti-interventisti” scanditi da alcuni tra i manifestanti di Teheran coincidevano infatti con i propositi neocoloniali degli Stati Uniti i quali ribadirono, tramite una dichiarazione del segretario di Stato Rex Tillerson, che «il disimpegno degli Usa dalla Siria fornirebbe all’Iran l’opportunità di rafforzare ulteriormente la sua posizione in Siria». Gli Usa si arrogavano dunque, ancora nel gennaio 2018, il diritto di poter intervenire militarmente in ogni area del globo in cui gli interessi delle loro corporation private venivano in qualche modo posti in discussione, limitati o dove tali corporation avrebbero faticato, in regime negoziale paritario con i governi degli Stati sovrani potenzialmente interessati a recepire investimenti stranieri, a insediarsi dettando proprie indiscutibili condizioni. Gli Usa, contestualmente, negavano agli Stati-Nazione minacciati dai loro propositi di guerra preventiva o per procura, il diritto di difendersi o di intervenire, a loro volta, in difesa di Stati attaccati militarmente da Washington. La premessa ideologica americana verteva infatti attorno all’assunto secondo cui il liberalismo anglo-sassone avrebbe potuto, in quanto percepito, dai suoi corifei e giannizzeri del mainstream media, come “moralmente superiore” rispetto a ogni altro modello socio-economico di sviluppo, determinare i destini dell’umanità intera senza doversi confrontare, nel proprio tentativo di dispiegarsi su scala globale, con ostacoli di sorta. In definitiva, in Iran, nei primi giorni di gennaio 2018, stante anche le indiscrezioni di politica interna seguite alla cessazione degli episodi di protesta, si sarebbe consumato una specie di intreccio tra il tentativo, fallito, di orchestrare, da parte di potenze esterne (quelle citate al principio di codesto articolo), un putsch di piazza più o meno eterodiretto e il conflitto politico, latente da anni, interno alla gerarchia di poteri a Teheran.