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Piccolo è bello

di Nicolas Bonnal - 27/01/2018

Piccolo è bello

Fonte: Comedonchisciotte

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Il pensatore austro-americano Leopold Kohr era citato insieme a Jacques Ellul e Guy Debord alla fine del documentario apocalittico Koyaanisqatsi. È così che l’ho scoperto nel 1983. In realtà mentre il suo nome è sconosciuto, è noto il suo mitico slogan: piccolo è bello. Kohr è colui che ha messo in dubbio il mondo moderno in tutto ciò che ha di gigantesco, titanico e complicato. Per lui tutto crollerà; o, se non crollerà, di certo finirà male. In un tempo in cui l’Europa barcolla, gli Stati Uniti barcollano, o la Spagna barcolla, faremmo bene a riscoprire il suo “Il crollo delle nazioni” pubblicato più di venticinque anni fa. Vicino ai liberali o ai conservatori (io sono delle due scuole, quindi sono molto preoccupato), il pensiero di Kohr potrebbe offrire un’alternativa alla nostra civilizzazione segnata dal gigantismo messianico e dall’ipnosi tecno-totalitaria. Leopold Kohr è un po’ come René Girard. La sua spiegazione deve essere spiegata. Ecco cosa scrive nelle prime pagine de “Il crollo delle nazioni”: «Come i fisici contemporanei hanno tentato di elaborare un’unica teoria, capace di spiegare non solo alcuni ma tutti i fenomeni dell’universo fisico, io proverò a sviluppare un’unica teoria attraverso la quale non solamente alcuni ma tutti i fenomeni dell’universo sociale saranno ridotti a un comune denominatore

 

E il suo segreto, ispirato da un’osservazione del nostro Jonathan Swift, è il rifiuto del globale, della massa, della grandezza. Il risultato è una nuova filosofia politica, unificata e fondata intorno alla grandezza. Essa suggerisce che ci sia una sola causa dietro tutte le forme di miseria sociale: la grandezza. Per quanto semplicistico possa sembra, troveremo l’idea più accettabile se considerassimo che la grandezza, o sovradimensione, è molto più di un semplice problema sociale. Sembra essere il solo e unico problema. Dove qualcosa non va, è perché c’è qualcosa di troppo grande. Presenta poi alcuni esempi fisici e medici: «Se le stelle nel cielo o gli atomi di uranio si disintegrassero in un’esplosione spontanea, non è perché la loro sostanza ha perso d’equilibrio. Ma perché la materia ha tentato di andare al di là di limiti impraticabili. La loro massa è diventata troppo grande. Se il corpo umano si ammala, è, come nel cancro, perché una cellula, o un gruppo di cellule, ha oltrepassato i propri limiti prestabiliti.» Senza alludere a Le Bon e a tutti coloro (Canetti, Freud, Pearson) che hanno studiato la triste civilizzazione delle masse e dell’abbruttimento collettivista moderno, Kohr giustamente aggiunge: «E se i corpi sociali diventano malati per effetto della febbre dell’aggressione, della brutalità, del collettivismo, o dell’idiozia massificata, non è perché siano vittime di una cattiva leadership o di un disturbo mentale. È perché gli esseri umani, così belli quando singoli o organizzati in piccole aggregazioni, sono stati saldati in unità sociali concentrate come le folle, i sindacati, i cartelli o i grandi poteri. È allora che si scivola verso una catastrofe incontrollabile.»

 

La società postmoderna sembra meno pericolosa ma è più stupida. Correttamente Huizinga aveva parlato della deriva dello sport massificato nel suo Homo ludens, che è allo stesso tempo un omaggio al mondo tradizionale non massificato. Kohr aggiunge in omaggio a Malthus (perché no?): «I problemi sociali, per parafrasare la dottrina della popolazione di Thomas Malthus, hanno la triste tendenza a crescere geometricamente con la crescita dell’organismo di cui fanno parte, mentre la capacità dell’uomo di fare fronte a essi, per quanto possa essere estesa, procede aritmeticamente. Ciò significa che, se una società si sviluppa oltre la sua taglia ottimale, i suoi problemi superano le facoltà umane che sono necessarie per risolverli.» Ci stiamo avvicinando al nostro argomento: la deriva fascista ed escatologica degli Stati Uniti. Kohr scrive: «Dopo la seconda guerra mondiale, iniziò una tendenza simile alla distruzione della propria potenza mondiale, ma in maniera più lenta. Nel frattempo, si è completamente fermata. Gli Stati Uniti sono diventati una grande potenza. Di conseguenza, lo stato d’animo corrispondente, sviluppatosi come conseguenza forse indesiderata ma inevitabile, ha cominciato a manifestarsi in numerose occasioni, ad esempio quando il segretario alla difesa del presidente Truman, Louis Johnson, ha considerato nel 1950 una guerra preventiva, o quando il generale Eisenhower, durante un discorso tenuto al Congresso nello stesso anno, ha dichiarati che noi possiamo schiacciare il mondo. Queste ultime parole sembrano appartenere più all’esuberante Kaiser tedesco che al rettore dell’università Columbia. Perché un difensore della pace e della democrazia dovrebbero volere schiacciare il mondo? Espressa in modo non aggressivo, l’affermazione significa che “se siamo uniti, il mondo intero non potrà liquidarci”.»

 

Kohr cerca di spiegarci questi nuovi tempi segnati dall’arroganza e dal terrore e dalla lotta contro il ​​terrore: «Tuttavia, questo mostra come il potere generi questo singolare stato d’animo, in particolare in un uomo che dovrebbe conoscere l’intera portata del potenziale americano. Dimostra anche che nessuna ideologia della pace, anche qualora ancorata alle tradizioni di un paese, possa impedire la guerra se si presentano certe condizioni di potere. Può solo essere rinviata o abbellita dalla propaganda come prescrive il mito ingannevole della guerra preventiva che profetizzava l’aggressione con l’obiettivo solennemente dichiarato di evitarla. È come se si uccidesse un uomo per evitargli la pena di morire.» Questo mi fa pensare al «principio di precauzione» il cui uso non può che rivelarsi minaccioso nelle sue applicazioni, ridicolo nei risultati e totalitario nell’esito. Kohr riprende Hegel e Marx per il quale un cambiamento quantitativo comporta necessariamente una mutazione qualitativa. La tranquilla nazione di Jefferson divenne un piccolo mostro sotto Lincoln o Roosevelt I, un enorme mostro sotto Roosevelt II-Truman e una creatura teratologica e comica sotto Bush-Obama-Trump. Egli spiega: «È sempre la massa critica del potere che trasforma le nazioni in aggressori, mentre l’assenza di potere critico sembra essere la condizione che li rende pacifici. La calma non è dunque un’attitudine mentale o una qualità acquisita. Ma è il risultato di una debolezza fisica. Le tribù più selvagge sono pacifiche quando sono deboli. Ma, per lo stesso motivo, i popoli civilizzati diventano selvaggi quando sono forti.» E diventando forti, diventeremo pericolosi (Stati torturatori poi imperi coloniali delle nazioni dell’estremo occidente europeo). E diventando più grossi, noi diventiamo anche mediocri. Nietzsche, Hobsbawn o Bakunin hanno sottolineato la sterilità culturale e musicale della Germania e dell’Italia post unificazione … culminata nei mostri politici che conosciamo. Kohr teme ancora di più, verso il 1960, lo Stato mondiale o la demenza ridicola della costruzione europea. Ci resta da sottolineare che il suo culto per i piccoli stati (più pacifici, solidali, colti, ecc.) può facilmente essere manipolato dalle potenze di turno. Non è dimostrato che la decostruzione dei nostri poveri Stati-nazione – o ciò che ne resta – favorisca necessariamente la libertà, la prosperità e soprattutto la cultura dei nostri popoli. Sarebbe comunque un passo in avanti verso l’eliminazione del progetto flaccido e grottesco della gargantuesca costruzione mondiale.

 

  (traduzione di VOLLMOND)