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Elogio dei dazi

di Roberto Pecchioli - 31/01/2018

Elogio dei dazi

Fonte: Maurizio Blondet

Cicero pro domo sua è il titolo di una celeberrima arringa di Marco Tullio Cicerone, con la quale il grande giurista richiedeva la restituzione del terreno su cui sorgeva la sua casa. Rimasta proverbiale come espressione di biasimo per chi difende una causa esclusivamente personale, potrebbe essere un’accusa rivolta contro l’autore di queste note, che scrive un elogio del dazi avendo svolto la professione di funzionario delle dogane. Ci si darà almeno atto di padroneggiare la materia, tornata alla ribalta a seguito della decisione del presidente americano Trump di stabilire pesanti dazi a carico delle importazioni di pannelli solari dalla Cina e di lavatrici ed altri elettrodomestici dalla Corea del Sud.

E’ nostra convinzione che la misura statunitense sia corretta e ristabilisca un principio di supremazia della politica, ovvero dell’interesse nazionale, sulla nuda ragione globalizzatrice. America first, prima l’America, ci sembra altrettanto giusto quanto un auspicabile “prima l’Italia” dei nostri governanti. Di passaggio, ricordiamo che l’importazione di pannelli solari produsse negli scorsi anni varie truffe a carico dello Stato italiano. L’UE non pose dazi sui pannelli di fabbricazione cinese, che divennero presto monopolisti sul mercato, e l’Italia concesse l’IVA ridotta al 10 per cento per chi non si limitava a commercializzare i manufatti, ma ne curava l’installazione o ne faceva uso diretto. Questo è solo un aneddoto, Il fatto concreto è che l’imposizione di dazi è una delle più importanti espressioni della politica economica di uno Stato e, in definitiva, della sua concreta sovranità.

Ci sono tracce dell’importanza della dogana pubblica e della riscossione di tasse sin da 2.500 anni fa, allorché le merci in entrata nel porto greco del Pireo erano sottoposte a una gabella del 2 per cento sul valore: i primi dazi all’importazione, chiamati pentekostès. Fu Roma a inventare la parola datium, ciò che è dato, per definire l’imposta di transito su merci e persone. Lo stesso termine dogana ha una storia antichissima. Proviene dal turco diwan, che designava sia il luogo del Bosforo ove venivano riscosse le tasse sulle merci in transito, sia il mobile (divano) su cui sedeva il dignitario incaricato. La prima tariffa doganale organica italiana, un elenco di prodotti provvisti di una denominazione e descrizione a fini fiscali è del XVIII secolo, per il settore tessile, protagonista della prima rivoluzione industriale in Inghilterra, seguita alle invenzioni di macchinari come il filatoio (1770) e il telaio meccanico (1786).

Oggi è adottata a livello mondiale una tariffa doganale di migliaia di pagine, organizzata in capitoli e “voci doganali”, che individua ogni manufatto o prodotto della natura. La tariffa dell’Unione Europea con l’indicazione del trattamento tributario all’importazione e all’esportazione di ciascuna tipologia merceologica è unica per i 28 Stati, area di libero scambio non gravata da dazi interni titolare di una politica doganale comune verso i Paesi terzi.

I dazi, insomma, sono una cosa molto seria, tant’è che la reazione isterica a Trump del partito di Davos, il circolo esclusivo e dittatoriale dei globalisti interessati al mercato libero planetario, è stata davvero forte. Si sono ascoltate piccate lezioni di libero scambio da un gigante, la Cina, formalmente comunista che non incoraggia certo libere importazioni nel suo immenso mercato interno. Non è mancata l’intemerata di Angela Merkel, uno strappo rabbioso dopo tre quarti di secolo di sudditanza dei vinti. Il fatto è che la Germania, in tandem con la Cina, è la nazione esportatrice per eccellenza, e vanta un avanzo commerciale annuo di ben 287 miliardi di euro, il che, tra l’altro, è in contrasto con le regole europee. Chi comanda, si sa, fa quello che gli conviene. Altrettanto seccate le reazioni di parte francese ed italiana. I conversi sono i più accaniti: gli ex comunisti riciclati in acerrimi difensori del libero mercato e dell’abolizione dei dazi farebbero tenerezza se non lavorassero contro gli interessi del loro stesso elettorato.

Cerchiamo allora di fare chiarezza, a partire dalla circostanza che, piaccia o no, la politica economica di Trump ha due obiettivi in linea con le promesse elettorali che lo hanno portato alla Casa Bianca. Il primo, da realizzare attraverso imponenti sgravi fiscali, è reindustrializzare l’America, restituendole quel ruolo di regina della manifattura che ha perduto. Non dimentichiamo che negli anni successivi alla vittoria del 1945 l’economia Usa rappresentava il 50 per cento degli scambi mondiali e tale quota si è ridotta della metà.

L’altro scopo è quello di contenere l’avanzata, sinora irresistibile, del Dragone di Pechino, detentore di una larga fetta dello sterminato debito pubblico americano. I dazi posti rappresentano una tipica misura di politica commerciale nei confronti dei competitori diretti dei comparti industriali che si sceglie di rafforzare. Le lagne dei finti o veri liberoscambisti lasciano dunque il tempo che trovano. Altra cosa è prendere atto che una nazione tanto potente, paladina del liberismo e del mercato padrone, allorché si vede minacciata negli interessi, reagisce esattamente come ogni potenza ha sempre fatto nel corso della storia, proteggendo se stessa, erigendo barriere tariffarie, difendendo il mercato interno.

Il protezionismo, in definitiva, è la condizione normale della politica commerciale di tutti gli Stati. La situazione più desiderabile è vendere più di quanto si acquista e il termine mercantilismo rappresenta da secoli tale modello, di cui fu espressione la Francia del grande ministro Colbert, per oltre vent’anni al servizio di Luigi XIV, il Re Sole. La ricetta è apparentemente semplice: poiché la ricchezza della Stato è l’accumulo monetario, è essenziale acquisire valuta attraverso l’esportazione limitando l’esborso per importazione. Non deve essere una sciocchezza, se Germania e Cina, i grandi creditori commerciali, sono tanto nervosi per i dazi americani.

Non dimentichiamo l’importanza della leva valutaria, che ha alimentato il boom italiano negli anni del dopoguerra sino alla gabbia dell’euro. La svalutazione competitiva della lira metteva il vento in poppa alle nostre esportazioni, insieme con la geniale capacità di lavoro e di problem solving(ah, la neo lingua dei sapienti anglofoni!), alimentando una delle stagioni migliori della nostra storia. Oggi tocca agli Usa, accusati non senza fondamento di manipolare al ribasso il valore del dollaro e alla Cina, che mantiene artificiosamente ai minimi lo yuan. Con la moneta unica europea, al contrario, la Germania ha realizzato con altri mezzi la svalutazione del vecchio, fortissimo marco e si sta mangiando le economie di chi non ha capito il gioco, in primis l’Italia.

Del resto, la politica tariffaria nostra si è lungamente basata sulla utilizzazione selettiva della leva daziaria. Da noi, i paesi del mondo erano divisi in tre zone, A, B, C. A quest’ultima apparteneva il solo Giappone, che per decenni fu nostro concorrente diretto, nei confronti del quale erano posti dazi elevatissimi e divieti di importazione, il più severo dei quali ha tenuto la Fiat al riparo della concorrenza nipponica nel settore automobilistico. Adesso Marchionne ha voltato le spalle all’Italia e si giova dei vantaggi della politica fiscale e commerciale degli Usa con la Fca a Detroit. La zona B comprendeva gli Stati del blocco comunista, nei confronti dei quali vigeva una politica di chiusura con eccezioni, rappresentata dal regime delle autorizzazioni ministeriali e degli interessi della grande industria. La Fiat costruì un grande stabilimento in Unione Sovietica, con la fondazione della città chiamata Togliattigrad in onore del leader comunista italiano.

La zona A era a sua volta divisa in tre gruppi. Il primo comprendeva il Mercato Comune Europeo dell’epoca, il secondo il resto d’Europa e i paesi più ricchi come gli Usa, mentre il terzo riuniva Africa e Sudamerica nel gruppone dei PVS, Paesi in Via di Sviluppo, con trattamento doganale unilaterale di favore, sul modello della clausola di nazione più favorita ben noto al diritto internazionale. I livelli dei dazi erano modulati per sostenere il nostro ruolo di economia di trasformazione, evitando dazi sulle materie prime, difendendo nel contempo con imposte elevate in entrata quei settori industriali che sarebbero stati danneggiati da massicce importazioni.

Contemporaneamente, veniva sostenuta l’esportazione, abolendo divieti e dazi in uscita, nonché fiscalizzando il cosiddetto drawback, ovvero la restituzione alle imprese esportatrici dei dazi sopportati all’importazione di prodotti e materiali riesportati o lavorati. Venne trattata come un’opportunità anche la cronica lentezza dei rimborsi IVA attraverso il meccanismo del plafond, che permetteva agli esportatori l’acquisto di beni di estera provenienza senza imposta a sconto dei versamenti IVA.

I residui divieti all’esportazione vennero – e restano- mantenuti per motivi politici. Non si vendono armi, sistemi informatici o prodotti chimici a Stati con cui siamo in cattivi rapporti; in più c’è il sistema dell’embargo e delle autorizzazioni ministeriali. Oggi assistiamo a gravi perdite per le imprese italiane che lavorano sul mercato russo ed è più costoso l’approvvigionamento energetico, il che dimostra quanto sia importante la sovranità nazionale. Ben difficilmente un’Italia indipendente avrebbe elevato sanzioni nei confronti della Russia, da cui non ci dividono né controversie territoriali, né contese economiche o insanabili contrasti politici, fornitrice di energia a buon prezzo, acquirente di prodotti di punta della nostra economia. Sappiamo chi ringraziare.

I dazi assomigliano alle chiuse di un fiume. A seconda delle necessità, le paratie possono funzionare a regimi diversi: passa più o meno acqua in base alle scelte delle autorità o alla disponibilità della risorsa idrica. Ciò che non si può fare è chiudere completamente il flusso; in tutti i tempi e sotto ogni cielo, l’uomo ha commerciato con i vicini e anche con i lontani. La dogana, sempre, si è identificata con un confine, una linea di divisione, un luogo di decisione, dentro o fuori. Oggi è di moda, in ossequio al liberismo economico unito al suo doppio, l’universalismo culturale, la stucchevole espressione “costruire ponti, abbattere muri “. Noi affermiamo che si tratta di una sciocchezza travestita da virtuoso senso comune. Gli uomini hanno sempre gettato ponti, ma nel momento stesso in cui univano due rive, ne riconoscevano l’esistenza distinta, prendevano atto delle distanze e delle convergenze di chi viveva ai lati.

Una frontiera riconosciuta e rispettata, dalla quale sorgono doveri di identificazione e limitazioni commerciali di cui i dazi sono il simbolo, è un luogo di conoscenza, cinghia di trasmissione, presa d’atto di differenze che vengono insieme riconosciute e neutralizzate dalla presenza di una sbarra mobile, che si apre, ma che può anche chiudersi, la linea doganale, il confine. La filologia mente di rado: confine deriva da cum –finis, avere in comune un limite. E’ ovvio che ogni confine debba aprirsi, ma a determinate condizioni, osservati criteri stabiliti. L’economia, il commercio sono parte della vita degli uomini, i quali talvolta alzano muri o barriere per proteggere se stessi. Aprire indiscriminatamente, abolire il limes, il limite, la barriera, espone a rischi incalcolabili. Non a caso esistono opere dell’ingegneria come la Grande Muraglia cinese e il Vallo di Adriano.

La moneta euro, al riguardo, presenta una simbologia che non lascia dubbi: nessuna immagine di grandi uomini, re o regine, nessuna iconografia legata a opere d’arte riconoscibili del genio europeo, solo stilizzazioni di ponti e finestre. Nessun limes, nessuna linea di confine, basta dogane. Tutto e tutti possono entrare e uscire senza controllo e in assenza di giudizio politico, anzi il pre-giudizio è che non debbano esistere limiti. Follia culturale che diventa impotenza pratica e libero dispiegarsi delle forze distruttrici. John Keynes li chiamò spiriti animali del capitalismo e Joseph Schumpeter, più immaginifico, distruzione creatrice.

L’ideologia del libero scambio non regge alla prova della realtà. Non lo dimostra soltanto la diatriba sui dazi di Trump, ma la stessa Unione Europea. Infatti, nei confronti di diversi Stati, dalla Russia all’Ucraina, dalla Cina alla Malaysia sino al Bangla Desh, resta in vigore un’ampia gamma dei cosiddetti dazi antidumping. Si tratta di imposizioni pesantissime che l’UE riserva a produzioni, aziende, paesi in diretta concorrenza con il sistema industriale continentale. Purtroppo, la legge è quella del più forte, così è soprattutto la Germania a beneficiare dei dazi aggiuntivi a protezione della sua industria. L’Italia ha richiesto invano misure a favore della nostra manifattura, osteggiate dai paesi dell’Europa centrale e settentrionale. Al riguardo, desta meraviglia che dirigenti politici responsabili promettano l’istituzione di nuovi dazi, fingendo di ignorare che si tratta di una materia di esclusiva competenza comunitaria, esattamente come i proventi che ne derivano.

Il libero scambio di segno globalista è figlio dell’ideologia neoliberale nel momento della sconfitta storica del comunismo reale novecentesco. Non per caso il vecchio GATT (Accordo Generale su Tariffe e Commercio) si è trasformato nella potentissima Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) a trazione americana, promotrice degli accordi di Marrakesh e, successivamente, di Doha. A Marrakesh, al termine delle trattative dell’Uruguay Round, dopo la fine dell’Urss fu ridisegnata l’intera architettura del commercio planetario, con l’abbattimento progressivo e massiccio dei dazi e l’apertura generale dei mercati, resa totale dopo l’ammissione della Cina nel WTO, l’11 dicembre 2001, una data destinata a cambiare la storia del mondo, il vero inizio del terzo millennio. A Doha ci fu una parziale vittoria del protezionismo, specie nel settore agricolo. I paesi del Nord del mondo difesero le rispettive produzioni agricole, infliggendo peraltro un colpo molto duro alle speranza del Terzo e Quarto Mondo. Segno che l’ideologia del libero scambio può e deve essere derogata.

L’agricoltura e l’allevamento locali difendono l’ambiente, presidiano il territorio, permettono il mantenimento delle tipicità, preservano la biodiversità e trasmettono l’immensa cultura materiale contadina di cui siamo figli e debitori. In Europa, per decenni l’architrave della comunità fu la politica agricola. Il sistema PAC (politica agricola comunitaria) era orientato a sostenere le diverse produzioni nazionali con un vasto dispositivo di aiuti in denaro all’esportazione. L’Italia, purtroppo, non seppe difendere le proprie ragioni, e avemmo la guerra del latte, la supremazia degli interessi franco tedeschi, l’abbandono delle colture mediterranee, con annessa scandalosa distruzione di intere filiere produttive.

Pur senza aiuti, messi alle strette dall’abolizione dei limiti e dei dazi, gli agricoltori italiani sono ancora in piedi, autentici eroi civili di una nazione in disarmo, tanto da aver aumentato le esportazioni e diminuito la dipendenza alimentare italiana dall’estero. Tutto questo alla faccia del mercatismo il cui unico credo è produrre esclusivamente ciò che non può essere acquistato a prezzi più bassi, leggi delocalizzazioni, sfruttamento, schiavismo. E’ la fosca lezione di David Ricardo, ma in concreto l’impero britannico estorceva al subcontinente indiano le produzioni tessili, vietava l’uso dei telai in loco per concentrare la produzione nella madrepatria; il modello manchesteriano, libero scambio di facciata, mercantilismo imposto con la forza.

Oggi affrontiamo nuovi problemi, gli scenari sono del tutto diversi: avanza il commercio elettronico, che oltrepassa e sfugge le frontiere, nuovi attori globali gettano lo scompiglio nel meccanismo commerciale e nei sistemi tributari. Basta pensare ad Amazon per rendersi conto di quanto sia necessario un diverso modo di agire da parte di poteri pubblici in grandi spazi come l’UE che non riescono più a imporre e far rispettare regole e riscuotere tributi dai nuovi giganti. Alla fine, indifesi restano i popoli, tutti noi, che avevamo negli Stati l’unica tutela collettiva.

Quello che Montesquieu chiamava dolce commercio si è trasformato in una trappola globale, senza che l’utopia della pace perpetua si sia realizzata. Pensiamo alle ipocrite azioni di polizia internazionale, ai blocchi economici, all’embargo contro paesi non piegati al nuovo ordine mondiale, al ferreo controllo sulle fonti di energia fossile. Le barriere doganali, invero, oggi hanno altri nomi, sono di natura extra tributaria, ma continuano a sussistere sotto una nuova forma, a beneficio dei potentati privati padroni di tutto.

La dogana c’è più di prima, ma è ridotta a fare il lavoro sporco dei privati. Oggi i confini sono presidiati per difendere non le produzioni e gli interessi nazionali o riscuotere i dazi, ma per proteggere la proprietà intellettuale, i brevetti, le privative industriali, tutelare le esclusive degli attori economici globali. Flussi immensi di prodotti realizzati laddove il costo del lavoro è più basso invadono l’Europa pagando dazi sul valore risibili, con leggi che impediscono una seria lotta alla sottofatturazione, mentre la polizia doganale è il gendarme contro un nuovo nemico assoluto, la contraffazione dei prodotti e soprattutto dei marchi, che è certo un problema, ma riguarda prevalentemente le grandi multinazionali.  Contemporaneamente, in aree immense del mondo, il Made in Italy viene beffato impunemente.

Qualsiasi tentativo di organizzare la difesa economica e giuridica di settori produttivi aggrediti con provvedimenti doganali è vietata dal dogma della libera concorrenza, bollata come aiuto di Stato. Storicamente, al di là delle ideologie politiche, la leva doganale è stata sempre utilizzata sul doppio binario della politica internazionale e dell’economia. In particolare, si proteggono con i dazi i settori produttivi nella fase iniziale della loro espansione, nel momento di crisi acute e di fronte a nuovi competitori, mentre il sistema si è rivelato inefficace o controproducente dinanzi alle grandi innovazioni. In Germania, l’unificazione politica, realizzata dalla Prussia nel 1871, fu preceduta dall’unione doganale, la zollverein del 1834 che fu volano dello sviluppo industriale della grande nazione, con la direzione di un grande esponente dell’economia politica, Friedrich List, oggi dimenticato in quanto esponente di un pensiero ostile al libero mercato.

In Italia, è sufficiente rammentare che cosa sarebbe stato della Fiat e della grande industria senza il prudente protezionismo che ha consentito di consolidare molte aziende sul mercato interno per poi lanciarle alla conquista dei mercati internazionali. Interi comparti hanno prosperato per decenni – pelletteria, elettrodomestici, tessile – arricchendo e cambiando il volto della nazione, specializzandosi nella trasformazione, sostenuti dal dazio nullo sulle materie prime, dazi moderati o rimborsati all’atto dell’esportazione per i semilavorati, elevata imposizione dei prodotti esteri consimili.

Oggi Donald Trump non fa altro che fornire ossigeno alla manifattura americana, scommettendo sulla capacità delle industrie di produrre a prezzi competitivi con i nuovi concorrenti. Per riuscirci, ha bisogno di un sistema fiscale favorevole agli investimenti ma anche ai consumi e di un ragionevole lasso di tempo. Prendere tempo è la funzione storica dei dazi in periodi di vivace concorrenza. Segno che gli Usa intendono mantenere un ruolo guida internazionale e possiedono un progetto di futuro, a differenza dell’Europa.

Prigioniera di favole liberiste, serva di interessi privati stranieri, l’Italia Arlecchino arranca senza mettere in discussione la dogmatica perdente del mercato dominus, accetta di essere un granello perdente della globalizzazione, procede di corsa verso una dissipazione che assomiglia sempre più all’entropia, ovvero il massimo, irreversibile disordine.

E’ urgente, in qualche modo, tornare agli Stati, a politiche economiche equilibrate e non ideologiche. Il libero scambio è un mito incapacitante, una tigre che deve essere governata. Anche con i dazi, anche ripristinando la vecchia cara sbarra della dogana, la bandiera sul pennone e il potere di pronunciare sì o no all’entrata e uscita di merci, servizi, persone, capitali, le quattro indiscutibili libertà liberali che ci hanno resi più poveri, privi di identità, di sovranità, di diritti.