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La Germania poteva vincere la guerra nel 1918?

di Francesco Lamendola - 03/02/2018

La Germania poteva vincere la guerra nel 1918?

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

In genere, anche le persone che hanno una certa conoscenza dell’andamento della Prima guerra mondiale, delle sue differenti fasi, delle vicende sui suoi diversi fronti, tendono ad associare l’anno 1918 alla conclusione del conflitto e alla vittoria alleata, vista, a quel punto, come “inevitabile”, data la sproporzione delle forze in campo e la penuria di cibo e altri generi di prima necessità negli Imperi Centrali, determinata dal blocco marittimo inglese (cfr. il nostro articolo: Violando i diritti dei popoli, la Gran Bretagna affamò gli Imperi Centrali, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 05/03/2008). Eppure, lo storico militare sa bene che mai, come nei primi mesi di quell’anno, la Germania fu vicina alla vittoria sul fronte occidentale e che mai, come nei mesi fra marzo e luglio, le sorti della lotta furono incerte, e, dalla parte alleata, appese letteralmente a un filo, che avrebbe potuto spezzarsi in qualsiasi momento. Al culmine dell’ultima grande offensiva tedesca, per non più di due o tre giorni, il dio della guerra tenne la bilancia paurosamente in sospeso: quattro anni e mezzo di sforzi e sacrifici giganteschi si concentrarono nell’esito di poco più di quarantotto ore di lotta, durante le quali tutte le possibilità rimasero aperte, compresa quella di una clamorosa vittoria tedesca, che avrebbe rimesso in discussione l‘esito “scontato” del conflitto e dischiuso scenari politici completamente nuovi, come quello di un armistizio negoziato e il ripristino della situazione ante quem, con una pace di compromesso, senza vinti né vincitori. Tale fu il significato della Seconda battaglia della Marna, culminata fra il 15 e il 17 luglio. Se i tedeschi avessero colto, sulla Marna, quel successo che era sfuggito loro, quasi per un capriccio del destino, nel settembre del 1914, la storia dell’Europa e del mondo avrebbe potuto essere molto diversa da quella che conosciamo. Forse la Seconda guerra mondiale non ci sarebbe stata, né la successiva divisione dell’Europa mediante la Cortina di Ferro, e la sua perdita fulminea di rilevanza politica a livello mondiale; e forse non ci sarebbero stati né il fascismo, né il nazismo, ma solo una partita finale tra l’Occidente e il comunismo sovietico, risparmiando a tanti popoli il dramma di quasi mezzo secolo di dominazione comunista.
Ricapitoliamo la situazione al principio del 1918. Dopo aver fallito la campagna in Occidente con la Prima battaglia della Marna, i Tedeschi erano stato costretti alla difensiva per quasi tutto il tempo, pressati dalle necessità della guerra su due fronti, con la sola rilevante eccezione della battaglia di Verdun nel 1916, benché anche nel corso di essa la loro tattica fu piuttosto quella di costringere i francesi ad attaccare, che di sferrare direttamente il colpo risolutivo con una grande offensiva. Sul fronte orientale, fin dall’autunno del 1914 avevano dovuto accorrere in aiuto del loro vacillane alleato, l’Austria-Ungheria, che si era rivelato incapace di svolgere un ruolo primario contro i Russi. In effetti, l’intera strategia tedesca si era basata sul principio di sconfiggere rapidamente la Francia e poi spostare tutte le forze contro la Russia, per cui la possibilità di una guerra prolungata su due fronti contemporaneamente, francese e  russo, non era stata mai presa neppure in considerazione. Non solo: la strategia globale tedesca era partita dal falso presupposto che la Gran Bretagna non si sarebbe mossa e che, pertanto, le comunicazioni marittime sarebbero rimaste libere; mentre sin dall’inizio del conflitto, il 4 agosto 1914, la Gran Bretagna si era gettata nella mischia, ufficialmente per difendere la violata neutralità del Belgio, cosa che aveva comportato il blocco dei rifornimenti marittimi per la Germania e i suoi alleati, l’immobilizzazione della sua flotta mercantile e l’imbottigliamento di quella da guerra, la perdita delle colonie, e l’intervento di un esercito britannico sempre più consistente al fianco di quello francese, peggiorando ulteriormente i rapporti di forza. Già nel 1914 gli Stati dell’Intesa, con una popolazione di 258 milioni, potevano mettere in campo 5,7 milioni di soldati, cui si aggiungeva la schiacciante superiorità navale britannica; mentre gli Imperi Centrali, con una popolazione di 118 milioni, ne potevano schierare solo 3,5 milioni (anche se col relativo vantaggio di operare per linee interne).
La situazione era rimasta sostanzialmente bloccata per tre anni. Poi, verso la fine del 1917, si era verificato il fatto nuovo. La Rivoluzione di Ottobre aveva di fatto portato la Russia fuori dal conflitto, anche se l’uscita era stata formalmente sancita solo qualche mese più tardi, dalla firma del trattato di pace di Brest-Litowsk del 3 marzo 1918. Si era trattato, sostanzialmente, di un grande successo dei servizi segreti tedeschi, i quali, aiutando Lenin a rientrare nella sua patria dall’esilio svizzero, avevano creato le condizioni per l’uscita della Russia dal conflitto. Ora lo Stato Maggiore di Hindenburg e Ludendorff poteva ritirare una buona parte di quel milione di soldati che teneva impegnati sul fronte orientale e trasferirli su quello occidentale, ove finalmente avrebbe goduto, per la prima volta dopo tre anni e mezzo, se non della superiorità numerica, di un rapporto meno sfavorevole, il che avrebbe reso possibile il lancio di una grande offensiva mirante a chiudere la partita su quel fronte. Si trattava di una lotta disperata contro il tempo, perché fin dal 2 aprile il Congresso americano aveva votato l’intervento in guerra al fianco dell’Intesa, a ciò sollecitato – almeno apparentemente – dalla guerra sottomarina indiscriminata tedesca, che aveva causato la perdita di vite americane che viaggiavano a bordo di navi alleate. Così, mentre si profilava l’uscita della Russia, già minata dalla prima rivoluzione del 1917, quella di febbraio, si delineava l’intervento del colosso americano, con tutto il suo immenso potenziale finanziario, industriale e militare. E come la Germania, nel 1914, aveva avuto poche settimane per tentar di eliminare la Francia prima che la Russia mobilitasse il suo grande esercito, ma aveva fallito, anche adesso la Germania aveva solo poche settimane di tempo per chiudere la partita sul fronte occidentale, con gli eserciti riuniti francese e britannico, prima che gli Stati Uniti avessero il tempo di trasferire in Europa il loro corpo di spedizione e le loro gigantesche risorse belliche. E, per la seconda volta, l’Alto comando tedesco fallì la prova.
Ludendorff, la vera mente operativa e, di fatto, il dittatore militare della Germania dopo la larvata esautorazione del kaiser Guglielmo II, aveva studiato una manovra in due tempi. In un primo tempo, i tedeschi avrebbero attaccato il settore francese nella valle dell’Aisne, a nord-est di Parigi, per tenere inchiodate le truppe francesi e impedir loro di portare rinforzi ai britannici; in un secondo tempo, sarebbe stato lanciato l’attacco principale, nel settore più settentrionale del fronte, nelle Fiandre e sulla Somme, per travolgere le linee britanniche e penetrare a nord-ovest di Parigi. Se il colpo fosse stato abbastanza forte, l’intero dispostivi anglo-francese sarebbe stato infranto e il fronte occidentale sarebbe stato liquidato prima del massiccio intervento americano. Così, almeno, cioè come una offensiva risolutiva per la conquista della pace, l’operazione imminente era stata presentata agli esausti soldati tedeschi e alla demoralizzata e affamata popolazione civile. Tutti, in Germania si aspettavano la fine della guerra dalla vittoria a Occidente; proprio come tutti, in Austria-Ungheria, furono indotti a sognare (e sognare è proprio la parola giusta per descrivere il clima di spasmodica aspettativa) la pace dall’esito vittoriosa della offensiva sul Grappa e sul Piave nel giugno 1918, quella che noi italiani chiamiamo, per ispirazione del poeta Gabriele D’Annunzio, la Battaglia del Solstizio. Va notato che, se non potevano contare su una vera superiorità numerica, i tedeschi, in compenso, avevano messo a punto una brillante tattica d’assalto basata su di una preparazione d’artiglieria relativamente breve e sulla veloce penetrazione di reparti scelti nelle linee nemiche, per distruggere i principali nuclei di resistenza, dietro i quali sarebbe avanzato il grosso delle fanterie: tattica appresa fulmineamente dall’offensiva Brusilov del giugno 1916, e che il generale russo aveva applicato per cause di forza maggiore, quasi senza a rendersi conto della sua vera portata innovatrice (altrimenti non avrebbe insistito negli inutili attacchi frontali in massa fino al settembre 1916, quando dovette fermarsi, avendo subito perdite più gravi di quelle che era riuscito inizialmente ad infliggere agli Austriaci). Il limite di questa nuova tattica era che le truppe specializzate in queste incursioni d’avanguardia erano limiate e, una volta “esaurite”, si sarebbe dovuto far ricorso nuovamente agli attacchi tradizionali: perciò il fattore sorpresa sarebbe durato pochi giorni, al massimo poche settimane, dopo di che il nemico avrebbe potuto riorganizzarsi e fronteggiare gli attacchi secondo i ben collaudati metodi della guerra difensiva.
Così lo storico militare Paul K. Davis, nel suo libro Le 100 battaglie che hanno cambiato la storia, ha rievocato l‘ultima offensiva tedesca della Prima guerra mondiale (titolo originale: 100 Decisive Battles, Oxford University Press, 1999; traduzione italiana di Milvia Faccia, Roma, Newton Compton Editori, 2003, pp. 478-80):

Quando iniziarono la loro prima offensiva lungo la Somme, il 21 marzo 1918, i tedeschi ottennero un successo maggiore di quello conseguito fin dai primi giorni di guerra: la V Armata britannica venne praticamente annientata da tre armate tedesche che avanzarono su un fronte esteso quasi 70 chilometri, ricacciando gli inglesi per oltre 60 chilometri, prima di essere finalmente arrestate dai rinforzi alleati; i tedeschi, però, si erano spinti troppo in profondità per riuscire a mantenere le linee di rifornimento. Entrambi gli schieramenti persero 250.000 uomini tra morti, feriti e prigionieri. Il successo permise ai tedeschi di portare in campo enormi pezzi d’artiglieria, i cosiddetti “cannoni di Parigi”, con canne lunghe 36 metri e una gittata di 130 chilometri, che, pur non infliggendo gravi danni alla capitale francese, ebbero notevoli effetti psicologici. Le proteste del generale britannico Douglas Haig, secondo il quale il collega francese Henri Pétain si preoccupava più di difendere Parigi che di fermare la penetrazione del nemico, il 3 aprile portarono alla promozione del generale francese Ferdinad Foch a comandante supremo delle forze alleate, una posizione fino a quel momento inesistente.
Ludendorff sferrò la seconda offensiva contro la zona che, nei suoi piani, rappresentava l’obiettivo più importante:  il 9 aprile, le truppe tedesche attaccarono le posizioni britanniche lungo il fiume Lys, ottenendo di nuovo successi considerevoli, anche se non quanto quelli del mese precedente.  Entrambi gli schieramenti persero circa 100.000 uomini. Alla fine di maggio, anche la terza offensiva permise ai tedeschi di conquistare una vasta area, stabilendo un saliente di 50 chilometri, varcando i fiumi Aisne e Vesle, e avvicinandosi alla Marna di oltre 30 chilometri rispetto a puto da cui erano partiti. Le truppe americane, impiegate nella loro prima importante azione, si comportarono magnificamente a Chateau-Thierry e al bosco di Bellau, dove riuscirono a fermare la penetrazione nemica, riguadagnando parte del terreno perduto con una serie di contrattacchi. La riuscita tedesca, tuttavia, indusse Ludendorff a modificare alquanto i suoi piani:  rinviando il colpo decisivo contro gli inglesi a nord, egli volle tentare di sfruttare questo successo parziale per minacciare Parigi. […]
I piani di Ludendorff, però, furono ostacolati da serie difficoltà. Ogni offensiva tedesca, anche se vittoriosa, aveva considerevolmente ridotto il numero di uomini addestrati come truppe d’assalto;  ciò significava che si sarebbe dovuto ricorrere ai più tradizionali attacchi in massa, e i soldati, dopo tre anni di tale tattica, non erano entusiasti della prospettiva. Di conseguenza, vi furono parecchi disertori, che fornirono ai servizi segreti alleati  tutte le informazioni riguardanti i tempi e i luoghi dell’imminente offensiva tedesca: perciò, gli alleati erano pronti quando, il 9 giugno, Ludendorff predispose il suo quarto attacco lungo un fronte che andava da Noyon a Mondidier, a sud dei territori conquistati a marzo con la prima offensiva. Questa volta, l’artiglieria francese sparò per prima, ostacolando l’azione nemica, che venne notevolmente rallentata dalla reazione, mentre il nuovo metodo difensivo servì anche a risparmiare numerose vite  e a salvare parecchio territorio: in questo caso, infatti, i francesi collocarono in posizione avanzata solo una linea di uomini, mettendo il grosso delle truppe in trincee arretrate, fuori dalla portata dei cannoni; perciò, quando i tedeschi si fecero lentamente strada attraverso il terreno devastato dalle granate, si trovarono ad affrontare una forte resistenza e, in quattro giorni di combattimenti, fecero pochi progressi.
A questo punto, Ludendorff avrebbe forse dovuto sferrare la sua grande offensiva contro gli inglesi, ma egli decise di lanciare un’altra azione diversiva per convincere i francesi a non muoversi. Questa volta si trattava di attaccare Reims, sulla Vesle, che era stata aggirata nella terza incursione di maggio e giugno: la III Armata avrebbe dovuto attaccare  verso sud a est della città, mentre la I e la VII avrebbero marciato a ovest di essa, parallelamente alla III. Di nuovo, però, i numerosi disertori informarono con esattezza gli Alleati sul momento e luogo dell’attacco, consentendo loro di prevenirlo; a est, la III Armata non fece quasi alcun progresso, mentre la I e la VII attraversarono la Marna a ovest di Reims.
L’azione si rivelò imprudente, perché l’artiglieria e gli aerei alleati fecero crollare i ponti sul fiume dopo il passaggio dei tedeschi, tagliando fuori gli attaccanti da qualsiasi possibilità di ricevere rifornimenti o rincalzi. Le forze americane, in particolare la III Divisione di fanteria, impedirono ancora una volta l’avanzata tedesca. Dopo due soli giorni di combattimento, Ludendorff ordinò alle sue truppe di ritirarsi su una posizione difensiva lungo la Vesle.
Gli Alleati sfruttarono prontamente la ritirata nemica: il 18 luglio, il generale Foch, da sempre sostenitore dell’azione offensiva, mandò all’inseguimento la X e la V Armata francese; alla testa dell’assalto vi erano la I e la II Divisione americane, mentre altre sei divisioni raggruppate in sei contingenti attaccavano in settori diversi Il contrattacco ebbe un tale successo da costringere Ludendorff a rinunciare alla grande offensiva a nord, di cui quelle precedenti erano state il preludio. Il 5 agosto, gli Alleati avevano ormai riconquistato tutto il terreno perduto durane la terza offensiva tedesca di maggio e giugno e, da questo momento in poi, il nemico sarebbe rimasto sempre sulla difensiva.

Naturalmente, lo storico militare non può avere l’ultima parola circa il quesito che ci eravamo posti all’inizio: se, cioè, la Germania avesse realmente la possibilità, nella prima metà del 1918, di porre termine vittoriosamente alla guerra (e sia pure con una pace di compromesso), perché ad un tale quesito deve rispondere lo storico che tiene presenti tutti gli aspetti del problema, a cominciare da quelli politici ed economico-finanziari. In altre parole: anche ammesso che la Germania riuscisse a sconfiggere in maniera decisiva gli anglo-francesi prima che gli Stati Uniti potessero  gettare sulla bilancia tutto il peso del loro apparato militare, ciò sarebbe stato sufficiente? A questa domanda, a nostro giudizio, bisogna rispondere negativamente. Ormai, nella primavera del 1918, le divisioni americane stavamo già sbarcando nei porti francesi: avevano quindi delle teste di ponte dalle quali poter condurre una controffensiva in grande stile. Ma, se pure la sconfitta degli alleati fosse stata così grave da obbligare anche gli americani a reimbarcarsi, si sarebbe prodotta una situazione simile a quella del giugno 19140, con la Francia occupata, ma la Gran Bretagna ancora in piedi, e gli Stati Uniti già al suo fianco (mentre nella seconda guerra mondiale ciò sarebbe accaduto formalmente solo fra l’agosto e il dicembre 1941); inoltre, con la Germania e i suoi alleati ridotti allo stremo dagli effetti di un blocco marittimo che durava ormai da quattro anni, e con una micidiale epidemia d’influenza (poi chiamata “spagnola”) che infuriava sulla popolazione denutrita. Viceversa, le potenze anglosassoni, con le loro risorse ancora quasi intatte, e i loro territori posti lontano dalla portata delle armi tedesche, avrebbero potuto condurre una lunga guerra di usura, magari per un decennio e anche più, fino a quando la Germania sarebbe stata costretta a capitolare. E ciò anche senza considerare quello che poi, di fato, si sarebbe rivelato un elemento determinante: il crollo degli alleati minori della Germania, Bulgaria, Impero ottomano e Austria-Ungheria; specialmente quest’ultima, nell’ottobre 1918, crollo che esponeva direttamente il territorio tedesco a una invasione proveniente da sud (Italia) e da sud-est (Balcani).
L’offensiva di Ludendorff nel 1918, pertanto, avrebbe potuto produrre risultati decisivi solo se avesse avuto un successo immediato, se avesse determinato il crollo della Francia e indotto Gran Bretagna e Stati Uniti a una pace di compromesso, possibilità molto ipotetica. Ma Ludendorff, probabilmente, giocò male le sue carte: si attardò nella fase preliminare della sua grande offensiva e, alla fine, si trovò a corto di uomini e mezzi per lanciare l’attacco risolutivo. Con ciò, la guerra era già virtualmente persa, per la Germania, già alla fine di luglio del 1918. Forse non tenne nel dovuto conto l’estrema stanchezza delle sue truppe e la loro incipiente demoralizzazione: le diserzioni che si verificarono durante la Seconda battaglia della Marna, e che furono decisive per rivelare agli alleati i luoghi e i tempi degli attacchi successivi, non ci sarebbero state nel 1914. Ma anche l’esercito tedesco, dopo quattro anni di lotta, senza mai vedere la fine del tunnel, cominciava a dar segni di cedimento. Ludendorff sottovalutò il fattore umano e psicologico, come già aveva fatto Cadorna nelle sue offensive insensate sull’Isonzo, per una sopravalutazione degli aspetti puramente tecnici; o forse, semplicemente, non poteva far altro: quelle erano le risorse che gli restavano nel 1918, e non altre. In tal caso, è l’idea stessa dell’offensiva finale che partiva da presupposti errati…