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Il Churchill di Hollywood

di Rosanna Spadini - 02/03/2018

Il Churchill di Hollywood

Fonte: Comedonchisciotte

Nel film «Darkest hour», Winston Churchill nella peroratio finale del suo discorso, chiude con un appello strappalacrime all’emotività dell’uditorio. L’anafora iniziale, la ripetizione rituale del verbo «combatteremo» (we shall fight) apre a orizzonti nazionalistici di gloria, mentre l’invocazione a Dio legittima in chiave provvidenziale la correttezza della guerra in atto: «Combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e gli oceani; combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell’aria. Difenderemo la nostra isola qualunque possa esserne il costo, e nelle strade, combatteremo sulle colline. Non ci arrenderemo mai, e persino se – ciò che io non credo neanche per un momento – questa isola o una larga parte di essa fosse asservita e affamata, in quel caso il nostro Impero, oltre i mari, armato e vigilato dalla Flotta britannica, condurrà avanti la lotta sinché, quando Dio voglia, il Nuovo Mondo, con tutte le sue risorse e la sua potenza, non venga avanti alla liberazione e al salvataggio del Vecchio Mondo». Un bel po’ di retorica insomma, un appello all’intervento degli Stati Uniti, e brividi lungo la schiena. Però il tentativo di gettare uno sguardo sulla verità storica è presto frustrato dal ritratto privato che si fa di Churchill, per renderlo una sorta di eroe romantico dal piglio nazionalista, dove il patriottismo vorrebbe assumere un valore soltanto etico e non ideologico.

 

Insomma il film è un prodotto della propaganda hollywoodista, quindi non avremmo potuto attenderci nulla di storicamente veritiero, dato che la lettura ideologica della storia ha prodotto raramente film rispettosi della verità dei fatti (forse Apocalypse Now, Soldier Blue). Naturalmente la personalità privata di Winston Churchill rappresentata nel film non corrisponde a quella storica. Basterebbe ricordare un tragico evento di cui lo statista fu diretto responsabile: il bombardamento di Dresda. La notte tra il 13 e il 14 febbraio 1945, mercoledì delle ceneri, la RAF accese i fari sulla città, grandi razzi strapparono violentemente dal buio i monumenti e le strade della città. Nessuno aveva mai visto uno spettacolo simile, e molti non ne compresero subito il significato. Dodici ore dopo, le fortezze volanti lasciarono la città immersa in alte colonne di fumo, dopo che l’incendio aveva assunto proporzioni catastrofiche, per forma e proporzioni di un’immensa fornace che si alimentava da sé per la depressione barometrica, fino a quando il cielo, più misericordioso degli uomini, rovesciò trombe d’acqua che arrestarono le fiamme. Nessuna lotta, nessuna fuga erano possibili, quelli che restarono nei rifugi morirono asfissiati, quelli che ne uscivano venivano inghiottiti dal fuoco. Molti dei pompieri erano stati uccisi dalla furia dei bombardamenti e quelli delle città vicine, accorsi al richiamo disperato, erano stati mitragliati dai Mustang di scorta alle fortezze volanti. L’incendio divampò per quattro giorni, divorò 20 km quadrati di territorio, riempì la valle dell’Elba di macerie calcinate. Dal cumulo allucinante di cadaveri si raccolsero oltre 20.000 anelli matrimoniali. Le polveri di cinque enormi roghi funerari preparati nell’Altmarkt furono interrati coi badili come fossero semplici detriti e calcinacci. Il numero delle vittime, impossibile a determinarsi esattamente, sembra essere stato dell’ordine di 135.000 unità. Per giustificarsi la RAF esagerò l’importanza industriale e strategica di Dresda, però qualcosa non torna rispetto alle giustificazioni militari, perché la grande stazione di smistamento di Friedrichstadt, vicinissima al centro della città, restò pressoché intatta, tanto che i treni ricominciarono a circolare dal 15 febbraio. Nella primavera del 1945, Winston Churchill scaricò la colpa dell’incenerimento di massa sul suo stesso comando di bombardieri e in modo particolare sul comandante Arthur Harris, al cui impegno sarebbe stata negata una medaglia postbellica. Dresda, non era una città rilevante né militarmente né economicamente, era invece un importante snodo ferroviario e un centro culturale che in quei giorni ospitava circa il doppio della sua popolazione abituale, a causa del massiccio afflusso di profughi tedeschi, provenienti dalle regioni più orientali (Slesia, Prussia, Sudeti) e in fuga dall’avanzata dell’Armata Rossa (16 milioni di tedeschi dovettero abbandonare le proprie case). Non avendo un obiettivo strategico da colpire gli aerei alleati riversarono a più riprese tonnellate di bombe sul centro cittadino, sulle scuole, sugli ospedali, e su qualsiasi luogo potesse contenere il più alto numero possibile di vittime. Tale bombardamento fu pianificato a tavolino dallo stato maggiore inglese. Secondo tesi più plausibili, la volontà di provocare il più alto numero di vittime civili era determinato da una serie di obiettivi strategici angloamericani rientranti nel piano Morgenthau, che prevedeva la trasformazione della Germania in una nazione agricola e pastorale attraverso la distruzione di tutte le città industriali tedesche, ma Dresda non apparteneva a quella categoria. Il secondo obiettivo degli alleati era la guerra psicologica, da vincere tramite la disintegrazione morale del popolo tedesco, che fino a quel giorno si era mostrato estremamente compatto e fedele al regime nazionalsocialista. Londra e Washington studiarono piani di distruzione sistematici per promuovere una strategia del terrore, dettata dalla volontà pianificata di provocare vittime tra la popolazione civile, e deprimere il consenso popolare verso la leadership nazista, che aveva prodotto quelle sciagure. Churchill pensava forse che di fronte a tale carneficina i governanti tedeschi avrebbero accettato immediatamente la capitolazione, al contrario quei bombardamenti ebbero il risultato di rappresentare la brutale superiorità aerea angloamericana. Dresda era stata distrutta ma la guerra sarebbe continuata per altri tre mesi circa. Probabilmente l’intenzione di Churchill era anche quella di usare le vittime come merce di scambio, infatti qualche giorno prima a Yalta aveva manifestato la volontà di servirsi del popolo tedesco come merce preziosa per le trattative. L’attacco era stato programmato prima della conferenza, ma era poi stato rinviato a causa delle avverse condizione metereologiche. Insomma il grande statista non voleva presentarsi a mani vuote al cospetto dell’alleato sovietico, che ormai stava diventando il prossimo nemico.  A questo proposito all’annuncio della morte di Hitler pronunciò quel fulminante giudizio implicito su Stalin: «Forse abbiamo ucciso il maiale sbagliato …» La conquista sovietica dei territori orientali europei avrebbe posto Stalin in una posizione egemonica, quindi la distruzione di Dresda serviva per rivendicare il proprio contributo militare sul fronte orientale, e ottenere così vantaggi nelle trattative, ma voleva altresì mostrare la propria superiorità militare all’alleato russo, già proiettato nell’ottica della guerra fredda.

 

Molte voci del dissenso raccontano però altre storie. Zing Tsjeng su Vice sostiene che Winston Churchill fosse un guerrafondaio e un razzista, che avrebbe voluto sterilizzare i malati di mente, odiava gli indiani, amava l’eugenetica e approvava l’uso di armi chimiche. Il Primo Ministro infatti fu uno dei più convinti sostenitori dell’uso dei gas tossici per sconfiggere una rivolta di kurdi e arabi nella Mesopotamia occupata dagli inglesi, in quel territorio che ora è l’Iraq. In una lettera del 1920 a Sir Hugh Trenchard della Royal Air Force, Churchill scrisse: «Penso che dovresti certamente procedere con il lavoro sperimentale sulle bombe a gas, specialmente il gas di mostarda (iprite), che infliggerebbe punizione ai nativi recalcitranti senza infliggergli gravi danni». Churchill intervenne anche a proposito del suffragio universale in India: «Perché in questo momento dovremmo imporre alle razze ignoranti dell’India quel sistema, i cui inconvenienti si sentono ora anche nelle nazioni più sviluppate, negli Stati Uniti, in Germania, in Francia, e nella stessa Inghilterra?» La sua prepotenza imperialistica si tradusse poi in sfacciataggine geopolitica quando elaborò i confini tra i territori conquistati e contesi, si racconta infatti che il confine a zig zag tra Giordania e Arabia Saudita sia stato provocato dal «Singhiozzo di Winston», perché tracciato dopo un bicchierino di troppo.

 

Churchill è senza ombra di dubbio l’icona del Novecento anche in virtù dei suoi errori. Lo sbarco fallimentare a Gallipoli durante la Grande Guerra, la suddivisione mandataria del Medio Oriente alla fine del conflitto, l’ottusa decisione di ritorno al Gold Standard ferocemente criticata da John Maynard Keynes. Nel corso della sua carriera politica Winston Churchill incorse in rovinosi errori di valutazione che sicuramente provocarono danni al Regno Unito, tuttavia l’impetuosità che tante volte gli fu fatale risultò decisiva quando il «guerrafondaio» fu chiamato a reggere le sorti, apparentemente disperate, del suo Paese. Del resto è sul campo di battaglia che si decide la vita o la morte delle nazioni, ed è lì che se ne traccia la via della sopravvivenza o della distruzione.