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Il lavoro del futuro: le ragioni del pessimismo

di Roberto Pecchioli - 07/04/2018

Il lavoro del futuro: le ragioni del pessimismo

Fonte: Ereticamente

Lavoro a tempo determinato, contratto di somministrazione, a chiamata, a tempo parziale, parasubordinato eccetera eccetera. La fantasia dei burocrati e dei giuslavoristi del Terzo Millennio si è scatenata per trovare formule contrattuali e giuridiche sempre nuove per disciplinare una chimera, il lavoro che spesso non c’è e quando c’è è tutto fuorché il vecchio, tramontato impiego a tempo indeterminato. Anche l’esortazione a farsi imprenditori di se stessi altro non è che la maschera per far digerire alla nuove generazioni – e non solo a loro – una vita precaria, nomade, socialmente insicura. La reazione a tutto questo è arrivata con il clamoroso successo elettorale del Movimento Cinque Stelle, la cui proposta di reddito di cittadinanza ha sedotto milioni di elettori. I motivi di pessimismo abbondano, specie considerando la lentezza di reazione delle istituzioni italiane ai fulminei cambiamenti della società.  La lettura di un rapporto sul futuro del lavoro realizzata dall’Ufficio Studi di una grande banca internazionale rafforza il pessimismo. Parlando delle conseguenze dell’automazione, i ricercatori esortano a non ragionare in termini negativi, a patto che Stati e istituzioni “adottino politiche adeguate”. Non ci sarà, a loro avviso, una “robocalisse”. L’esempio portato è quello di alcuni paesi molto robotizzati, come il Giappone, la Germania o gli Stati Uniti, nei quali permangono elevati tassi di occupazione e, affermano i professori stipendiati dalla banca, “buoni redditi da lavoro”. A loro avviso, è sufficiente che ci prepariamo.

Muoviamo tre obiezioni. La prima riguarda la qualità di milioni di impieghi nei paesi esaminati. Un numero crescente di persone svolge attività precarie, in situazioni complicate e con protezione sociale in costante declino. La seconda riguarda il livello delle retribuzioni, definite buone in base a non chiari parametri, ma che al contrario soddisfano solamente i datori di lavoro e spesso costringono a doppie attività ovvero sono una mera integrazione del reddito familiare. La terza obiezione è fondamentale, almeno per l’Italia, e attiene la capacità previsionale e reattiva del sistema.  Il nostro paese ha accumulato ritardi insostenibili in quasi tutti i settori; il suggerimento dei ricercatori di ridisegnare il sistema educativo si abbatte su una nazione le cui riforme dell’istruzione sono state troppe, sino all’ultima, vero modello di bis-pensiero orwelliano, la cosiddetta “buona scuola”, parto cesareo della sinistra per metà post sessantottina e per metà asservita ai poteri forti. Il risultato, in termini di cultura generale, preparazione alla vita, pensiero critico e capacità di inserimento nel mondo del lavoro è quello, desolante, che sperimentiamo ogni giorno.  Siamo ormai alla seconda fase dell’automazione ed assistiamo a nuovi profondi cambiamenti nella domanda di abilità professionali, ma non abbiamo ancora assorbito i problemi della prima ondata. Nessuno ha idee precise, a meno di prendere sul serio lo stucchevole slogan delle tre I della destra liberale: inglese, internet, impresa. In questi anni le conoscenze più richieste riguardano le materie dell’acronimo STEM, scienza, tecnologia, ingegneria (engineering), matematica, ma risulta prevalente il peso delle cosiddette conoscenze socio-emozionali (psicologia, pubblicità, pedagogia, operatori sociali in senso lato).

Il ruolo dello Stato dovrebbe essere proattivo, di indirizzo e tutela, a partire dall’informazione alle famiglie sino alle strutture educative di ogni livello. Nessuno vede un impegno serio su questi temi. E’ assente qualunque progetto di medio termine. Declina la cultura classico-umanistica, l’unica che insegni a ragionare, ma non avanza neppure il sapere tecnoscientifico, se non in alcune eccellenze e nelle conoscenze di base. Occorre, come sempre, affrontare la radice dei problemi, riconoscendo che i cambiamenti determinati dalle nuove tecnologie, dalla globalizzazione e dall’automazione modificano nel profondo l’organizzazione del lavoro, ma soprattutto i ritmi dell’esistenza quotidiana. Non c’è solo il problema di nuovi robot, o l’apparizione dell’intelligenza artificiale, o la rivoluzione informatica digitale. Non dobbiamo lasciare che l’albero della tecnologia ci impedisca di vedere ciò che si muove dietro, ovvero il progetto di fondo dell’oligarchia dominante. Il bosco è frondoso e ha innumerevoli tonalità di colore. Sull’onda dell’informatica e della cibernetica si sta ristrutturando in maniera autonoma, senza che i poteri pubblici riescano o sappiano intervenire, l’intero sistema del lavoro, non solo il suo mercato, producendo tendenze antropologiche più rilevanti della stessa innovazione.

Nel solito tecno inglese, si è diffusa un’espressione eufemistica politicamente corretta, alternative work arrangements, nuove modalità di contrattazione, più dirompenti dell’automazione incipiente, se non ci si prepara a contrastarle. Gli economisti di Harvard Lawrence Katz e Alan Kruger vi hanno dedicato un libro, rilevando che il numero di lavoratori con contratti diversi da quelli tradizionali è aumentato esponenzialmente negli ultimi dieci anni. Hanno individuato quattro categorie principali: in primo luogo gli autonomi, ossia persone che lavorano a rischio e conto proprio per fornire un prodotto o un servizio come un’impresa indipendente. La seconda forma è quella dei lavoratori “a chiamata”, persone che si rendono disponibili in qualsiasi momento. Questi soggetti, una sorta di lavoratori-squillo, hanno giorni o ore in cui non lavorano, ma devono rimanere a disposizione in attesa di una telefonata o di un messaggio. Poi ci sono i dipendenti di imprese di lavoro temporaneo, in Italia li chiamiamo somministrati, ceduti per periodi definiti ad imprese clienti per la realizzazione di lavori, progetti o attività specifiche. Infine, i lavoratori forniti da imprese contrattate, che potremmo paragonare alle aziende multiservizi. Il numero di persone appartenenti a queste categorie è cresciuto di almeno nove milioni di unità nel decennio 2005-2015, passando dal 10 al 15 per cento di tutti i lavoratori statunitensi. Il numero coincide esattamente con l’incremento di occupazione osservato in quei dieci anni.

Da noi, la tendenza è simile, alimentata da legislazioni sempre più permissive, che superano ormai l’antico caporalato contro cui insorse Di Vittorio. Le cifre esatte sono difficili da raccogliere, ma segnano il passo i contratti stipulati attraverso agenzie temporali e interinali, mentre aumenta il peso delle imprese multiservizi, dedicate soprattutto all’esternalizzazione di servizi o interi rami d’azienda. Le stime del 2017 ipotizzano un volume d’affari largamente superiore a 30 miliardi di euro, con un aumento superiore a ogni altro comparto. Dal 2011, il settore è cresciuto in tutta l’Unione Europea, con punte del 30 per cento in più nel numero di microimprese (le partite IVA, diciamo così, involontarie) senza dipendenti. Nel medesimo periodo, sono state chiuse in Italia centinaia di migliaia di partite IVA, specie nel commercio e nell’artigianato, solo parzialmente sostituite dalle nuove modalità alternative a basso reddito, prive della possibilità di divenire attività a lungo termine, progetti di vita. Diventa imprescindibile un grande patto nazionale fondato sull’istruzione, un avviamento al lavoro in cui riprenda il ruolo centrale delle istituzioni pubbliche, insieme con il ripensamento dell’intero sistema di prestazioni sociali e previdenziali. Le pensioni rischiano di diventare, oltreché un miraggio lontano, difficilmente sostenibili nel medio periodo per la diminuzione della contribuzione prodotta dai modelli descritti. Senza interventi rapidi, energici e profondi che affrontino organicamente tutti i temi citati, ogni riforma parziale sarà un rimedio peggiore del male, un nuovo successo dell’ideologia neoliberista.

Non mancano gli esempi. Uno riguarda i corrieri delle imprese specializzate di distribuzione, i quali devono lavorare quasi 80 ore settimanali per raggiungere un reddito netto di 1.300 euro. E’ il destino dei lavoratori autonomi economicamente dipendenti, una definizione in più per designare gli sfruttati del XXI secolo, che sta raggiungendo il XIX per le vergognose condizioni di lavoro. Il meccanismo ha precarizzato ulteriormente moltissimi giovani e meno giovani. Prima, i corrieri-distributori, detti anche riders (corridori…) erano pagati a ore, ciò che assicurava uno stipendio modesto ma fisso e un calendario di lavoro prestabilito.  Si trattava di un modello precario, la media era attorno a cinque euro netti orari, ma forniva una certa stabilità. Pagato a ore, il fattorino (diamogli il vecchio rispettabile nome nella nostra lingua) guadagnava poco, ma almeno si garantiva uno stipendio, poiché anche i tempi morti erano pagati. Con il contratto “alternativo”, è diventato lavoratore autonomo dipendente da un solo cliente. Deve pagarsi i contributi e disporre in proprio dell’infrastruttura di lavoro (telefono cellulare, computer, bicicletta o ciclomotore). E’ retribuito solo per i servizi effettivamente svolti, spesso deve attendere ore le chiamate senza poter svolgere altre attività. Il modello, esteso ormai a moltissime attività, si morde la coda, obbliga a restare a disposizione in ogni momento, giacché la chiamata è a discrezione dell’impresa e rifiutarla può significare il licenziamento, pardon, la perdita del cliente unico, spesso organizzato come piattaforma informatica.

Il modello evita problemi e rompicapi alle aziende, sempre più libere e irresponsabili dal punto di vista assicurativo, previdenziale e della fornitura dei beni strumentali. E’ il modello Uber applicato su larga scala, massima insicurezza per il lavoratore e nessuna tutela del consumatore finale. I malcapitati imprenditori di se stessi non vengono minimamente seguiti nel processo di inserimento nella nuova realtà: sei autonomo, fatti tuoi se devi compilare moduli, ottenere permessi, pagare imposte. Rivolgiti a un commercialista, a cui darai una parte dei tuoi già magri ricavi.  Sono solo esempi, moltissimi altri ne esistono, ma tutti convergono nel modello imposto: il lavoratore nomade, precario, scavalca montagne postmoderno come le compagnie teatrali girovaghe del passato, il trolley in una mano e lo smartphone nell’altra per aspettare un ingaggio via posta elettronica, whatsapp o attraverso le app dedicate, magari per distribuire cibo spazzatura o elaborare la contabilità mensile di un’azienda lontana. E’ la distruzione scientifica non solo delle generazioni presenti, ma della civiltà di cui siamo figli. Un’altra conseguenza della dittatura del profitto, un gigantesco furto di vite delle quali un giorno qualcuno dovrà rendere conto. Viene voglia di rovesciare una frase di Juan Carlos Onetti: l’esistenza del passato dipende dalla quantità di presente che gli affidiamo. Sostituiamo la parola passato con futuro e tutto sarà chiaro dell’epoca che ci sta trascinando a fondo.