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Una questione di dignità

di Franco Cardini - 07/04/2018

Una questione di dignità

Fonte: Franco Cardini

 

E’ evidente che in questi giorni tutto quel che il governo britannico della signora May sta facendo non può venire interpretato se non alla luce anche del problema Brexit. Aspettando quel fatidico 12 giugno prossimo nel quale la decisione degli inglesi di abbandonare l’Unione Europea dovrebbe diventare operativa, oltremanica sembra ogni giorno di più aumentare la consapevolezza di aver fatto un grosso errore: e allora il governo di Londra serra le trattative per salvare questo o quel pezzo del salvabile, cercando d’infilarsi in tutti gli accordi possibili. E’ il caso del progetto per le comunicazioni satellitari “Galileo”, un business miliardario dal quale la Gran Bretagna rischia di essere espulsa in conseguenza delle sue scelte e che naturalmente fa di tutto per non perdere. Qualche osservatore ha fatto notare che l’Inghilterra ha preso la UE per un ristorante nel quale sedersi a un tavolo e ordinare tranquillamente quel che si gradisce mangiare. Ma non è così: al ristorante UE vige un menu, non si ordina à la carte: o si è dentro, e allora si gode di tutto il pacchetto dei vantaggi di starci, o si sta fuori, e allora non è che si può prenderne uno e lasciarne un altro. Sarebbe troppo comodo.

Al tempo stesso, Londra non ha evidentemente perduto la nostalgia dell’impero. Giudica e comanda. Espelle dei diplomatici russi in seguito al presunto avvelenamento dell’ex-spia Sergej Skripal e di sua figlia, avvenuto il 4 marzo scorso a Salisbury, ma “dimentica” che buona regola diplomatica, quando si cacciano dei diplomatici, è fornire le prove delle loro eventuali responsabilità. Mosca le ha chieste senza ottenerle. Et pour cause. Quando si forniscono delle prove, bisogna declinare altresì le fonti di quanto si afferma: però la signora May e i suoi preziosi consiglieri debbono essersi resi conto, a cosa fatte, che ciò comporterebbe scoprire le proprie carte. Carte spionistiche, con ogni probabilità. E Londra farebbe, nei confronti di Mosca, la fine dei pifferi di montagna che secondo il nostro antico adagio vennero per suonare e furono suonati.

Come si esce da quest’impasse? Di male in peggio. Si fa ovviamente appello alla solidarietà internazionale: ricordando perfettamente che l’attuale presidente degli USA sta rischiando l’impeachment proprio per quello che a torto o a ragione è stato definito “Russiagate” e che quindi non oserà rispondere favorevolmente alla richiesta britannica, ma dimenticando che ciò lo pettinerà peraltro contropelo in quanto, di questi tempi, se c’è una cosa ch’egli non dovrebbe né vorrebbe fare è senza dubbio indispettire Putin; e dimenticando altresì che l’Europa è stata mollata dalla Brexit, ma tenendo presente che in vista della ridefinizione di prossimi accordi bilaterali forse i paesi della UE non negheranno alla loro ex-partner un gesto foriero di un futuro riavvicinamento. Nel quadro di quella che la signora May ha definito una “ritorsione concordata con l’Europa”, il ministro degli esteri britannico, l’ineffabile Boris Johnson dal nome (ironia nell’ironia…) russo e dalla chioma ossigenata, ha già cominciato a battere sulla grancassa della “straordinaria risposta internazionale dei nostri alleati”.

E vediamola da vicino, questa risposta internazionale. 18 paesi in tutto, fra i quali 15 membri della UE e della NATO, secondo un’accoppiata di discutibile opportunità che ci è stata imposta alcuni mesi or sono. Gli Stati Uniti hanno fatto le cose alla grande: 48  fra diplomatici e funzionari d’ambasciata espulsi da Washington, 12 dalla sede ONU di New York (non è chiaro se previo un accordo con l’ONU stessa – della quale la Russia è membro – o meno), per giungere a un importante record di 60; inoltre 15 tra i paesi membri di UE e NATO, tra cui  Francia e Germania – secondo la loro consuetudine di procedere di pari passo alla leadership carolingia d’Europa – 4 per ciascuno, 4 altresì la Polonia, sempre desiderosa di presentarsi come più occidentale ancora dell’Occidente, 2 la nostra diligente Italia, 1 la repubblica ceca; 1 la Danimarca; ben 3 la Lituania, sempre desiderosa di mostrarsi in prima fila contro la Russia (già nel 1941 aveva fornito un forte contingente militare in appoggio alla Germania nazista contro l’URSS); 1 solo l’Ukraina, che certo avrebbe potuto far meglio ma forse non disponeva di troppi diplomatici da cacciare.

Si vanno quindi precisando i fronti della “terza guerra mondiale”, già denunziata come in atto da papa Francesco. Una nuova “guerra fredda”, che forse sta diventando tiepida se la poniamo in rapporto con quanto sta accadendo in Siria: quella Siria la crisi della quale  – ricordiamolo – è già cominciata nel 2011 in seguito a una bizzarra combine della diplomazia del francese Hollande e del britannico Cameron. Una “guerra fredda” a proposito della quale basta un’occhiata al mappamondo per rendersi conto che c’è poco da star allegri. NATO e UE allineati e coperti, Stati Uniti in testa, ad appoggiare a scatola chiusa un’Inghilterra che denunzia, condanna, espelle, ma non pronunzia prove. Ma 18 paesi non sono mica poi tanto granché rispetto a quelli rappresentati nelle Nazioni Unite. Vogliamo trasformare un incidente diplomatico in uno scontro russo-europeo/russo-occidentale? O vogliamo trattarlo da quel che in realtà – lo voglia o meno la signora May – esso rappresenta, vale a dire un pasticcio internazionale, dal momento che trattare una grande potenza mondiale da terrorista diplomatica non è esattamente cosa dappoco? Ma se lo è, non sarebbe il caso di far attenzione a quel che ad esempio ne penseranno la Cina e l’India?

L’Italia si è quasi subito accodata: magari di malavoglia, e con un numero di espulsi pari alla metà di quelli dalla Francia e dalla Germania e pari a quelli dell’Albania? Perché queste espulsioni? Riguardano funzionari in qualche modo sospettabili di qualcosa?  Se invece sono un fatto di pura solidarietà con Londra, allora è il caso di parlare di “paura di restar isolati”: ma da chi? Dal resto dell’Unione Europea? Dalla NATO? Attenzione: con la Russia abbiamo non pochi e non trascurabili affari economici e commerciali in corso. Ci giochiamo un partner importante per dar un segno di solidarietà rispetto a paesi con alcuni dei quali abbiamo invece un certo contenzioso, per non parlare dell’alleanza NATO che ci costa sempre di più in termini economici, limita obiettivamente la nostra sovranità politico-militare, occupa aree del nostro territorio imponendoci un’extraterritorialità gravosa e non gradita alla popolazione (pensate alle inascoltate proteste dei vicentini per la Dal Molin) e continua a cacciarci in avventure militari che ci compromettono senza giovarci, procurandoci inimicizia da parte di paesi che non ci hanno fatto nulla?

La decisione del governo Gentiloni – che non dovrebbe dimenticare di essere un governo ormai uscente e in carica solo per l’ordinaria amministrazione: e l’espulsione di personale diplomatico non è mai, per definizione, tale – getta anche un’ombra in più, una difficoltà ulteriore, sulle trattattive per  arrivare all’insediamento dle prossimo inquilino di Palazzo Chigi. Già Matteo Salvini si è affrettato a “twittare” la sua perplessità se non la sua ostilità al provvedimento.  E allora, l’espulsione die due diplomatici russi dal nostro paese va vista come un provvedimento indirettamente di politica interna, mirante a complicare la vita ai partiti vincenti della competizione elettorale, o come una prova di puro servilismo internazionale che peraltro si annunzia irto di espressioni di dubbio e di riserva.

Saremmo, se ci fossimo chiamati fuori dalla mascherata filobritannica, “restati isolati” dal resto dell’Europa e della NATO: e allora? Nessuno ha calcolato, a Palazzo Chigi o alla Farnesina, che magari un nostro eventuale non accodamento al gesto inglese ci avrebbe al contrario fornito un’arma diplomatica importante, facendo dell’Italia il possibile ago della bilancia d’una futura conciliazione? Chi ce lo fa fare di accettar sempre la parte dei subalterni sulla scena internazionale?

Ma il coraggio, come diceva Don Abbondio nei Promessi Sposi, uno non ce lo può dare. Esattamente ottant’anni fa, nel 1938, l’Italia varò le “leggi razziali”, tanto infami quanto grottesche. Lo fece senza entusiasmo e senza convinzione, nell’intento di compiacere un “potente alleato”. La nostra decisione di adesso, in sedicesimo, ricorda quel maldestro, ridicolo e criminale gesto di allora. D’accordo: non sortirà gli stessi tragici risultati. Ma possibile che, in ottant’anni, non siamo migliorati in nulla?