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Henri Michaux: i cantori del nulla e i loro araldi

di Francesco Lamendola - 03/05/2018

Henri Michaux: i cantori del nulla e i loro araldi

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

 

 

La cosa veramente preoccupante non è che al modo vi sia un certo numero di pseudo intellettuali che non hanno assolutamente nulla da dire, se non demolire verità e certezze, insinuare dubbi e suggerire vaneggiamenti, ma sempre, si capisce, per il nostro bene, cioè per aprire gli occhi a una umanità addormentata; e neppure che molti di costoro non siano, puramente e semplicemente, che dei parassiti perdigiorno, i quali non sanno, né saprebbero fare altro, se non inondare la società con le loro opere deliranti e propagare le loro teorie malsane e inconcludenti, e che ciò sia parte di una congiura mondiale per abbassare il livello della consapevolezza e per restringere gli orizzonti esistenziali degli uomini. No: la cosa davvero preoccupante è che, per ciascuno di costoro, vi siano cinque, dieci, venti araldi che si prestano ad annunciare il loro vangelo nichilista; che vi siano dei volonterosi apostoli di tali nullità, degli industriosi apologeti di personaggi tutto sommato così scialbi, oltre che inutili, i quali, quanto a se stessi, sparirebbero da soli, senza lasciare traccia, se non trovassero critici, giornalisti e case editrici, pronti a raccogliere e amplificare al massimo il loro (inesistente) “messaggio” all’umanità. In questo modo, si crea un circolo perverso fra chi non ha nulla da dire, e spesso lo dice anche male, e chi non ha nulla da recensire, ma che è ben deciso a spacciare la brodaglia più indigeribile per una minestra di prima qualità, ad ammannire sulla tavola anche i cibi più scadenti e ammuffiti, facendoli passare per squisitezze e manicaretti appena usciti dalle mani di qualche superlativo maestro dei fornelli.

Naturalmente, come sempre, ci vogliono i quattrini; e chi sarà così pazzo, obietteranno i soliti ingenui, a sperperare il suo denaro in una impresa così bislacca, così totalmente e irremissibilmente sconclusionata? L’errore è proprio qui: nel pensare che un piano, anche molto razionale, debba avere per forza una finalità ragionevole dal punto di vista chi lo considera dall’esterno. Ma proviamo a immaginare, come ipotesi di lavoro, che l’essenza del piano consista precisamente nello spegnere le facoltà razionali altrui; diciamo, del numero più grande possibile di persone; diciamo pure: della società intera, se possibile, perfino a livello mondiale. In tal caso, il piano, pur restando perfettamente razionale, visto dall’esterno – ammesso e non concesso che qualcuno arrivi a vederlo, proprio per la sua mostruosa vastità e per la quasi impossibilità di essere smascherato o, almeno, come voleva il buon Karl Popper, “falsificato” – apparirebbe fatalmente come irrazionale, assurdo, del tutto inutile. E chi mai spenderà tempo, fatica e denaro per perseguire un piano perfettamente inutile, se non un pazzo? Accade così che chi potrebbe capire, o almeno intuire, quel che bolle in pentola, si rifiuta di giungere a certe, e pur logiche, conclusioni, perché non è disposto ad ammettere che la mente di chi potrebbe aver concepito un tale piano funzioni come la sua, cioè come quella della stragrande maggioranza delle persone normali. Ma forse il cervello di chi concepisse un piano di quel genere, ahimè, non funziona affatto come il nostro, di noi persone comuni e normali; forse funziona in un altro modo, in base ad altri principi e ponendosi in una prospettiva completamente diversa. Noi tendiamo a dimenticare troppo facilmente che la razionalità dei mezzi non si accorda necessariamente con la razionalità dei fini; e che una tale discordanza tra mezzi e fini è, anzi, la caratteristica delle società iper-razionaliste, come lo è, in massimo grado, la civiltà moderna, nella quale abbiamo avuto la sorte di nascere. In altre parole: può darsi che voler assoggettare l’intera umanità, senza, beninteso, che essa se ne renda conto, sia un progetto pazzesco, nel senso preciso della parola, cioè un progetto che può scaturire solo da una mente malata; ma non ne consegue che un tale malato di mente, o un tale gruppo di malati di mente, non possano perseguirlo con assoluta, perfetta razionalità, con radicale coerenza, e senza arretrare davanti a nulla, neanche davanti alle mistificazioni più mostruose, ai crimini più orrendi.

Tutto questo rappresenta la necessaria premessa a quel che ci apprestiamo a dire a proposito di un tipico intellettuale ed artista moderno, nel senso più pieno e specifico della parola moderno, cioè nel quale sono concentrati al massimo grado i tratti più tipici della modernità. Parliamo di un pittore, scrittore e poeta belga, naturalizzato francese, che è stato sovente accostato al surrealismo, anche se non si lascia associare del tutto a quel movimento: Henri Michaux (Namur, 24 maggio 1899-Parigi, 19 ottobre 1984). Michaux, del quale non faremo qui uno studio approfondito, rappresenta, ai nostri occhi, il tipo quasi perfetto del moderno intellettuale nichilista, e, sociologicamente parlando, del parassita di cui dicevamo all’inizio; sotto il profilo psicologico, è una personalità disturbata: troppo narcisista per tacere, ma troppo vuota per avere qualcosa da dire. Apriamo letteralmente a caso il suo libro Brecce, una sorta di antologia o di summa appositamente composta su richiesta dell’editore italiano (Milano, Adelphi, 1984, p. 142), e leggiamo:

 

Pensieri parcellari e che lo resteranno, individuali, ingovernabili, inutilizzabili, intrattabili, impertinenti, pensieri-apparizioni, persi non appena apparsi, che non sussistono, che non preparano a niente, impossibili da pilotare, da riprendere, da situare altrove, da ritrovare, da sognarci su, impossibili da annotare nella loro selvaggia eiezione, a volte cattivi ma innocenti sempre, strategici mai, impudenti ma incredibilmente abbaglianti, chiarificanti, pensieri che finiscono in un quasi-niente sintattico, di cui si fa benissimo a meno… fino a che non si tenta di scrivere.

 

E avanti così, in prosa e in versi, per 300 pagine (come pittore, è ancora peggio): 300 pagine per friggere e rifriggere sempre lo stesso piatto: pensieri parcellari e che lo resteranno, individuali, ingovernabili, inutilizzabili, intrattabili, impertinenti, pensieri-apparizioni, persi non appena apparsi, che non sussistono, che non preparano a niente, impossibili da pilotare, da riprendere; roba da far impallidire per l’invidia un Armando Verdiglione (qualcuno se lo ricorda?). Tuttavia, bisogna dire che Henri Michaux si sottovaluta: è troppo modesto. Se davvero i suoi pensieri fossero, come si premura di dirci e di ripeterci, fino allo sfinimento, parcellari, individuali, ingovernabili, inutilizzabili, intrattabili, impudenti, come va che gli editori, non solo francesi (e parliamo di Gallimard), se li contendono, e gli fanno la corte per godere il privilegio di poter pubblicare queste sue perle di saggezza? Se davvero fossero così impertinenti, come lui dice, non darebbero fastidio a qualcuno? Se fossero persi non appena apparsi (giochi di parole degni di un comico da avanspettacolo), come mai una prestigiosa casa editrice da intellettuali di prima scelta, come la Adelphi, gliene commissiona un’antologia personale? E se è vero che non preparano a niente, e se ne può fare benissimo a meno, perché ce li rifila? In compenso, con poca modestia, lui stesso li qualifica come innocenti sempre, nonché incredibilmente abbaglianti e chiarificanti. Pare quasi di sentire Berlusconi che magnifica i suoi governi e la sua azione di governo.

Ora, la domanda che vogliamo farci è come mai una simile nullità intellettuale si trovi ad essere circondata dalla riverente ammirazione di tanti critici letterari e artistici, e come mai vada tanto per la maggiore nei salotti buoni della cultura nostrana, debitamente progressista e “illuminata”: quella che una volta si chiamava semplicemente di sinistra, ma che adesso non si sa cosa sia, visto che la sinistra è diventata la parte politica sulla quale investono i loro piani, i loro soldi e le loro speranze i signori della globalizzazione, i miliardari delle banche e delle multinazionali. Il caso della Adelphi è altamente emblematico: pur senza arrivare alle conclusioni estreme di Maurizio Blondet (si legga il suo ormai introvabile saggio Gli Adelphi della dissoluzione), l’impressione che essa ami pubblicare soprattutto autori nichilisti, o comunque suscettibili di veicolare una visione del mondo nichilista, relativista, post-moderna nel significato più ambiguo e sfuggente della parola, dietro la quale può starci benissimo un disegno culturale di vasta portata e di matrice gnostica – la conoscenza delle cose ultime è riservata a pochi “illuminati”, come pure la regia occulta della società; gli altri devono accontentarsi del contorno – è piuttosto forte, scorrendo i titoli e gli autori del catalogo, così come sfogliando i singoli volumi. Come questo, appunto. Invano si cercherebbe, nella presentazione che fa di Brecce la curatrice Diana Grange Fiori una qualche plausibile ragione per cui un lettore italiano dovrebbe acquistare e mettersi a leggere un libro del genere; un libro che cade come pioggia sul bagnato, portando dosi industriali di nichilismo a una cultura che già barcolla nel vuoto:

 

Questa “antologia personale”, che attraversa gli scritti di Henri Michaux da “Chi fui” (1927) al “Giardino esaltato” (1983), è stata composta dall’autore su richiesta dell’editore italiano. Per chi ancora non conosce Michaux, sarà questa la perfetta guida alla sua opera; per chi non lo conosce, sarà un libro nuovo, ricco di sottili rivelazioni, quello in cui Michaux ha voluto illuminare sé a se stesso, e a tutti noi. Tutta l’opera di Michaux risponde a una domanda che non riusciamo a formulare, eppure sentiamo essenziale. Col tempo, i suoi critti si dimostrano sempre più nettamente insituabili, come già lo erano quando cominciarono ad apparire, nella Parigi degli anni venti. Possono presentarsi come racconti, poesie, riflessioni, esorcismi, dialoghi, aforismi visioni: ma ogni volta li sentiamo evadere dal quadro di una forma preesistente. Ed è questa una peculiarità costante di questo scrittore, che ha con la “letteratura” rapporti di acuminata diffidenza. I suoi paesaggi sono sempre “altrove”, in un Tibet dell’anima. Ogni libro di Michaux è il resoconto di un’esplorazione, che ama calarsi nelle “infinitesime fluttuazioni”, ma si azzarda anche a perdersi nella sterminata vastità. Nelle sue pagine troviamo tracciati, con la precisione cerimoniale di un calligrafo cinese, innumerevoli “movimenti dell’essere interiore”, soprattutto quelli che non hanno più un nome o non l’hanno mai avuto. Ciascuno di questi movimenti è una breccia fra il visibile e l’invisibile. I testi sono le macerie di quelle brecce. Ogni racconto è l’accenno di una metamorfosi. “Sono già stato di tutto, e tante volte”, dice una voce di Michaux, e prosegue: “Di rado vedo qualcosa senza provare quel sentimento così particolare… “Ah, sì, sono stato QUESTO…” Non me ne ricordo con esattezza, lo sento. Perciò mi piacciono tanto le Enciclopedie Illustrate. Le sfoglio, le sfoglio e ho spesso qualche soddisfazione perché lì trovo le fotografie di parecchi esseri che non sono ancora stato. Questo mi riposa, è delizioso, mi dico: “Avrei potuto essere anche questo, e questo, e mi è stato risparmiato”. Ho un sospiro di sollievo. “Ah! Il riposo!”.

 

Ci piacerebbe sapere perché, dopo aver letto questa presentazione, a una persona dotata di senso comune e sufficiente rispetto per se stessa dovrebbe venire il desiderio di leggere il grosso volume di Michaux. Per trovare la risposta a una domanda che non riusciamo a formulare, eppure sentiamo essenziale? No, perché in questo libro non troveremo alcuna risposta; del resto, se una domanda non è formulabile, come potrebbe avere risposta? Per trovare dei paesaggi, allora? Nemmeno, perché i suoi paesaggi sono sempre “altrove”, in un Tibet dell’anima. Per gustare il resoconto delle sue esplorazioni? Difficile, visto che tali esplorazioni si calano nelle “infinitesime fluttuazioni”, ma si azzardano anche a perdersi nella sterminata vastità. Fluttuazioni infinitesime (e dunque invisibili), immensità nelle quali ci si perde: più che esplorazioni, sono giravolte nel nulla. Ma no, ecco la parola magica: ciò di cui Michaux fa dono ai lettori sono gli innumerevoli “movimenti dell’essere interiore”. Ah, be’, adesso è più chiaro. Ma quali movimenti, di grazia? Soprattutto quelli che non hanno più un nome o non l’hanno mai avuto. Niente nome, niente identità: sono definiti solo in via negativa, per sottrazione: quelli che non. È sempre così, con questi intellettuali-anguille: sfuggono, guizzano, saltano via da ogni parte: è impossibile afferrarli, ne sanno una più del dio Proteo, che si trasformava incessantemente: ogni volta li sentiamo evadere dal quadro di una forma preesistente. Comodo: se non ci sono mai, se sono inafferrabili, non possono nemmeno essere esaminati, meno ancora criticati; al limite, non li si potrebbe dire. Pure, Michaux vuol dirli: contraddicendosi, vuol dire l’indicibile. Di più: vuole aprire delle brecce. Per dove? Delle brecce fra il visibile e l’invisibile. Per vedere l’invisibile, allora? Forse; ma l’invisibile è come l’indicibile: non si può parlarne che stando “altrove”. Insomma, è come un negoziante che espone sulla porta il cartello: Oggi non si fa credito, domani sì. Ma il cartello è lì anche domani, è lì sempre. Una bella presa in giro: si promette qualcosa, ma il tempo giusto non arriva mai, resta solo una promessa. Sì, lo sappiamo: non è elegante, né carino esprimersi in modo così rozzo e brutale. Fra le altre cose, equivale a darsi da sé dell’ignorante: come, non capire le profondità di Michaux, le sottigliezze d’un intellettuale d’avanguardia, inafferrabile perché la realtà è elusiva? Bisogna essere ottusi per non vedere che, se il mondo è ambiguo, la colpa non è di chi lo racconta. Eh, sì, davvero... Eppure, vuoi vedere che dietro tutto questo nulla c’è un disegno preciso: fra Cabala, magia, gnosi e paganesimo?