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Tutto il mondo è Savona

di Roberto Pecchioli - 28/05/2018

Tutto il mondo è Savona

Fonte: Ereticamente

La situazione nella colonia chiamata Italia è molto grave. Grave, ma non seria, come sapeva Ennio Flaiano.  Tanto vale prenderla in ridere, con il tormentone del comico ligure Enrique Balbontin: tutto il mondo è Savona! Facile celiare sul cognome dell’economista sardo rifiutato dal Quirinale in nome dei poteri forti, ma una reminiscenza storica fa riflettere. La città di Savona era fiera nemica della più potente Genova. Dopo una delle frequenti rivolte i genovesi vincitori rasero al suolo il centro della città, demolirono anche il duomo e costruirono al suo posto una poderosa fortezza, il Priamar. Un arcigno gigante di pietra scura che da cinquecento anni incombe sul panorama cittadino, i cui cannoni non erano rivolti verso il mare contro invasori stranieri, ma puntati sulla città ribelle.

Ci sembra assai simile la condizione dell’Italia di questi anni, in cui le oligarchie dominanti, di cui la presidenza della repubblica è espressione, hanno ormai gettato la maschera. Sono contemporaneamente anti nazionali, anti popolari, anti sociali. Questo è il dato di fatto, al di là del giudizio di merito sul professor Savona e sul governo abortito. L’Italia è una sequela di aborti –materiali, politici e civili- che la condannano non all’irrilevanza, ma all’estinzione come soggetto autonomo. Anche in questo, ahimè, nulla di nuovo, giacché la storia del Bel Paese è una lunga imbarazzante catena di dominazioni, cedimenti agli stranieri, invasioni favorite da alcuni italiani in odio ad altri. Lo sapeva Dante Alighieri, lo ribadirono grandi spiriti come Petrarca, Leopardi, Vittorio Alfieri e il maestro della scienza politica, Niccolò Machiavelli. Ma la storia patria non interessa nessuno nella nostra sfortunata nazione.

Tuttavia, è la prima volta che il futuro comune è determinato dai “mercati”, dagli “investitori” e dalle agenzie (private!) di rating. Segni dei tempi. Loro votano tutti i giorni attraverso gli algoritmi delle transazioni finanziarie, noi, poveri sudditi, solo ogni cinque anni e la nostra volontà conta quanto il due di picche a briscola. Così, un uomo del sistema come Paolo Savona, indicato infruttuosamente come ministro dell’Economia, diventa simbolo della resistenza all’inaudito sopruso di domenica 27 maggio, una data che entrerà nei libri di storia. Di Paolo Savona, in quasi 60 anni di carriera, tutto si può dire fuorché sia un estremista, un bolscevico o un fascista, tanto da ricoprire il ruolo di ministro in un governo tecnico (!!), di dirigente di Confindustria, oltreché consulente delle massime istituzioni economiche e finanziarie. La sua opposizione al sistema vigente è quella di un riformista, non certo di uno sfasciacarrozze, ruolo del tutto improbabile alla sua età – va per gli 82 – e con la sua storia.

Ma tant’è, vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole. La manina del Quirinale ha agito su pressione di manone più potenti della sua. Ha poco senso domandarsi se gli ordini- pardon i suggerimenti- siano giunti da Berlino, Parigi, Bruxelles, Washington o Francoforte, anche se tendiamo a pensare che le vecchie ruggini con il maggiore condomino della Eurotower, Mario Draghi, sino state più determinanti dei consigli interessati di alcune cancellerie e dei burocrati europoidi. Sta di fatto che il figlio di Bernardo Mattarella di scuola gesuita si è vestito da Mara Maionchi e ha pronunciato il fatidico “per me è no”.

Non sappiamo esprimere giudizi sul contratto di governo tra 5 Stelle e Lega, né siamo in grado di giudicare la qualità della squadra di governo. Tutt’al più, ci ricordiamo i nomi di ministri in carica o del recente passato: Fedeli, Madia, Maria Vittoria Brambilla, Maurizio Martina, Maurizio Gasparri, Angelino Alfano. Il problema è un altro: la sovranità non è del popolo, ma di chi ha occupato le istituzioni in nome della Banca Centrale, dei sommi Mercati, della Commissione Europea. Giornali come il tedesco Spiegel, Bibbia tedesca del progressismo dei costumi e del conservatorismo dei portafogli possono impunemente insultare la nazione intera, minacciarla in conto terzi nel silenzio tra gli applausi scroscianti della tribuna Vip italiana. Unico problema: i fischi delle curve, unite contro l’arbitro e contro quelli che per milioni di italiani sono i mandanti di un’operazione che ha i contorni del golpe bianco, il potere che blinda se stesso contro il suo popolo.

Non è il primo: dopo la caduta del muro di Berlino, evento che anche gli anticomunisti di tutta la vita finiranno per giudicare sciagurato, viste le conseguenze, l’Italia ha vissuto almeno quattro colpi di mano del sistema. Dal 1992, l’attacco giudiziario che ha tolto di mezzo i partiti di governo, consegnato l’economia e le banche agli stranieri (le decisioni sul panfilo Britannia, presenti, guarda caso, Ciampi e Mario Draghi) e avviato i meccanismi dell’attuale gabbia europea. Nel 1995, le mene di Scalfaro contro il governo Berlusconi, sino alla sfacciata operazione che portò Monti a palazzo Chigi nel 2011. Senza dimenticare la guerra contro la Serbia, condotta dall’ex comunista D’Alema in assenza dei passaggi parlamentari previsti dalla Costituzione “più bella del mondo”.

La verità è quella espressa lucidamente da Mario Sapelli, l’economista già indicato come capo del governo e oggetto del primo gran rifiuto del Colle: lorsignori hanno vinto, nelle accademie, negli ambulacri della finanza e della stampa di sistema, dunque fanno pesare la loro vittoria. Chi non è allineato è un eretico, la fortuna è che non vengono apprestati roghi in Campo de’ Fiori. Tutt’al più qualche incidente sospetto, come a Enrico Mattei nel 1962, chissà se a Adriano Olivetti infartuato sul treno per la Svizzera, l’annegamento nella piscina del banchiere centrale Duisenberg, lo strano incidente di Jorg Haider. Ma basta complotti, bando alle paranoie: l’oligarchia ha lavorato benissimo, nei decenni.

Oggi guida il pilota automatico, fatto di trattati considerati superiori alle costituzioni, novelle tavole della legge consegnate a Mosè dal Dio Denaro in cambio della Terra Promessa. Poi ci sono i regolamenti comunitari scritti da oligarchi non eletti che diventano legge in ventotto Stati, alcune migliaia ogni anno, le opportune modifiche costituzionali. Sul trono, le Autorità Finanziarie e Monetarie, sapientissimi oracoli in grado di imporre politiche con la forza di minacce economiche e finanziarie spacciate per scienza infusa. E i popoli? Spettatori paganti, istupiditi dalle parole che non significano più niente: libertà, democrazia, lavoro, diritti, sovranità. Con lorsignori non si scherza, la ricreazione è finita da tempo.

Per quanto riguarda l’Italia, non ci colpiscono per i nostri torti, che pure abbondano, ma per le nostre ragioni. Ci ostiniamo a essere una potenza manifatturiera pur se hanno smembrato la grande industria e dissolto un quarto della capacità produttiva. Insistiamo a esportare, non solo borse di lusso o vini pregiati, ma sistemi industriali e tecnologia. Riusciamo, miracolo sommo, a risparmiare privatamente e nello stesso tempo produrre avanzi di bilancio per placare momentaneamente l’appetito famelico dei signori “creditori”. Eh no, così non va. Lassù hanno deciso che l’Italia deve trasformarsi in un’innocua Disneyland, industrie e infrastrutture devono sparire; possibilmente deve sparire anche il popolo italiano.

Ci stanno riuscendo: denatalità, immigrazione massiccia, emigrazione dei giovani, governi servi. Se qualcuno osa lamentarsi, è facile lanciare all’attacco l’apparato della disinformazione, posseduto dai soliti noti. Diventiamo, alternativamente, fascisti, comunisti, populisti, fannulloni, pezzenti. Se poi, nonostante i mezzi dispiegati, gli italiani non ci stanno, il gioco si fa duro. Si promulga una legge elettorale fatta apposta per bloccare Stato e Parlamento, si grida al fascismo in assenza di fascisti con il controcanto che vede comunisti, pauperisti (?) e giustizialisti ad ogni incrocio, si esercitano pressioni (la chiamano moral suasion, fa più fino perché è in inglese e fa credere che esista una morale) per cacciare dal campo chi vuole cambiare la partita. Arrivati al dunque, si usa come clava l’inesistente estremismo anti europeo di un economista, il professor Savona, la cui vita è stata al servizio del sistema ma non di ogni nefandezza.

Il momento è davvero difficile; non si può escludere che la spuntino gli amici del giaguaro: in Italia sono numerosi e potenti fin dal Medioevo. Manca, ed è un dramma per milioni di poveri senza rappresentanza, la consapevolezza dei tempi nuovi da parte di quella che una volta era la sinistra sociale, incartata sui temi di costume e sull’anarchismo dei comportamenti individuali, in perfetta sintonia con i Signori, che una volta chiamavano padroni.  La Costituzione viene brandita come arma impropria da chi se ne è impadronito facendola a brandelli. Le istituzioni di garanzia, come la Corte Costituzionale, sono porte girevoli per i papaveri del sistema. Resta il popolo, o almeno una parte di esso, quelli che non vogliono essere sudditi di un potere che finge di essere senza volto, e invece ha nomi, cognomi e luoghi simbolici. Soprattutto, coloro che non vogliono tornare plebe: più poveri, deprivati di diritti politici, espropriati dei diritti sociali, orfani di qualunque valore comune, con lo Stato in mano a estranei (sinonimo di stranieri!), fiaccati nella volontà, derisi, divisi.

Sosteniamo da tempo che l’Italia non esiste più. In queste settimane, con l’accelerazione degli ultimi giorni, ne abbiamo la prova certa. Lamentavamo all’inizio l’indifferenza nazionale per la storia, ma non possiamo fare a meno di ricordare il grido di dolore del massimo storico latino, Tito Livio, dinanzi alla crisi drammatica della repubblica romana: “sono arrivati tempi nei quali non si possono sopportare i mali e neppure i loro rimedi”. Eppure, tocca sperare e non cedere alla tentazione del silenzio, all’idea della ritirata. Al di là del professore cagliaritano inviso a lorsignori, simbolo di queste ore dannate, ha ragione Enrique Balbontin: tutto il mondo è Savona, i cannoni del potere puntati contro i cittadini. Domani è un altro giorno, si vedrà.