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L’Europa deve reagire al mostruoso ricatto

di Francesco Lamendola - 03/06/2018

L’Europa deve reagire al mostruoso ricatto

Fonte: Accademia nuova Italia

 

Un ricatto mostruoso pesa sull’Europa, dal 1945 a oggi; e continuerà a pesare, fino a quando gli europei, e i tedeschi per primi, non saranno capaci di riconoscere e respingere le false premesse ideologiche e morali sulle quali esso si basa. Il ricatto è questo: l’Europa deve accettare il nichilismo come il proprio destino, perché l’ultimo energico sforzo che essa ha fatto per scrollare da sé la cultura nichilista è stato compiuto da forze politiche, sociali e culturali che hanno prodotto il fascismo, prima, indi il nazismo, e, da ultimo, Auschwitz: e la colpa di aver prodotto Auschwitz è inestinguibile, peserà per sempre sulla coscienza europea, perciò qualsiasi tentativo di reagire al nichilismo equivarrebbe a un tentativo, più o meno mascherato, di ridar vita a quelle stesse forze malvagie, che si resero colpevoli del genocidio. In altre parole: non si può lottare contro il nichilismo, perché gli ultimi che lo hanno fatto, sono stati i carnefici nazisti: l’Europa deve restare inchiodata alla vergogna di Auschwitz, non può andare oltre, non può e non deve né dimenticare, né voltare pagina; deve restare crocifissa al suo senso di colpa.

Si tratta di un sofisma mal costruito, e tuttavia efficace, visto che, da settant’anni, funziona egregiamente, e pare destinato a durare ancora chissà quanto. È un sofisma, per varie ragioni: tanto per cominciare, di ordine storico. Esso, infatti, non fa alcuna distinzione tra fascismo e nazismo, il che è storicamente errato (ed è errato, a maggior ragione, porre, o anche solo suggerire, una impossibile equivalenza fra il razzismo biologico e l’antisemitismo dei nazisti, da un lato, e la politica razziale del fascismo, dall’altro); non include, tra le forze “malefiche”, o comunque ribelli al disordine europeo, il socialismo e il comunismo, il che è del pari errato; e non include, ovviamente, neppure il liberalismo e la democrazia, le quali, specie nella forma del capitalismo finanziario del XX secolo, senza dubbio meritano di essere incluse, sia tra le espressioni del nichilismo europeo, sia fra i tentativi di dare ad esso una risposta. Ma la storia, si sa, è sempre e comunque la storia dei vincitori: perciò, dal 1945 ad oggi, la domanda che il mondo intero ripete, o almeno pensa, pur senza formularla ad alta voce, è sempre la stessa: Perché voi tedeschi non vi siete ribellati a Hitler?; e a nessuno, neanche ai campioni della democrazia liberale, è mai venuto in mente di voler domandare ai russi: Perché non vi siete ribellati a Stalin? Laddove è evidente che, se la Seconda guerra mondiale si fosse conclusa, in Europa, sulle macerie di Mosca, anziché di Berlino, nessuno avrebbe chiesto, né allora, né poi, ai tedeschi vincitori, perché non si fossero ribellati a Hitler, mentre ora tutti lo chiedono, ma solo perché la Germania è stata sconfitta. E se, per ipotesi accademica, fossero stati sconfitti gli inglesi e gli americani, forse che il mondo non avrebbe domandato loro ragione di Dresda e di Hiroshima? E se fossero stati sconfitti i sovietici, forse che il mondo non avrebbe domandato loro ragione della pugnalata alle spalle inferta alla Polonia e dei massacri della Bessarabia, per non parlare dello sterminio dei kulaki e delle “purghe” staliniane? Non parliamo, poi, del fascismo e di Mussolini: un piccolo saggio di ciò che la nostra opinione pubblica avrebbe seguitato a dire di lui, se l’esito della Seconda guerra mondiale fosse stato diverso, lo si può dedurre da quel che di lui dissero e scrissero quasi tutti gli intellettuali, alcuni anche di parte socialista e comunista, in termini estremamente elogiativi, per non dire entusiastici, all’indomani della conclusione vittoriosa della campagna d’Etiopia e della proclamazione dell’Impero. Quanto all’antisemitismo fascista - che, come tale, non è mai esistito, anche se è esistita una politica razziale fascista, il che è cosa ben diversa - sarebbe quantomeno imbarazzante andare a rileggere i nomi dei firmatari del Manifesto della razza, tra i quali figura Amintore Fanfani,  o spulciare fra la stampa dell’epoca, dove si troverebbero gli articoli, favorevoli a quelle leggi, di un certo Spectator, che era il nom de plume di Alcide De Gasperi. E chi è senza peccato, scagli la prima pietra. E che dire della stampa cattolica, ad esempio la rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica? Forse è meglio sorvolare per carità di patria (o di religione).

Naturalmente, la ragione profonda della mancata ribellione a Hitler (come pure a Stalin) suona ancora più sgradevole ai delicati orecchi del politicamente corretto, perché giace a un livello ideologicamente più “basso” dei gusti dei nostri intellettuali, tutti debitamente progressisti e, se possibile, di sinistra. Oltre alle difficoltà pratiche materiali di organizzare, o anche solo d’immaginare, una ribellione nei confronti di un regime autenticamente totalitario, come quello nazista (e quello comunista; mentre il regime fascista era totalitario solo nelle velleità di pochi suoi esponenti, e Mussolini non era fra costoro), resta la decisiva contro domanda: Perché mai i tedeschi (o i russi) avrebbero dovuto ribellarsi contro un regime che stava conseguendo dei grandiosi successi, sia in politica interna che in politica estera? Un regime che, nel caso della Germania, aveva assorbito, in soli sei anni, l’intera disoccupazione provocata dalla crisi di Wall Street del 1929, qualcosa come sei milioni di disoccupati, al ritmo di un milione l’anno, riportando quel Paese, alla vigilia della guerra, nel 1939, ai vertici dell’economia mondiale? Ma qui il discorso si farebbe inevitabilmente scabroso, perché bisognerebbe vedere in che modo il nazismo ha realizzato un simile miracolo, perché di un miracolo si tratta, visto che gli storici di regime sono ancora qui ad affannarsi per spiegarci come Roosevelt, col suo mitico New Deal, e pur disponendo di risorse incomparabilmente superiori, non riuscì a rimettere in piedi l’economia americana e a riassorbire la disoccupazione; cosa che accadde, invece, solo con l’entrata in guerra degli Stati Uniti e l’inizio della conversione industriale agli scopi bellici.

La vulgata attuale farfuglia che la ripresa dell’economia tedesca fu dovuta alla politica di riarmo del nazismo, ma, ovviamente, è un po’ difficile spiegare dove lo Stato, in tempi di recessione, abbia trovato i capitali per finanziare le commesse all’industria privata (una ricetta che poté funzionare per gli Sati Uniti, dopo il 1941, perché gli Stati Uniti disponevano delle materie prime, di una struttura produttiva e di un mercato interno e internazionale, in misura incomparabilmente superiore alla Germania, all’Italia e al Giappone messi insieme). E la prova che la conclusione della guerra, nel 1945, ha portato all’instaurazione di un totalitarismo democratico, il quale perdura a tutt’oggi, si deduce dal fatto che è tuttora impossibile affrontare seriamente questo argomento: perché il miracoloso risanamento dell’economia tedesca (e la buona tenuta dell’economia italiana) negli anni Trenta del Novecento ha a che fare con una ricetta che sarebbe pericoloso, ancora oggi, divulgare, visto e considerato che le forze dominanti della finanza mondiale sono, oggi, le stesse del 1929 e del 1945, cioè le stesse che regalarono al mondo la Grande Depressione, la Seconda guerra mondiale e la vergognosa spartizione dell’Europa in due sfere coloniali: forze che non devono essere neppure nominate, anche perché, diversamente, i popoli dell’Europa potrebbero capire che la sottomissione alla finanza mondiale non è un destino ineluttabile e che, volendo, è possibile opporsi ad essa in favore degli interessi nazionali di ciascuno Stato. Cosa che non avverrà mai fino a che le classi dirigenti europee saranno rappresentate da uomini come Sergio Mattarella, il quale, dopo aver giurato sulla Costituzione di difendere la sovranità dello Stato italiano, scavalcando l’esito delle elezioni del marzo 2018 e anticipando la formazione del nuovo governo, si affretta ad ammonire pubblicamente gli italiani che nessuno Stato può pensare di far da solo, con ciò svalutando l’idea sovranista, disprezzando l’esito del voto del popolo sovrano e portando acqua al mulino di Bruxelles, della Banca centrale europea (privata), del signor Junker e della signora Merkel, ossia delle stesse forze che tengono in ginocchio l’Italia e rappresentano la prepotenza della finanza contro il lavoro e la libertà dei popoli.

Ma torniamo al nostro assunti iniziale: si può uscire dal nichilismo, senza incorrere nel reato di voler “dimenticare” Auschwitz? Ne avevamo già discusso una volta (cfr. il nostro articolo: Il crollo del Terzo Reich attesta l’impossibilità di superare il nichilismo?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 28/12/2015, e sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 17/11/2017). Rimandiamo il lettore a quella precedente riflessione; e, senza ripetere cose già dette, ci domandiamo: è possibile che qualcuno voglia tenere lo spirito europeo intrappolato nel suo senso di colpa, alimentandolo ad arte, affinché a nessuno venga la “tentazione” di ribellarsi al nichilismo, perché la cultura nichilista è perfettamente funzionale alla sottomissione politica, economica e finanziaria dell’Europa, oltre che all’ideologia divenuta in essa dominante, e che esprime, in buona sostanza, sia il punto di vista, sia gli interessi materiali dei veri vincitori della Seconda guerra mondiale, i banchieri di Londra e di New York, ma che gli europei hanno indossato come fosse una divisa, senza rendersi conto che è una camicia di forza o, meglio ancora, una vera e propria camicia di Nesso, che sta provocando la loro morte? Rispondiamo che sì, è possibilissimo; anzi, è molto probabile. La cultura nichilista non è solo una tendenza “spontanea” dell’Europa. Perché il resto del mondo non ne è affatto colpito? E non parliamo solo della Russia, o dei Paesi islamici, o della Cina, o del Giappone; parliamo anche degli Stai Uniti e della Gran Bretagna, i quali ne sono appena sfiorati, pur essendone i maggiori esportatori e, in buona sostanza, anche i principali produttori. Come dire che Stati Unti e Gran Bretagna “fabbricano” le idee e le opere del nichilismo, ma non le mangiano; un po’ come coloro i quali acquistano le reti televisive e se ne servono per condizionare mentalmente le persone, si guardano bene dal mettersi davanti al piccolo schermo (nell’ambiente circola questa battuta: la televisione è come la merda; chi la fa, non la guarda). E se questo, che abbiamo suggerito, è uno scenario possibile, anzi probabile, allora diventa anche abbastanza chiara la strada che conduce fuori dalla palude mefitica del nichilismo. Si tratta di una strada in due tappe: la prima, e forse la più difficile, consiste nel rifiuto del ricatto di Auschwitz; nel rifiuto, cioè, dell’assioma, assurdo e maligno, secondo il quale voler uscire dal nichilismo equivale a rimettersi sul binario nefasto già percorso dal nazismo, tornando cioè al populismo, alla xenofobia, al rogo dei libri e chissà a quali altre nefandezze. Sono le accuse che oggi, sul piano politico, vengono rivolte a partiti come la Lega, o a uomini di governo come Orban e Putin: e ciò perché essi rivendicano con fierezza la sovranità dei loro Paesi, la difesa dei confini e soprattutto la difesa delle radici cristiane, contro la marea montante della globalizzazione, specialmente dell’invasione islamica dell’Europa e della graduale sostituzione delle sue popolazioni con gli immigrati africani e asiatici. La seconda tappa consiste nell’adottare le misure politiche, economiche e finanziarie, ma anche nel mobilitare le risorse intellettuali, spirituali e religiose, che traggono alimento dalle nostre radici e dalla nostra identità vera: e non quella banale verniciatura americana che i nostri conquistatori d’oltre Oceano (e non liberatori) ci hanno imposto, dal 1945 a oggi, come se fosse il nostro destino, cioè il nostro solo futuro possibile. Restando sul piano strettamente culturale: chi lo dice che i migliori scrittori, pensatori, artisti europei sono gli esponenti della cultura nichilista? Chi lo dice che non esiste un genio più grande di Heidegger (e della sua scimmietta francese, Sartre) in filosofia; più grande di Montale in poesia; o dei geni più grandi dei Beatles nella musica leggera, o più grandi delle archistar in architettura, i quali stanno sfigurando le nostre belle città con i loro orribili edifici, ponti, palazzi, musei e cattedrali? Per non parlare di tutta la spazzatura umana che oggi imperversa nel cinema, nel pop, nel rock, alla tv, o degli squallidi divi dei blog, freneticamente a caccia (per soldi) del maggior numero di visualizzazioni in rete, corresponsabili del rapidissimo incretinimento collettivo della nostra gioventù? Chi dice che il destino dell’Europa sia proprio questo? Ci vogliono inchiodare ad Auschwitz affinché non torniamo mai più padroni di noi stessi.

Ci si può domandare se le energie sane ci sono ancora. Sì, ci sono: la situazione appare più grave di quella che è, per il fatto che i promotori del nichilismo controllano i mezzi d’informazione, le case editrici, la critica letteraria e cinematografica. Il cittadino europeo è più sano, o, se si preferisce, meno malato di quanto non s’immagini; in realtà solo una minoranza si deve ritenere pressoché irrecuperabile. Ciò non toglie che la situazione sia estremamente grave, perché, con i mezzi di cui dispone e con il ritmo che sta assumendo la sua strategia, l’élite finanziaria è in grado, nel giro di un paio di generazioni, di distruggere quel che di buono sopravvive nella nostra società. E il primo bersaglio, come tutti possono vedere, è la famiglia: per questo si sta sferrando una offensiva senza precedenti contro di essa, che parte dal divorzio e dall’aborto e arriva alle unioni di fatto e ai cosiddetti matrimoni gay, con tanto di adozioni, fecondazione eterologa e utero in affitto. Se questi nuovi istituiti verranno riconosciuti dalla legge e se, Dio non voglia, passeranno anche nella prassi e nella dottrina della Chiesa, sarà veramente la fine. Una volta distrutta la famiglia, non ci saranno più speranze. Ecco perché occorre vigilare e tenersi pronti a reagire: non bisogna più cedere neanche un metro di terreno; anzi, bisogna cominciare a riguadagnare il terreno perduto. La lotta sarà culturale, intellettuale, spirituale. Si tratta di ricostruire i valori della nostra civiltà: che è la civiltà cristiana…