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Gli Usa chiamano l'Europa alla ribellione contro la Germania

di Mauro Bottarelli - 03/06/2018

Gli Usa chiamano l'Europa alla ribellione contro la Germania

Fonte: Il Sussidiario

Dobbiamo sempre farci riconoscere. Oltre 80 giorni per dar vita a un governo che poteva nascere, se non il 5, certamente il 6 marzo, mentre gli spagnoli ieri all'ora di pranzo avevo già dato il ben servito a Mariano Rajoy e spinto Pedro Sánchez verso la presidenza del Consiglio. Rapido e indolore, come l'iniezione con la Pic. Le Borse? Tutte allegre. Lo spread? Una meraviglia. Insomma, il problema era quello di un necessario cambio di marcia da imprimere ai due soggetti più grandi dei cosiddetti Piigs, ottenuto il quale, tutto è tornato sereno. Cieli sempre blu, placidi laghi alpini. Per adesso, almeno. Perché per riuscire nel suo intento, il leader socialista ha firmato non poche cambiali con creditori molto esigenti e proni al ricatto, ovvero gli indipendentisti catalani e baschi. A cui ha fatto promesse. Molte.

Ai primi, politiche dopo il terremoto di eventi seguito al referendum sull'indipendenza. Ai secondi, economici, dopo la messe di denaro già spesa dal governo popolare per placare i capricci di Bilbao. Può permetterselo Madrid? No. Perché, esattamente come l'Italia, anche la Spagna ha beneficiato e continua a beneficiare grandemente delle messe di liquidità della Bce. La quale, però, formalmente sta per terminare, stante anche il dato sull'inflazione reso noto giovedì, un +1,9% così vicino all'obiettivo prefissato del 2% da far pensare che la missione sia davvero quasi conclusa. Non è così, ma tocca mantenere viva ancora per un po' la narrativa. Da qui al 2022, Madrid ha necessità annue di rifinanziamento del debito pari a oltre 300 miliardi di euro, solo quest'anno per 41,2, ma la legnata arriverà l'anno prossimo e a seguire, quando cioè - almeno formalmente - i governi europei dovrebbero essere in grado di camminare con le proprie gambe, stante il ritorno graduale alla normalità delle politiche monetarie.

Nel 2019 serviranno 82,4 miliardi, nel 2020 altri 83,9, l'anno seguente 58,5 miliardi e, infine, nel 2022 altri 60,4. Per capirci, le nostre necessità sono di 84 miliardi quest'anno, 161 il prossimo, 164 nel 2020 e 172,5 miliardi nel 2021. E il fatto che nei cinque giorni che hanno preceduto il voto di sfiducia di ieri, il cds a 10 anni della Spagna abbia visto quasi raddoppiato il suo valore, parla chiaro sull'ostacolo rappresentato da quel servizio del debito. Inoltre, quasi come per la manovra correttiva di combinato fra clausole di salvaguardia e riallineamento dei conti dell'Italia, quest'anno Madrid deve fare fronte a un aggiustamento da 15 miliardi relativamente agli obblighi con l'Ue: come si farà a giungere a quella riduzione del deficit di budget? Con maggiore crescita? No, la ricetta socialista sembra essere la solita, tax'n'spend: esattamente ciò che spedì la Spagna in recessione molto rapidamente nel 2008-2010, visto il tipo di economia estremamente ciclica di quel Paese.

Cos'hanno, quindi, da festeggiare Borsa e spread? Perché, a vostro modo di vedere ci sarebbe qualcosa da festeggiare, in un mondo normale, per l'approdo al governo di certe figure? Ma qui non siamo in un mondo normale, siamo nel meraviglioso mondo delle Banche centrali. Dove tutto funziona al contrario. E dove, però, comincia a circolare parecchio nervosismo, aggravato dal fatto che politica, economia e finanza stanno intrecciando i loro destini in maniera quasi senza precedenti, almeno per la natura palese della connessione. Diciamola chiara. Anzi, ribadiamola chiara, visto che era il succo dell'articolo di ieri: l'America ha ufficialmente dichiarato guerra all'Ue e per farlo ha atteso il momento di massima instabilità e tensione interna all'Europa.

Il fuoco di fila è palese: all'inizio furono le sanzioni contro la Russia, rivelatesi tanto inutili nei fatti quanto letali per il commercio bilaterale di molti Stati europei, Germania e Italia in testa: poi i dazi "temporanei" su acciaio e alluminio, formalmente per colpire la Cina, ma che hanno inviato lo shock sistemico più grande all'export tedesco. Poi l'abbandono di Washington dell'accordo sul nucleare iraniano e le conseguenti sanzioni, non solo contro Teheran ma anche contro i Paesi e le aziende che ci facciano business: ancora Italia e Germania in testa, per parecchi miliardi di controvalore.

C'è stata poi la minaccia del Dipartimento di Stato contro le aziende che partecipassero al consorzio per la costruzione della pipeline Nord Stream 2 e, infine, l'ufficializzazione del carattere di fissità dei dazi contro l'export Ue di acciaio e alluminio, arrivato alla mezzanotte di giovedì. Ma non basta, perché se sempre giovedì il Wall Street Journal rendeva noto, dopo oltre un anno dall'entrata in vigore, del regime di controllo speciale cui è sottoposta l'attività di trading di Deutsche Bank negli Usa, così stringente da vedere anche assunzioni, licenziamenti e compensi sottoposti al giudizio vincolante della Banca centrale statunitense, ecco che ieri Standard&Poor's ha sparato il siluro: downgrade di rating della stessa Deutsche Bank a BBB+, solo tre gradini dal livello spazzatura. Detto fatto, titolo in picchiata, dopo aver toccato il minimo record già giovedì, un rotondo -7,2% a 9,13 euro per azione. Un qualcosa che magari non finirà sulle prime pagine dei giornali, ma che è terminato immediatamente in testa alle priorità dell'agenda di Mario Draghi e Angela Merkel, i quali infatti si incontreranno lunedì: ufficialmente per discutere del sesso degli angeli, ma non ci vuole molto a capire che l'unico argomento trattato sarà il nuovo pericolo mortale che minaccia la banca più sistemica (ed esposta ai derivati) dell'eurozona.

Ora, proprio il desk di investimento e il suo nozionale da fine del mondo sui derivati rappresenta l'assicurazione sulla vita di Deutsche Bank, visto che un eventuale e anche limitatissimo evento di credito farebbe scattare un tale rischio di controparte sul collaterale da far tremare Wall Street nelle fondamenta, ma il segnale di Washington ai Paesi europei del Sud è chiaro: mollate la Germania e il suo rigore, diventate nostri satelliti. Soprattutto, perché così facendo eviterete di seguire cattivi esempi di Berlino: tipo il riavvicinamento sempre più smaccato con la Russia. A fare da cane da guardia, poi, c'è Emmanuel Macron, doppiogiochista ormai conclamato - basti vedere il suo interventismo sulla Libia, sfruttando proprio il black-out politico italiano dovuto allo stallo sulla formazione del nuovo governo - e nuovo miglior amico di Washington, tanto da godere di esenzioni che gli hanno permesso, la scorsa settimana, di firmare contratti per investimenti diretti con Mosca per 1 miliardo di euro, alla faccia delle sanzioni e degli hacker del Cremlino.

E la Germania, cosa fa? I settori più sensibili alle pressioni statunitensi - di fatto Berlino è la centrale europea dell'intelligence Usa - come la stampa e alcuni funzionari, si sono lanciati in attacchi volgari e diretti contro l'Italia, di fatto esacerbando il clima anti-tedesco e anti-europeista mentre al Quirinale andava in scena il braccio di ferro sulla linea politica del nuovo governo legato alla figura del professor Paolo Savona. Gli apparati intermedi, invece, quelli più fedeli al governo, stanno reagendo: se infatti la Merkel ha prontamente mobilitato Draghi per DB, ecco che la Procura generale tedesca, proprio ieri, ha presentato una nuova richiesta di estradizione per l'ex premier catalano, Carles Puigdemont, alla Corte d'appello dello Schleswig-Holstein per il reato di ribellione.

Il tutto, meno di due ore dopo il siluramento di Rajoy alle Cortes: come dire, un bel segnale per Pedro Sánchez, al quale Berlino fa capire che in caso di scelta anti-europeista per il suo governo, anche solo per garantirsi un po' di extra deficit, la reazione sarà immediata. Ovvero, il ritrovarsi fra i piedi - e in galera, con ciò che ne consegue a livello di ordine pubblico in Catalogna - il promotore fuggiasco del referendum indipendentista, bellamente impacchettato e rispedito in patria, dopo il patto di mutua assistenza in tal senso fra la Merkel e Rajoy. Una bella grana, come primo impegno in agenda.

Questo è il quadro generale, ovvero l'avvicinamento a uno scontro finale che potrebbe rivelarsi devastante, non fosse altro perché potrebbe far deragliare il processo di lentissima normalizzazione di indici, prezzi e politiche monetarie che le Banche centrali stanno cercando di porre in essere, attraverso stress-test come quello vissuto dall'Italia e dalla Spagna a inizio settimana. Nella notte fra giovedì e venerdì, la Bank of Japan si è accodata all'esempio e ha tagliato gli acquisti di bond nel range 5-10 anni da un controvalore di 450 miliardi di yen a 430 miliardi di yen: risultato? Yen e bond a precipizio e titoli azionari, invece, in salita repentina, quasi certamente come reazione all'aumento dei rendimenti obbligazionari. Insomma, tutti stanno cercando di tastare il polso a quel malato chiamato mercato per capire quanto ci si possa spingere in profondità con la cura.

Certo, se fra gli infermieri c'è un pazzo come Donald Trump, il compito appare improbo. E dannatamente pericoloso. Ma da queste parti, purtroppo, non c'è ancora contezza di quanto sta accadendoci attorno, a poche ore di treno o aereo da quella Roma che ieri ha visto giurare il "governo del cambiamento". Temo, sempre di più, un brusco, brusco risveglio in autunno.