Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Hegel tra Marx e Gentile

Hegel tra Marx e Gentile

di Umberto Bianchi - 06/07/2018

Hegel tra Marx e Gentile

Fonte: Ereticamente

Si fa un gran parlare di Hegel e del suo pensiero, le cui interpretazioni spaziano da una rigida vulgata in chiave razionalista ed immanentista, sino ad una di matrice platonicheggiante sino ad arrivare, ancor più recentemente (grazie all’opera di studiosi del calibro di Alexander Magee e di Giandomenico Casalino), a riscoprirne ed a metterne in evidenza una  valenza prettamente ermetica.

Per meglio capire ed inquadrare il grande filosofo tedesco, si può anche compiere un lavoro a posteriori, andando, cioè ad esaminarne le implicazioni filosofiche, proprio negli scritti di un autore del calibro di Giovanni Gentile riguardanti Karl Marx. La fine del 19° secolo, vede in Italia e nell’Europa intera un forte dibattito sul pensiero marxista e sul socialismo in genere. Un dibattito che non può non tener conto della presenza di un convitato di pietra, rappresentato dai riverberi del pensiero hegeliano. In Italia, sulle orme dell’hegeliano Bertrando Spaventa e dell’americano John Dewey, prendono spunto i lavori di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile.

Se il primo si farà fautore di un tiepido hegelismo e di un passeggero “innamoramento” dell’ideologia marxista, il secondo, invece, spingerà sino alle estreme conseguenze  il proprio attaccamento all’hegelismo, arrivando ad elaborare una critica del tutto peculiare di quest’ultima sino a conferire allo stesso hegelismo la propria, particolare, interpretazione. Il dibattito va, anzitutto, inquadrato in quelle che erano le coordinate di pensiero dell’intero dibattito filosofico che, a partire dall’alba della Modernità in poi, si erano concretizzate in quella che si potrebbe definire, quale “demolizione della metafisica” , quel “Keine metaphisik mehr!” che, dalla lI metà del secolo 19°, si fece manifesto ufficiale d’azione dell’intera intellighentzjia europea ed occidentale.

E’ in questo ambito, dunque, che dobbiamo muoverci per meglio comprendere l’interpretazione gentiliana di Marx (e, per analogia, anche quella di Hegel…). Cominciamo con il dire che Marx, applica alle sue tesi la metodologia “dialettica” di Hegel, (per cui la Storia altri non è che un continuo processo antagonista tra sfruttati e sfruttatori, la cui sintesi sarà appunto un ribaltamento sociale (rivoluzione) e la conseguente realizzazione di una società comunistica), capovolgendone però lo spirito e le conseguenti dinamiche. In Hegel, Spirito Assoluto e Spirito Individuale vanno a coincidere, il secondo costituendo la produzione dell’altro (Idealismo). In Marx, tutto ciò viene ribaltato in favore di un primato antropologico dell’individuo e del suo fare che, alfine generano le idee.

Quello stesso individuo che, rispetto a quanto preconizzato da Cartesio, Hegel, Fichte, ma anche dallo stesso Fuerbach, non è più il fulcro da cui vanno producendosi le idee e l’interpretazione della realtà, rappresentato invece dalla società nel suo complesso e dalle istanze economiche che ne accompagnano via via, l’esistenza. Pertanto il capovolgimento della dialettica hegeliana operato da Marx, determina un nuovo principio-cardine che andrà animando l’intero costrutto filosofico del socialismo a venire, ovverosia la teoria della “praxis”.

A generare la Storia e le idee è, prima di tutto, l’agire umano in “societas”, strettamente interrelato ad istanze di ordine puramente economico. E proprio il proposito di “demolizione della metafisica”, la critica di Marx (e di Gentile…sic!) ai suoi precursori utopisti alla Owen ed alla Fourier, come allo stesso Fuerbach, è serrata. Se di quest’ultimo, in particolare, si apprezza il fatto di aver spostato su un piano meramente antropologico e materialista l’intera sfera spirituale umana (ed in primis l’istanza religiosa…), permane l’accusa di una sopravvivenza della tanto odiata metafisica, determinata dall’aver nuovamente riposto la sfera religiosa al pari di quella dello spirito umano, in un ambito meramente idealistico ed astratto e perciò stesso, riconducibile ad una qualche valenza metafisica.

La critica va poi estendendosi ed accomunando, come abbiamo già poc’anzi accennato, sia il Feuerbach che i precedenti pensatori utopisti, accusati di aver dato luogo ad elaborazioni intellettuali statiche, totalmente scollegate da quell’agire umano legato alle condizioni economiche del momento e, perciò stesso, autoreferenziali, profondamente innervate in una modalità borghese di concepire la realtà. Lo stesso dibattito tra Gentile da una parte e Croce e Sorel dall’altra, sulla pretesa “storicità” della filosofia marxista, è sintomatico di quel clima culturale a cui abbiamo accennato sopra.

Gentile, anche sulla falsariga di quanto precedentemente elaborato dal filosofo Antonio Labriola, si fa fautore della “storicità” del marxismo, ovverosia del suo pieno,inserimento ed incardinamento nel Divenire dei processi storici, di cui costituisce una chiave di lettura universale e non uno spunto da cui occasionalmente attingere, così come invece per Benedetto Croce che, al pari di Sorel, svolgono una critica alla costruzione totalitaria e totalizzante del pensiero marxista.

Pertanto, se la critica di Marx ai suoi contemporanei è tutta incentrata sulla distanza del pensiero di questi dalle dinamiche della realtà e, pertanto, ad una qualsivoglia forma di sopravvivenza della metafisica, la critica di Gentile a Marx e ad Engels, sarà altrettanto incentrata sugli stessi motivi. Ma procediamo per ordine. Di Engels, Gentile critica l’interpretazione che questi, nell’ “Antidhuring” fa della dialettica hegeliana, a suo parere sin troppo legata ad un canone che, anche se si manifesta in una forma di Positivismo, finisce con il rimandare ad una forma di platonicheggiante “idealismo”.

Sulla falsariga di quanto premesso, la critica di Gentile a Marx, è più complessa ed elaborata. Riprendendo quanto Bertrando Spaventa, (suo “metre a penser”) ci dice in “Principii di filosofia”, nel saggio “La filosofia della prassi”, nel fare il punto sul rapporto fra pensiero ed esperienza, scienza e filosofia, Gentile sottolinea «la novità del concetto, così essenziale alla filosofia moderna, della infinita potenza del conoscere» (cfr. G. Gentile, La filosofia di Marx, cit., pp. 146-47).

Secondo Gentile la relazione imprescindibile fra pensiero ed esperienza può essere fondata solo sul riconoscimento del carattere trascendentale delle categorie, ma questo esclude che il principio del conoscere, il ‘fare’ della filosofia della praxis, sia l’attività sensibile. E siccome Marx non si pone il problema di elaborare il sensibile come categoria trascendentale, il tentativo di una concezione materialistica della storia si risolve in un fallimento:

“La radice della contraddizione, che spunta per ogni verso nel materialismo di Marx, è nell’assoluto difetto di ogni critica relativa al concetto della prassi applicata alla realtà sensibile, alla materia, che presso di lui si equivalgono. Marx non pare si sia curato minimamente di vedere in che modo la prassi si potesse accoppiare alla materia, in quanto unica realtà; mentre tutta la storia antecedente della filosofia doveva ammonirlo dell’inconciliabilità dei due principii: di quella forma (= prassi) con quel contenuto (= materia)” (La filosofia di Marx, cit., p. 163).

“Un eclettismo di elementi contraddittori” – conclude Gentile – “è il carattere generale di questa filosofia di Marx; della quale”, aggiunge alludendo alla crisi del marxismo, “non han forse gran torto oggi alcuni tra i suoi discepoli di non sapere che farsi. Molte idee feconde vi sono a fondamento, che separatamente prese son degne di meditazione: ma isolate non appartengono, come s’è provato, a Marx, né quindi possono giustificare quella parola “marxismo”, che si vuole sinonimo di filosofia schiettamente realistica (p. 165).”

Come si può vedere, l’accusa a Marx di “confusionarismo”, riprende per un verso, le accuse da Croce e da Sorel e da altri ancora, mosse al filosofo di Treviri, circa una scarsa valenza filosofica e teoretica del suo pensiero, animato, invece, da istanze ribellistiche di ordine meramente sociologico e politico. Non solo. Alla base di quanto qui detto, il fatto che Marx finisca con l’esser fatto bersaglio di un’altra e quasi sottaciuta accusa: quella di aver determinato una vera e propria metafisica “materialista”.

Partendo dalla critica del concetto di “metafisica” fatta dallo stesso Engels nel già citato “Antidhuring”, laddove per metafisica si debba intendere la tendenza inaugurata dagli empiristi Bacone e Locke, atta a trasportare il metodo di ricerca sperimentale applicato alle scienze naturali, all’ambito filosofico, producendo così quella limitata schematicità di pensiero, oggidì caratteristico del pensiero occidentale, il pensiero dialettico hegeliano, eletto a criterio-guida, diviene esso stesso una forma di metafisica, anche nelle sue espletazioni materialiste e marxiste.

Alla base di queste considerazioni sta il fatto che, per lo stesso Gentile in Hegel è presente un fondamentale errore di impostazione: quest’ultimo avrebbe infatti costruito la propria dialettica con elementi propri  a quelli del cosiddetto «pensato», appartenenti, ovverosia, al pensiero determinato ed alle scienze. Mentre, per Gentile, solo nel «pensare in atto» consiste l’autocoscienza dialettica che tutto comprende, mentre il «pensato» è un fatto illusorio.

Pertanto nel suo attualismo l’unica vera realtà consiste  nell’atto puro del “pensiero che pensa”, ovverosia “l’autocoscienza nel momento attuale, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l’esistente”. Praticamente l’essenza della realtà non è data dai singoli enti pensati, ma dal pensiero in atto che ne sta alla base e ne determina la successiva rappresentazione.

Essendovi pertanto immedesimazione tra Spirito e Pensiero,quale attività  perenne, non vi può essere distinzione alcuna tra soggetto e oggetto. Nella sua contrarietà a qualunque forma di dualismo e naturalismo, Gentile teorizza l’unità di natura e spirito (monismo), cioè di spirito e materia all’interno della coscienza pensante. La coscienza pertanto, viene concepita come sintesi di soggetto e oggetto, in cui il primo pone il secondo.

A ben vedere, però, il pensiero gentiliano, così lesto a liberarsi delle scomode valenze metafisiche o trascendenti che dir si voglia, dei pensatori precedenti, Hegel in primis, per uno strano scherzo del destino, si trova a ripercorrere le stesse strade del pensiero di quest’ultimo, anch’egli, anche se con modalità differenti, proclamante quella coincidenza tra Spirito Assoluto e Spirito Individuale, tra Spirito e Materia, tra Soggetto ed Oggetto, tra Io e Realtà, che tanto si avvicina al “Deus sive substantia” di Spinoza, e tanto stranamente ci riporta ai motivi dell’Ermetismo di un Meister Eckhart, di un Jackob Bohme, di un Giordano Bruno, di un Marsilio Ficino, di un Ruggero Bacone e di altri ancora.

Questo perché la dialettica hegeliana, nel suo tentativo di dare un senso alle problematiche che la nascente Modernità poneva alle coscienze di un’epoca, travagliata dal contrasto tra Modernità e Tradizione, Conservazione e Rivoluzione, cercò di conciliare queste antinomie in un grandioso disegno filosofico, in grado di far convivere al proprio interno, in una cornice innovativa, elementi di innovazione.

Al pari di Kant, Hegel fu un filosofo della transizione; stabilì alcuni punti fermi, con l’illusione di fermare quell’impetuoso e contraddittorio Divenire storico, che ebbe poi in Fuerbach il suo primo epigono. Ma come per tutte le cose in bilico, può accadere che si vada poi cadendo verso l’una o l’altra direzione, salvo poi, come per una strana legge oscillatoria, repentinamente volgersi verso altre, inaspettate direzioni.

E così, una metodologia di pensiero (come nel caso di quelle dialettica ed immanentista nella fattispecie…) usata a sostegno di istanze puramente materialiste, può finire con il trascinare il suo entusiasta ed ignaro seguace verso lidi e conclusioni ben lontane da quelle inizialmente preconizzate. A questo punto, altro non può non tornarci in mente se non l’immagine di quel moto circolare dell’Essere e delle sue manifestazioni che, miglior rappresentazione non trovò se non in quel Serpente-Uroboro Primordiale, raffigurato nel mordersi la propria coda, in modo tale da far coincidere la fine con l’inizio, nella cornice della Totalità di un Tutto che, al proprio interno contempera e comprende tutte le opposizioni.