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L’arte brutta è anche immorale

di Francesco Lamendola - 06/07/2018

L’arte brutta è anche immorale

Fonte: Accademia nuova Italia

Checché ne dica Hegel con le sue elucubrazioni e le sue fumisterie sulla fine dell’arte bella, l’arte brutta è un controsenso, perché l’arte è l’espressione del sentimento del bello, che è innato e costituisce uno dei pochi punti di riferimento certi e sicuri in tutta la perigliosa navigazione della vita umana. Perciò l’arte brutta è un controsenso, una contraddizione logica: se è brutta, non è arte; tuttavia, ammesso che sia possibile, o meglio, ammesso che sia possibile spacciare una bruttura per arte, ciò equivale a una operazione che non è solamente antiestetica, ma altresì immorale. Infatti, celebrare il brutto, il deforme, il patologico, l’aberrante, il disgustoso, come fanno tanti sedicenti artisti, poeti, musicisti, eccetera, significa andare frontalmente e deliberatamente contro uno di quei pochi fari che brillano nel buio della notte dell’esistenza, ossia il senso estetico dell’uomo, e più precisamente il suo bisogno del bello. La creazione di opere intenzionalmente brutte, repulsive, presentate però – soprattutto dai critici – come “artistiche”, pertanto, va contro la morale, e si configura come qualcosa di diabolico, nel senso letterale del termine: qualcosa che mira a ridestare il fondo fangoso, lutulento, abominevole, che giace, per fortuna addormentato, nelle caverne più oscure ed abissali dell’anima umana. Ma guai a stuzzicare il mostro addormentato: potrebbe ridestarsi; e le conseguenze sarebbero terribili. Ciò è precisamente quanto accade in un rito di magia nera: si evocano delle forze sataniche e le si adopera per fare il male di qualcuno, senza però considerare che la prima vittima di tale sortilegio, benché possa non apparir subito evidente, è proprio lo sciagurato che a quelle forze ha fatto appello.

Se si riflette al potere che hanno gli artisti, i poeti, gli scrittori, i musicisti, i cantanti, nell’orientare e definire l’immaginario collettivo, nel costruire la percezione del mondo che hanno le persone nella nostra società – potere che non va affatto sottovalutato, perché il fatto che la nostra società si suole definire tecnologica, non muta la costante da noi ricordata, e cioè che l’animo umano è naturalmente portato a cercare la bellezza e, se invece del bello trova il brutto, che gli vien fatto però passare per bello, o comunque per “artistico”, finirà per adattarvisi e per nutrirsene, in mancanza d’altro – si comprenderà facilmente quale immensa responsabilità gravi sulle spalle degli artisti, e quanto sovente essi abusino del potere di cui dispongono, per accontentare i gusti del “mercato”, i quali nulla hanno a che fare con la sensibilità naturale delle persone. E aggiungiamo, per scrupolo di chiarezza, benché ciò non dovrebbe esser necessario: delle persone normali. Il fatto è che la società moderna, proprio per le caratteristiche costitutive della modernità, non alimenta gli istinti sani e normali della gente, ma, troppo spesso, quelli malati, aberranti, paranoidi; li stimola, li incoraggia, li approva, li potenzia, in ciò sostenuta più che validamente dalla dilagante cultura del relativismo e da quella perfida forma di bassa magia nera che usurpa il nome di scienza e che, pomposamente, si presenta con l’etichetta di psicanalisi: una di quelle tipiche costruzioni intellettuali della modernità, le quali hanno acquisto lo status di verità rivelate, e la cui conoscenza, peraltro banalizzata e impoverita, qualunque persona semicolta (vale a dire tanto ignorante quanto presuntuosa e inconsapevole della propria ignoranza) si sente in dovere di sbandierare ad ogni occasione, per far vedere quanto è preparata, scaltra e assolutamente impermeabile agli inganni nei quali cadono, invece, gli individui comuni, sprovvisti di tali raffinate conoscenze. E se anche fosse questo il solo danno che la psicanalisi produce alla società, ciò sarebbe più che sufficiente per proclamarne il bando perpetuo; così come dovrebbe essere proibito citare Darwin a tutti coloro i quali credono di aver capito l’evoluzionismo, solo perché hanno letto qualche libro divulgativo o assistito a qualche programma televisivo nello stile di Piero Angela; o citare Nietzsche a tutti i somari che tirano fuori Zarathustra, il superuomo e la morte di Dio, pur se non si sono mai presi la briga di leggere personalmente le opere del filosofo tedesco, e, quel che più importa, anche se non ci hanno mai capito un beneamato nulla.

Osservava a questo proposito – e le sue osservazioni, pur giustissime, fanno quasi sorridere, vedendo fino a che punto è peggiorata, ai nostri giorni, la situazione da lui denunciata, e che già sessant’anni or sono lo muoveva a sdegno - un notevole critico e storico dell’arte, nonché compositore, Matteo Marangoni (Firenze, 12 luglio 1876-Pisa, 1° giugno 1958), nel suo libro Saper vedere. Come si guarda  un’opera d’arte (Milano, Garzanti Editore, 1947, 1953, pp. 96-97):

 

Perché non esiste una censura per il cattivo gusto? Perché deve esser lecito pubblicare le oleografie più sdolcinate, i romanzi più banali, fissare nei dischi, o, peggio ancora, TRASMETTERE certe musiche volgarissime? Si risponderà, al solito: “Se queste cose ‘vanno’ vuol dire che piacciono, che esiste tutto un pubblico che le ricerca e se ne ciba, e ogni pubblico ha l’arte che si merita”. Purtroppo è così: il livello medio del gusto musicale del nostro pubblico, per esempio, è ancora molto basso. La grande maggioranza non apprezza che la pura e semplice MELODIA [povero Marangoni, se sapesse cosa apprezza oggi il pubblico di “musica” rap, anche la più banale e demenziale!] e il canto vocale; tutta la musica strumentale e polifonica gli è indigesta. Quante volte ho visto chiudere con dispetto la radio ad un pezzo pianistico oppure orchestrale, per riaprirla con gioia al primo belato!

È davvero desolante questo perfido gusto del pubblico, e non è meno desolante che non si faccia qualcosa di più per educarlo ma se ne coltivi quasi il vizio con certe banali filastrocche di canzonette e ballabili che egli può godersi alla radio dalla mattina alla sera.

E in fatto di musica per molti è forse anche questione di ignoranza, e si potrebbe, credo, educarli ad un gusto migliore quando fossero costretti – per mancanza d’altro – a star a sentire soltanto musica buona. Per quanto ciò potrebbe essere, magari, una rivelazione! La sinfonia “Incompiuta” di Schubert non è forse divenuta popolare dopo il gran successo del film “Angeli senza paradiso”?

Non si dovrebbe, insomma seguire il gusto del pubblico, bensì correggerlo. [Nota dell’Autore: Non si dovrebbero, per esempio, permettere quegli sfacciati empori a pubblico “incanto” con pitturacce oleografiche che, in questi ultimi anni specialmente, prosperano alla barba dei gonzi. Sono essi focolai infettivi del gusto pubblico, già così malsano.]

Ma mi pare di sentir dire: “Ognuno è padrone di avere il gusto che ha, senza per questo offendere o nuocere a nessuno: tutto ciò è al di là di considerazioni civili e morali”. Ecco l’errore, la vecchia mentalità così dura a morire. È un errore considerare immorale soltanto quello che offende direttamente  il nostro cosiddetto senso morale; anche una brutta poesia, una musica banale, un quadro lacrimogeno sono IMMORALI perché, benché indirettamente, assecondano, lusingano, favoriscono la pigrizia intellettuale, il cattivo gusto, il più rancido sentimentalismo delle folle, già così affette da vizi di questo genere; e nessuno potrà mai dire quanto questi veleni sottili e serpeggianti debilitino la psicologia e quindi l’anima di un popolo.

 

E si consideri che, allorché Marangoni scriveva queste riflessioni, la televisione non era ancora entrata nelle case degli italiani (la Rai venne fondata l’anno dopo, il 3 gennaio 1954), e che comunque, quando vi sarebbe entrata, per un buon quindicennio i suoi intenti furono largamente didattici, ispirati in ampia misura a una sana pedagogia, che mirava a educare il gusto del pubblico, compresi i programmi destinati all’infanzia e quelli cosiddetti d’intrattenimento e di varietà. Ciò valeva, in qualche misura, perfino per la pubblicità stessa, tanto è vero che il Carosello serale costituiva un innocente spettacolino per i bambini, dopo il quale essi venivano mandati a letto e gli adulti restavano, soli, davanti alla televisione. (Precisiamo, per inciso, che il film Angeli senza paradiso, citato da Marangoni, è quello del regista austriaco Willi Forst, il cui vero titolo era Leise flehen meine Lieder, dedicato alla vita di Schubert; e non certo il remake italiano del 1970, di Ettore Maria Fizzarotti, interpretato da Al Bano e Romina, all’apice del loro successo musicale.) 

Dunque, il succo dell’argomentazione di Matteo Marangoni è che l’arte brutta - se vogliamo chiamarla così, tanto per capirci -, gli artisti che la coltivano e coloro i quali la finanziano, non dovrebbero veicolare un messaggio antiestetico, per non recare un danno, oltre che alla sensibilità e al buon gusto, anche all’intelligenza e alla volontà delle persone; perché è cosa troppo facile assecondare i gusti peggiori del pubblico e servirgli quel tipo di “prodotti” che esso gradisce, facendo leva sulla pigrizia intellettuale e, aggiungiamo noi, sulle tendenze istintive più malsane, arrecando, però, danni incalcolabili alla sanità morale dell’intero corpo sociale. Ma l’ottimo professor Marangoni non ha tenuto conto, o forse non viveva ancora in un clima in cui si doveva tener conto, della pronta, ovvia, risentita obiezione che qualunque intellettuale politicamente corretto gli rivolgerebbe oggi: per quale ragione, cioè, egli crede di essere in possesso di un gusto più raffinato e più maturo della massa del pubblico, al punto da voler decidere, lui, cosa è meritevole di essere apprezzato in ambito estetico, e cosa invece non lo è. Si ritiene forse migliore, più esperto degli altri? Naturalmente, il buon professore risponderebbe: certo che sono più esperto: ho dedicato la vita allo studio dell’arte; permetterete che ne sappia e ci capisca qualcosa in più di un idraulico, il quale sarà certo più competente di me nel suo ambito, ma non in questo. Però lui, passato nell’eternità nel 1958, cinque anni prima che entrasse in vigore la sciagurata riforma della scuola media unificata, ha avuto il privilegio di non vedere il trionfo universale del più demagogico egualitarismo; di non dover assistere all’instaurarsi pieno e definitivo di una cultura che parifica ogni merito e appiattisce ogni talento, e nella quale qualunque somaro si crede un Aristotele, e, spalleggiato da tutti gli altri suoi pari, lancia i suoi altissimi ragli contro chiunque osi contraddirlo, perché una tale opposizione sarebbe un reato di lesa democrazia. Ai suoi tempi, le mamme non andavano a scuola, indignate, a chieder conto del perché la maestra abbia messo al loro geniale pargoletto un misero “sette” invece del meritatissimo “otto”, né i padri si presentavano infuriati per picchiare il professore che avesse sminuito i meriti, evidenti a chiunque abbia appena un po’ di cervello, del loro viziato e maleducato rampollo adolescente. Del resto, erano i suoi colleghi critici e storici dell’arte che, in larga misura, si rifiutavano di umiliarsi e di magnificare le cose brutte solamente per piacere al pubblico dal palato grosso: per cui tutta la società, dal vertice alla base (perché esisteva ancora un minimo di struttura gerarchica basata sul merito, ed era un bene) svolgeva, direttamente o indirettamente, una certa qual funzione educante; e chi sapeva e capiva poco, non pretendeva di montare in cattedra e dar lezione a quanti erano migliori di lui.

Ma c’è un’altra ragione ancora, per cui l’atteggiamento suggerito da Marangoni, oggi, verrebbe bollato con parole di fuoco praticamente da tutti, e presentato, oltre al resto, come un esempio lampante d’incomprensione della complessità del mondo moderno (parola magica, che permette sempre di scantonare davanti a un bel o a un bel no). Egli afferma che è sbagliato incoraggiare la pigrizia intellettuale, e che questo è un male; e, se è un male, allora è immorale, perché la morale non sa che farsene dei “forse”, dei “chissà” e simili, ma vuole stabilire, o almeno tentare di stabilire, cosa è bene e cosa è male. Lui dice che la pigrizia intellettuale è un male; e noi siano pienamente d’accordo. Ma la cultura pseudo democratica oggi imperante, che si serve dell’ignoranza per fomentare l’odio contro l’intelligenza, ha l’obiettivo d’imporre il totalitarismo della pigrizia. In effetti, più la gente è pigra (intellettualmente) e più resta campo libero al dominio dei peggiori, in ogni ambito in cui vi sia da esercitare un po’ di potere: dall’arte alla politica, dall’economia alla scienza. Ed è quel che sta accadendo: l’incretinimento collettivo viene accuratamente pianificato e attuato, al preciso scopo di eliminare ogni ostacolo alla dittatura dei più cinici, dei più sfrontati, dei più arrivisti e di quelli che hanno meno scrupoli di coscienza. Questo vale anche per l’are, gli artisti e quella casta di mercenari che è formata dai critici letterari, cinematografici, musicali, eccetera. Solo considerando questo aspetto, si arriva a comprendere ciò che Marangoni intuiva e contro cui metteva in guardia: il fatto che la pigrizia è un vizio, non è un comportamento “neutro” e puramente individuale; e che la pigrizia di massa genera effetti nefasti sull’intera società, dunque l’arte brutta, che la incoraggia o la giustifica, finisce per avere un impatto negativo anche nella sfera dell’etica. Non è male solo ciò che provoca direttamente il male, ma lo è tutto ciò che favorisce le condizioni affinché il male nasca, prosperi e si estenda. Eh, via, diranno a questo punto i signori del politicamente corretto, che vorreste fare: imporre l’inquisizione nell’arte? No di certo: non si tratta di reprimere, ma di affermare ciò che è bene e ciò che è male. Il codice penale non punisce tutto ciò che è moralmente male. Per questo ci vuole una coscienza vigile ed esigente, anzitutto con se stessa. La persona veramente etica, infatti, al contrario del cialtrone, è più severa con sé che con gli altri…