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Metodologia CLIL

di Paolo Di Remigio - 07/07/2018

Metodologia CLIL

Fonte: Appello al Popolo

Tutto ciò che è accaduto nella scuola pubblica italiana negli ultimi vent’anni non va inteso come un complesso di iniziative pedagogiche, magari sbagliate, ma proposte, o imposte, al fine di migliorare. Le numerose iniziative dei diversi ministeri devono essere spiegate come strumenti del sabotaggio organizzato dalle oligarchie neo-liberali per distruggere la scuola pubblica, inserito nel loro progetto di lungo termine di Stato minimo. Se così non fosse, le iniziative sarebbero state caute, circostanziate, e i loro risultati sarebbero stati sottoposti ad attenti controlli. Così non è mai stato; le iniziative sono state sempre considerate buone e riuscite in quanto nuove. Richiedendo agli insegnanti la novità senza preoccuparsi del suo contenuto, si è lanciato loro un messaggio implicito: fate quello che volete, l’importante è che sia diverso dall’abituale. Si è così sollecitata una conseguenza inevitabile: la scuola è diventata la finzione di se stessa. Una finzione di rara ipocrisia si è diffusa intorno all’insegnamento della lingua straniera, propriamente dell’inglese. Ci si lamenta ovunque che gli italiani non imparano l’inglese a scuola. Un riformismo prudente avrebbe indagato la didattica degli insegnanti d’inglese, i testi in adozione, gli orari di lezione, e poi avrebbe adeguato la prima, riformulato i secondi, rimodulato i terzi. No. Poiché il suo obiettivo era distruggere la scuola pubblica, la legge 107 ha introdotto in tutte le scuole la metodologia CLIL, cioè l’insegnamento in inglese di una disciplina diversa dall’inglese (e dall’italiano).

 Ovviamente nel proporre la legge il MIUR non ha indagato il numero degli insegnanti non d’inglese in grado di, e disponibili a, insegnare la loro disciplina in inglese. Ovviamente sono pochissimi. Ovviamente l’iniziativa è andata comunque avanti (lo spirito – diceva Mussolini – domina la materia) in forma di ‘progetto’ – un termine del gergo pseudo-pedagogico a cui corrisponde l’esercizio del puro dilettantismo: un insegnante che non sa la lingua ma sa (si spera) la disciplina si associa a un insegnante che non sa la disciplina ma sa la lingua. Si sommano cioè due semi-ignoranze con la speranza (infondata, perché l’ignoranza è molto più determinante della scienza) di arrivare a un intero della scienza e si affrontano i problemi insormontabili con la semplice finzione – si ricordi che non c’è controllo; così il risultato, utile beninteso alla congiura neo-liberale, è che, mentre i dirigenti didattici pubblicizzano il loro istituto perché vi hanno introdotto il CLIL nelle sue diverse varianti (Esabac, Cambridge), si cancella una disciplina senza avanzamenti nell’apprendimento dell’inglese. Forzare dirigenti e insegnanti a fare ciò che non sono in grado di fare rivela una profonda sfiducia nella loro professione: i burocrati del ministero possono assegnare dei compiti ineseguibili solo in quanto considerano del tutto inutile il lavoro scolastico; ma amministratori che nutrono il massimo disprezzo nei confronti degli amministrati non possono fare altro che sabotarli. Chi a scuola continua a fare il suo dovere vive ogni giorno questa esperienza. Qualora fosse mondato dai sabotatori e volesse riflettere sui danni e sugli svantaggi delle pratiche imposte dalla 107, il MIUR scoprirebbe che il metodo CLIL, oltre ad essere per ora inattuabile, contiene importanti controindicazioni teoriche, una politica e una pedagogica. La controindicazione politica è che l’obbligo di studiare una disciplina in una lingua straniera induce a considerare la lingua madre una lingua inferiore, parziale, in cui non si può esprimere e tradurre tutto. Disprezzare la propria lingua come una lingua parziale, dalla musica sorda e dal lessico insufficiente, definisce l’essenza del colonizzato. Essendo costretto a rinunciare all’unica lingua che parla bene e ad esprimersi nella lingua del colonizzatore che non potrà mai diventargli naturale, il colonizzato diventa inferiore al colonizzatore, perde il diritto adamitico di denominare le cose e si estrania dal linguaggio: non parla la lingua madre ma neanche la lingua del dominatore, parla la lingua dei dominati, di cui il globish è l’ultimo esempio. La controindicazione pedagogica è che studiare una disciplina in una lingua straniera non perfettamente posseduta, cioè in una lingua straniera che si ha ancora necessità di tradurre per capire – ed è questo il caso di chiunque non sia, per sua biografia, poliglotta – significa studiarla male, significa cioè sacrificare una disciplina a un’altra. Ne segue che la metodologia CLIL, sempre che sia compatibile con il rispetto di sé di un popolo libero, può essere impiegata senza troppi danni solo nei casi particolari di alunni di elevata competenza linguistica, come loro strumento di perfezionamento, mai come obiettivo intermedio.