Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La nuova geopolitica mediorientale

La nuova geopolitica mediorientale

di Giacomo Gabellini - 10/07/2018

La nuova geopolitica mediorientale

Fonte: Italicum

Intervista di Luigi Tedeschi a Giacomo Gabellini autore del libro “Israele – geopolitica di una piccola grande potenza” Arianna Editrice 2017

 

 

1) L’Isis è stata sconfitta e la Siria ha riconquistato i propri territori. Tuttavia il dopoguerra siriano si presenta assai denso di incognite. Infatti la Siria è oggi un paese, oltre che materialmente distrutto, assai mutato. Quali sono le più rilevanti trasformazioni subite dalla Siria a seguito della guerra, dal punto di vista etnico, religioso e politico?

 

La Siria come l’abbiano conosciuta finora probabilmente non esisterà più. Le componenti cristiana e alawita del Paese hanno subito pesanti perdite ad opera dei gruppi islamisti intenzionati a rovesciare il governo di Bashar al-Assad, consapevoli che uno dei principali punti di forza della struttura politica baathista è dato dalla capacità di tenere gli innumerevoli gruppi religiosi in equilibrio attraverso il bilanciamento (con nomine di cristiani, alawiti, drusi, ecc. nei ranghi dell’esercito e della burocrazia statale) della schiacciante preponderanza della compagine sunnita. Gli Stati Uniti mantengono proprie forze speciali nell’area orientale del Paese, mentre la Turchia non sembra affatto disposta a rinunciare al controllo delle zone che corrono lungo il confine con la Siria. I russi sono invece ben presenti nelle aree nevralgiche della nazione, In tali condizioni, il recupero di una piena sovranità da parte del governo in carica sembra molto difficile da ottenere. Lo scenario più probabile consiste nell’applicazione alla Siria di una soluzione di tipo iracheno, basata cioè sull’attribuzione di una larga autonomia alle varie regioni di cui si compone il Paese a seconda della loro composizione etnica e demografica.

 

2) Il trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme e la denuncia dell’accordo con l’Iran da parte americana, sono eventi significativi di un profondo mutamento della politica americana in medioriente. Alla strategia del progressivo disimpegno americano si è sostituita una nuova politica interventista nell’area mediorientale? Si è dunque posto fine alle divergenze politiche tra gli USA e Israele con nuove convergenze negli obiettivi dei due paesi?

 

La decisione statunitense di trasferire l’ambasciata si configura come un vero e proprio punto di non ritorno. Occorre tuttavia valutare la mossa nel contesto in cui è stata compiuta per comprenderne il senso profondo. Per decenni gli Stati Uniti si sono imposti come arbitri parziali e prevenuti rispetto al contenzioso israelo-palestinese, ma sono stati molto attenti a mantenere una sorta di equilibrismo finalizzato ad evitare di inimicarsi in maniera insanabile l’intero mondo arabo. Tutte le parti in causa, consapevoli della forza politica, economica e militare statunitense, hanno riconosciuto a Washington questo ruolo super partes, ma la situazione è divenuta sempre meno sostenibile a causa del declino relativo ma inesorabile della potenza Usa accompagnato dalla progressiva affermazione di un nucleo di agguerrite potenze antiegemoniche. La resurrezione della Russia ha costretto gli Stati Uniti a riorientare la propria rete di alleanze in funzione anti-moscovita. L’accordo sul nucleare iraniano fortemente voluto da Barack Obama (allievo di Brzezinski) si inscrive in questo grande sforzo di ristrutturazione, ma ciò ha suscitato le ire di Tel Aviv e della potentissima Israel Lobby statunitense. Con Trump si è assistito a un’inversione di tendenza, dettata dal fatto che il magnate newyorkese non percepisce la Russia come un nemico ma come un potenziale alleato in chiave anti-cinese. Il riallineamento della politica mediorientale statunitense verificatosi negli ultimi due anni si configura pertanto come un tentativo di recuperare il favore di due potentissimi alleati (Israele dispone di un enorme capacità d’influenza sulla politica Usa, mentre l’Arabia Saudita è il pilastro su cui poggia l’egemonia del dollaro) che minacciavano di riconsiderare il proprio posizionamento geopolitico in conseguenza della riconciliazione con l’Iran.

 

3) I successi elettorali di Hezbollah in Libano e degli sciiti in Iraq sono eventi rivelatori dell’accrescimento dell’influenza politica e militare dell’Iran nel medioriente. L’Iran nel prossimo futuro potrà divenire una potenza locale di riferimento per il mondo islamico in funzione anti occidentale e anti israeliana, con relativa espansione dell’influenza russa in Asia?

 

L’Iran ha una tradizione imperiale vecchia di oltre 2.500 anni che ha insegnato all’apparato dirigenziale persiano la necessità di tutelare l’indipendenza politica del Paese attraverso l’elaborazione di una precisa visione strategica. Attualmente, Teheran conduce una politica di potenza che si esercita soprattutto attraverso la direttrice religiosa e nel cui ambito l’Iran svolge il ruolo di magnete in grado di attrarre i circa 200 milioni di sciiti disseminati in un Medio Oriente a forte predominanza sunnita. Un po’ come Israele, che opera su scala internazionale attraverso una fittare rete di contatti (i cosiddetti “sayan”) istituiti con le numerose comunità ebraiche sparse in giro per il mondo, l’Iran si adopera per creare condizioni politiche ed economiche a sé confacenti facendo leva sulle moltissime minoranze sciite presenti all’interno dei Paesi mediorientali. Nello scenario contemporaneo, è il filo rosso sciita a collegare in un’unica soluzione di continuità – che gli Stati Uniti e Israele intendono spezzare da decenni – la Beirut degli Hezbollah alla Teheran degli Ayatollah, tramite l’Iraq meridionale e il ridotto alawita in Siria, dando origine a blocco che nel corso degli anni ha assunto un carattere fortemente anti-egemonico anche per effetto dell’avvicinamento a potenze rivali degli Stati Uniti quali Russia e Cina. Il declino Usa sta indubbiamente giocando a favore dell’Iran, ma è ancora presto per dire se Teheran riuscirà nel suo intento.

 

4) Con la sconfitta dell’Isis e la vittoria di Assad in Siria è dunque fallito il disegno egemonico sunnita nel medioriente dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi. Tuttavia continua la guerra yemenita con relativo disastro umanitario. Le potenze sunnite non sembrano però rassegnarsi ad un loro ridimensionamento politico. Quali nuove strategie esse potrebbero mettere in atto nel prossimo futuro? E’ prevedibile una guerra con l’Iran?

 

Quello in corso in Medio Oriente è uno scontro in cui gli interessi geopolitici ed economici vanno strutturalmente a legarsi ad antiche divisioni etniche e religiose. Siria ed Yemen sono episodi di questa grande guerra che per il momento vede il fronte sciita guidato dall’Iran conquistare terreno a scapito del fronte saudita-israeliano, il quale ha reagito rinsaldando i legami con la nuova amministrazione statunitense e inaugurando una politica decisamente più attiva in Siria, dove i caccia di Tel Aviv hanno compiuto diverse sortite nel tentativo di costringere le forze iraniane presenti sul territorio alla ritirata. Attualmente la situazione sembra essersi stabilizzata grazie al meticoloso lavoro conciliatorio di Putin, la cui statura politica è ampiamente riconosciuta da tutte le parti in causa – sauditi compresi. L’intervento in Siria, le modalità attraverso le quali la forza militare russa è stata impiegata sul campo e il suo straordinario attivismo diplomatico hanno consentito al capo del Cremlino di accreditarsi come mediatore rispetto alle tante questioni aperte nel complesso scacchiere mediorientale, ed è probabilmente questa la miglior garanzia di stabilità che si potesse ottenere nelle condizioni attuali. Un po’ come Bismarck in Europa dopo la guerra franco-prussiana, Putin si è ritagliato il ruolo di tutore dell’equilibrio mediorientale.

 

5) La causa palestinese, dato il disimpegno del mondo arabo e il rafforzamento progressivo di Israele nell’area, sembra destinata ad esaurirsi. E’ ipotizzabile nel prossimo futuro una riviviscenza della causa palestinese, mediante il sostegno di nuovi alleati e sostenitori?

 

L’eclissi della questione palestinese è una conseguenza della totale mancanza di visione strategica dei due principali movimenti che se ne sono storicamente fatti portatori, l’Olp ed Hamas. Il primo si è ormai trasformato in un ente burocratico dipendente dai sussidi stranieri e distante anni luce dai bisogni della popolazione. Il secondo ha invece pugnalato alle spalle l'”asse della resistenza” formato da Siria, Iran ed Hezbollah, vale a dire lo storico sostenitore della causa palestinese, per gettarsi tra le braccia del Qatar invischiato nel piano di rovesciamento di Bashar al-Assad. L’unico uomo politico palestinese dotato del carisma e del seguito necessario a riportare in auge gli interessi del suo popolo è Marwan Barghouti, ma è quasi impossibile che Israele accetti di scarcerarlo. Ma nonostante l’assenza di una vera e propria guida politica, la politica israeliana di segregazione, di colonizzazione dei territori occupati, di isolamento della Striscia di Gaza e di compressione degli arabi di Cisgiordania lungo la sponda occidentale del fiume Giordano, i palestinesi esercitano una spinta demografica sensibilmente maggiore rispetto a quella degli ebrei israeliani. Si tratta di un’arma particolarmente affilata, che secondo l’esperto italo-israeliano Sergio Della Pergola costringerà Israele a rinunciare ad almeno uno dei tre pilastri (grandezza territoriale, ordinamento democratico – che in realtà è molto più appropriato definire etnocratico – e carattere ebraico dello Stato) su cui si regge il disegno sionista. Allo stesso tempo, come ha osservato Jonathan Cook, la prospettiva di realizzazione della “Grande Israele” che sembra aver preso corpo con la decisione di Trump di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme potrebbe rivelarsi una vera e propria vittoria di Pirro per l’establishment israeliano. L’eventuale inglobamento della Cisgiordania nello Stato ebraico caricherebbe sulle spalle di Israele oneri militari giganteschi, che gli Usa non saranno sempre disposti (o non potranno permettersi in eterno) a sostenere. In tale contesto, potrebbero venirsi a creare le condizioni per una nuova Intifada caratterizzata dalla riformulazione della lotta palestinese in una battaglia per la parità all’interno di uno Stato unificato, come accaduto nel Sud Africa dell’Apartheid. Se sostenuta da una potenza alleata, una simile crociata potrebbe rivelarsi particolarmente insidiosa per Israele.