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L’amor di Patria è un concetto soggettivo?

di Francesco Lamendola - 23/07/2018

L’amor di Patria è un concetto soggettivo?

Fonte: Accademia nuova Italia





L’amor di Patria è un concetto oggettivo o soggettivo? In tempi di relativismo galoppante, verrebbe spontaneo rispondere: soggettivo, certamente; ciascuno ha la sua idea di cosa sia l’amor di Patria; anzi, ciascuno ha la sua idea di cosa sia la Patria. Ma è proprio vero, ed è sempre vero? Pensiamo a una casa, a una famiglia: se un figlio è stanco di abitare nella casa dei genitori, gli è forse lecito appiccarvi il fuoco, così da vederla distrutta e costringere la famiglia a cercarne un’altra? Solo un pazzo potrebbe dire che questo è amore della casa. E se il marito è stanco e insoddisfatto della moglie, gli è forse lecito picchiarla, costringerla a fuggire, magari ucciderla, così da riacquistare la propria libertà e assicurare ai figli, poniamo, una vita più tranquilla e serena? Di nuovo, solo uno squilibrato potrebbe affermare che quel marito ha agito per amore della famiglia. Evidentemente, c’è un limite anche alla concezione soggettiva dell’amore: che sia l’amore della famiglia o quello della Patria, che è una famiglia più grande. Eppure, in Italia – e solo in Italia, a quel che ci risulta – esiste una cultura che avalla l’idea che sia meglio incendiare la casa e ammazzare la moglie, purché gli altri stiano meglio e riacquistino la loro libertà. Solo in Italia, infatti, chi tradisce la Patria in guerra, e si augura la sua disfatta, e, magari, si dà da fare perché ciò avvenga più in fretta, ma senza esporsi né rischiare nulla, piuttosto pugnalando alla schiena i propri connazionali che lottano e rischiano la vita ogni giorno: solo in Italia, dicevamo, una simile concezione dell’amor di Patria viene presa per buona, e può essere sostenuta a testa alta, con l’aria di chi merita ammirazione e gratitudine, perché è anche per merito suo che la Patria ha riacquistato la sua libertà. La guerra perduta, naturalmente, è la Seconda guerra mondiale; il regime che meritava di essere abbattuto ad ogni costo, il fascismo; e gli amanti della Patria che hanno desiderato la sconfitta del proprio Paese, e che si sono adoperati a favore del nemico perché ciò accadesse, sono gli ammiragli, i generali, i finanzieri, gli industriali, i massoni e i monsignori che dal 1940 al 1943 hanno fatto del loro meglio, o magari del loro peggio, per mettere in opera il loro sedicente amor di Patria, ricevendo poi, a cose fatte, ogni sorta di premi e onorificenze.
Nero su bianco, l’ammiraglio Franco Maugeri, che fu capo dell’ufficio informazioni della Marina durante la guerra, ha scritto queste terribili parole in un suo libro di memorie (peraltro pubblicato in inglese negli Stati Uniti, che furono prodighi di riconosciuti per i suoi “servizi” (quali?) e non tradotto in Italia: forse per decenza, forse per prudenza: Più uno amava il suo Paese, più doveva pregare per la sua sconfitta sul campo di battaglia. Qualunque ufficiale che abbia il senso dell’onore, qualunque soldato, qualunque cittadino, dovrebbe fremere di raccapriccio e di disgusto davanti a una simile improntitudine: amare il proprio Paese significa augurarsi la sua sconfitta in guerra? E non in una guerricciola secondaria o in qualche spedizione coloniale, ma in una guerra totale, decisiva, dalla quale dipendeva il suo futuro, la sua stessa sopravvivenza come nazione sovrana e indipendente. In nessun altro Paese normale, né in Francia, né in Gran Bretagna, né in Germania, né negli Stati Uniti, né in Russia, simili parole sarebbero state tollerate; in ciascuna di queste nazioni, chi le avesse scritte o pronunciate avrebbe anche firmato, con ciò stesso, il proprio bando perpetuo dalle persone d’onore, dai veri amanti della Patria. Perché il concetto dell’amor di Patria non può essere deformato e capovolto sino a questo punto: sino al punto di desiderare che la propria Patria sia sconfitta, schiacciata, distrutta sotto un diluvio di bombe, che le sue donne siano stuprate, che i suoi soldati, marinai e aviatori siano massacrati, e che il nemico pianti la sua bandiera sopra le macerie fumanti, e di parteggiare per gli invasori, sostenendo, nondimeno, di essere i veri patrioti, i più sinceramente pensosi dei destini  e del bene della Patria. Perché i casi sono due: o il mondo si è capovolto, oppure chi si augura la sconfitta del proprio Paese e tresca con il nemico, non è altro che uno spregevole traditore, un individuo abietto; e ciò vale anche nel caso che il regime al potere non incontri il personale gradimento di costui, per ragioni più o meno legittime.
Scriveva Antonino Trizzino nel suo famoso saggio Navi e poltrone, la cui pubblicazione gli costò un processo per diffamazione da parte degli ammiragli da lui chiamati in causa e dallo stesso Ministero della Difesa, risoltosi con una condanna in primo grado e una assoluzione in appello (Milano, Longanesi & C., 1952, pp. 169, 185-187):

Era evidentemente in malafede l’Ufficio Informazioni quando rassicurava l’ammiraglio Jachino [il quale si era lamentato che le informazioni relative alle prossime operazioni in mare trapelavano all’esterno con troppa facilità]. Il suo capo, l’ammiraglio Maugeri, sapeva bene come stavano le cose: infatti, a guerra finita, nel suo libro di memorie pubblicato in lingua inglese “From the Ashes of Disgrace”, egli ha rivelato che l’ammiragliato britannico contava tra gli ammiragli italiani e nello stesso ministero della marina persone devotissime, sulle quali poteva fare il massimo affidamento, non vedendo esse l’ora di finire comunque la guerra, per liberare l’Italia dal fascismo.  C’era anche lui nel numero di quelli che volevano la fine a tutti i costi e con qualsiasi mezzo? Non posiamo dirlo, ma è certo che egli fu ricompensato con la decorazione americana “Legion of Merit”, che porta sul petto, in riconoscimento dei meriti acquisito appunto mentre era capo dell’Ufficio operazioni. […]
“L’inverno 1942-‘43” scrive Maugeri nel suo già citato “From the Ashes of Disgrace”, “trovò molti di noi, che speravano in un’Italia libera, di fronte a questa dura, amara, dolorosa verità:  non ci saremmo mai potuti liberare delle nostre catene, se l’Asse fosse stato vittorioso”. L’invasione angloamericana della Sicilia è appunto successiva alla stagione dei dubbi indicata dall’ammiraglio, già capo del servizio informazioni della marina. Ma anche gli avvenimenti precedenti l’inverno 1942-’43 non mostrano diversa ispirazione e sembra che il filo conduttore tra Genova e Pantelleria, Augusta e Matapan sia unico, forse generato da un concetto nuovo dell’amor di patria, diverso da come è stato inteso finora: “Più uno amava il suo Paese”, dice Maugeri, “più doveva pregare per la sua sconfitta sul campo di battaglia”. Richiamare indietro le nostre navi quando erano in condizioni di superiori forze; farle uscire in due quando avrebbero potuto andare in quattro; dirottarle quando potevano incontrare vittoriosamente la flotta inglese e trarle fuori di strada con notizie artefatte; farle viaggiare a velocità ridotta quando interessava, invece raggiungere il nemico il più presto possibile; mandarle contro navi da burla quando c’erano quelle vere da affrontare; Campioni amletico a Capo Teulada e Da Zara beffato dagli incrociatori fantasma nel canale di Sicilia; e ancora la grande battaglia che gl’inglesi fecero durante tre anni delle nostre navi mercantili, mandate su e giù per il Mediterraneo senza o con pochissima scorta e di cui spesso il nemico conosceva rotta e destinazione; l’acqua nella benzina che andava in Libia e le corazzate a Taranto ben esposte ai colpi del nemico; tutto ciò sembra rientrare in un’unica e coerente trama. Ora che si conosce il tradimento, di cui del resto nemmeno ammiragli che rivestivano posti di alta responsabilità fanno mistero, nessuno può più credere che anche i rovesci, attribuiti prima alla prudenza eccessiva o al caso, non abbiano avuto invece la stessa causa: non facciano parte, cioè, di un unico piano premeditato, nel quale perfettamente si inquadrano.
“Finire la guerra, non importa come”, proclama Maugeri, “a qualsiasi costo”.
Ammesso che si possa essere d’accordo con le teorie dell’ammiraglio, bisognava anche un po’ distinguere sul “non importa come”. Non si può scegliere proprio quel modo, il modo, cioè, di far morire ogni giorno migliaia di connazionali, di far distruggere il proprio paese pezzo per pezzo, quando si presenta un’altra alternativa, più rischiosa per chi ne prenda l’iniziativa, ma di efficacia più immediata. Difatti l’accesso a palazzo Venezia, sede del comandante supremo delle forze operanti, non era certamente precluso all’ammiraglio, come a nessun altro suo collega degli uffici di Supermarina, ed egli vi poteva essere ricevuto come e quando voleva. Inoltre, lo stesso comandante supremo, arbitro della continuazione della guerra, si recava spesso a bordo di navi a tenere discorsi e a distribuire medaglie. L’eliminazione del dittatore, invece di aspettare che fosse fatta dal re il 25 luglio, poteva dunque essere molto anticipata, risparmiando lutti e rovine. A un ammiraglio, come a qualsiasi altro soldato, si addice piuttosto la qualifica di congiurato che quella di traditore o di spia.
Ammettiamo per un momento anche quel “a qualsiasi costo”; ma se Maugeri amava veramente il suo paese, come diceva, doveva evitare di coprirlo di disonore. La scarsa considerazione in cui siamo tenuti oggi è un risultato dell’”amor di patria” di Maugeri e dei suoi soci. Oltre tutto, questo amor di patria era una cosa molto astratta, perché non abbracciava i connazionali, ai quali si chiedeva il sacrificio della vita, mentre l’ammiraglio e i suoi amici non esponevano la pelle né la propria carriera.

Quanto alla carriera, ricordiamo solo, per quanti non lo sapessero, che l’ammiraglio Maugeri, che ricevette dagli Stati Uniti la decorazione Legion of Metit “per la condotta eccezionalmente meritevole nel compimento di superiori servizi resi al governo degli Stati Uniti, in qualità di capo del servizio informazioni navali, come comandante della base navale di La Spezia e come capo di stato maggiore della marina militare italiana durante e dopo la seconda guerra mondiale" (e questo mentre i soldati semplici, nei campi di prigionia, subivano il trattamento di rigore se, dopo l’8 settembre 1943, rifiutavano di collaborare con gli ex nemici), ne ha fatta una estremamente brillante, dopo il rovesciamento delle alleanze e a guerra finita. Ammiraglio di divisione nel 1945, poi ammiraglio di squadra, infine capo di Stato maggiore della Marina nel 1947-48, per ricordare solo le tappe più prestigiose, e senza contare una vera pioggia di decorazioni e di medaglie, comprese quattro (quattro!) medaglie d’argento, e quattro (quattro!) medaglie di bronzo al valore militare, e due (due!) croci al merito di guerra. Doveva avere un petto molto ampio, l’ammiraglio Maugeri, per portare in giro tutta quell’argenteria; e una bella disinvoltura, pensando a quanti marinai, soldati e aviatori hanno sacrificato la vita per la Patria, e non hanno avuto alcuna medaglia o decorazione, forse perché, loro, non pensavano che l’importante fosse finire la guerra a qualunque costo e in ogni modo, purché la si perdesse, così che il fascismo cadesse e la libertà baciasse in fronte i destini della Patria; ma vollero battersi sino in fondo, con un eroismo silenzioso e rimasto ignoto, o peggio, screditato, andando incontro al loro destino senza pensare a riconoscimenti, promozioni e avanzamenti di carriera, coi relativi vantaggi economici.
E adesso lasciamo le malinconiche riflessioni sul passato, sui misteri delle notti di Taranto e di Matapan, sulla resa di Pantelleria e di Augusta, sulla mancata battaglia finale nel luglio del 1943, e veniamo al presente. La domanda che dobbiamo farci, ora che il concetto stesso di Patria è stato pressoché archiviato, è se l’amore per l’Italia sia ancora un concetto altamente soggettivo, e se ci siano ancora delle persone, magari annidate proprio nella classe dirigente e nei posti-chiave della sicurezza nazionale, le quali hanno un’idea talmente personale di cosa sia il bene dell’Italia, da essere disposte a parteggiare per dei soggetti esterni, pur di vedere eliminato il governo in carica, se risulta loro sgradito. A monte di questa domanda è se ci sia, in Italia, una cultura che privilegia i valori “universali” e i diritti civili, fino al punto di brandirli come clave contro quanti, invece, sono attaccati ai valori nazionali, alla tradizione, alla sovranità, alle radici storiche e alla religione dei padri. La risposta è affermativa: non solo esiste una tale cultura che si contrappone aggressivamente a quell’altra, che chiameremo, per capirci, nazionale; ma i suoi paladini si considerano i depositare del Bene in assoluto, quindi considerano una battaglia meritoria quella mirante a scalzare chi non la pensa come loro. Tradotto nella situazione politica odierna, ciò significa che esiste una forte concentrazione d’interessi, bramosa di veder spazzato via il governo Conte, reo di incarnare gli anti-valori del populismo e della xenofobia. Dal presidente Mattarella, il quale considera un dogma di fede l’adesione dell’Italia all’Unione europea, per quanto disastrosa essa si sia dimostrata per la nostra economia e il nostro tessuto sociale, al presidente dell’Inps, Boeri, che dichiara necessario far venire ancora più stranieri, fino ai vertici della Chiesa e del Partito democratico, favorevoli all’immigrazione indiscriminata e all’islamizzazione dell’Italia, esiste un blocco ideologico e sociale che ragiona esattamente come ragionava l‘ammiraglio Maugeri: poiché il governo oggi esistente non risponde alle sue simpatie politiche, prima esso cadrà, con qualsiasi mezzo (oggi non c’è bisogno di guerre guerreggiate, bastano le aggressioni finanziarie a colpi di spread), tanto meglio sarà. Chi ama davvero l’Italia, essi pensano, non può tollerare di vederla in mano a populisti e fascisti. Sono passati quasi ottant’anni dal 1940, ma nulla è cambiato, mio Dio: neppure le parole...