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Ma l’Australia è una nazione asiatica?

di Francesco Lamendola - 28/07/2018

Ma l’Australia è una nazione asiatica?

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

 

 

L’identità, e di conseguenza la collocazione geopolitica, di un popolo, di una nazione e di uno Stato, dipendono più dai fattori culturali o da quelli economici? Perché se risultasse che, alla lunga, e specialmente nel mondo di oggi, dominato dall’economia, prevalgono i fattori economici, allora le vecchie identità, basate quasi sempre su legami di tipo essenzialmente culturale, spirituale e affettivo, dovranno essere radicalmente riviste e modificate, e l’intero assetto del mondo, dalle nazioni più piccole alle più grandi, andrebbe rimesso totalmente in discussione, aprendo una fase di trasformazione e di instabilità, dagli esiti imprevedibili.

Non c’è alcun dubbio che i fattori economici, specie nel mondo contemporaneo, esercitano un forte influsso sulle vicende dei popoli e sulla stessa percezione che essi hanno del proprio destino. Per fare un esempio, tali fattori hanno giocato senza dubbio in ruolo notevole, forse decisivo, nel crollo del sistema comunista in Europa e nello smembramento della Iugoslavia, ed è possibile che ne giochino uno analogo riguardo al futuro del Belgio, diviso fra due componenti assai diverse, non solo a livello linguistico e culturale, ma anche economico, benché sia difficile stabilire un netto confine tra le due sfere (in Belgio circola questa battuta: nelle fabbriche della Vallonia c’è un cartello che dice: Qui si parla francese; nelle fabbriche delle Fiandre c’è un altro cartello con su scritto: Qui non si parla, si lavora). Però la sopravvivenza di uno Stato o la sua disgregazione, anche pacifica e perfettamente consensuale (come è accaduto nel caso della Cecoslovacchia) non riguarda la definizione della sua identità, ma il suo assetto esteriore, che, per quanto importante, è solo una parte della vita di una nazione e di un popolo. Quando si parla della ridefinizione dell’identità, si intende essenzialmente un “passaggio di civiltà”, vale a dire la trasformazione più profonda e radicale che sia dato immaginare: nulla, al confronto, è altrettanto significativo e, inevitabilmente, così definitivo. Tale è il caso in un popolo che viene assorbito da un altro popolo più grande (vedi, ad esempio, il destino dei Sorabi nella Germania orientale), o che si converte ad un’altra religione e ad un altro sistema di valori, come accadde ai Paesi del Vicino Oriente e del Nord Africa, già cristiani e bizantini, allorché vennero conquistati dagli arabi e furono gradualmente islamizzati. Nessun europeo, visitando l’Algeria o il Marocco di oggi, penserebbe, a meno che lo abbia studiato sui libri di storia, che quei Paesi erano, nel IV secolo, i più “romani” e i più cristiani del mondo occidentale, e che lì ebbero i natali uomini come sant’Agostino, perché quel passato è oggi del tutto scomparso, e solo delle rovine archeologiche ne fanno ancora testimonianza. Se è per questo, anche il turista odierno che si reca in vacanza a Pula, Rijeka o Zadar può ignorare che quelle città erano italianissime fino a settant’anni fa e si chiamavano Pola, Fiume e Zara; in questo caso, però, il passaggio di sovranità e la sostituzione di popolazione (l’esodo degli italiani e l’arrivo d’immigrati slavi) non è stato un vero passaggio di civiltà, perché la civiltà italiana e quella croata, pur con le debite differenze, erano e sono parte di una stessa identità, quella europea (e cattolica), mentre nel caso della Siria, dell’Egitto, del Nord Africa e, infine, dell’Asia Minore (l’odierna Turchia) il passaggio è stato dal cristianesimo e dall’Occidente all’islamismo e all’Oriente. Un altro passaggio di civiltà è stato quello dell’area dell’odierno Afghanistan e di alcune regioni che oggi fanno parte delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale: alla loro identità buddista si è sovrapposta quella islamica, che nel 2001, sotto il regime dei talebani, è culminata, anche visivamente, nella distruzione delle grandi statue dei Buddha di Bamiyan, giudicate idolatriche dai fondamentalisti e perciò meritevoli di sparire. Ebbene: quel che si sta delineando in questo principio del terzo millennio, è un possibile “passaggio di civiltà” di alcuni popoli e nazioni che, di fronte alle sfide della globalizzazione, dubitano di poter sopravvivere se non adattandosi al cambiamento e in un certo senso anticipandolo, cioè compiendo una fuga in avanti, così da non trovarsi “tagliati fuori” dai dinamismi geopolitici in sempre più rapida evoluzione e trasformazione.

A questo punto, il tema della ridefinizione della propria identità si intreccia con quello della paura di perdere le proprie radici, in un doppio movimento contrastante, di attrazione e repulsione verso quel futuro culturalmente indifferenziato che la globalizzazione sembra offrire a tutti i popoli della terra; cioè l’alternativa sembra che sia o rinunciare a essere quel che si è, per attrezzarsi meglio alle sfide economiche del futuro (ed è, in parte, la via intrapresa dagli Stati europei che hanno ceduto quote significative della loro sovranità per entrare a far parte dell’Unione europea, restando però nello stesso ambito di civiltà, immigrazione a parte) oppure arroccarsi a difesa delle proprie radici e tradizioni, condannandosi, però, almeno in apparenza, a esser gradualmente sorpassati dai grandi movimenti dell’economia e della finanza. Un caso piuttosto caratteristico è quello dell’Australia, un Paese-continente geograficamente isolato, che, dopo aver coltivato intensamente i propri legami con la madrepatria britannica per oltre due secoli, sembra trovarsi al bivio di un eventuale passaggio di civiltà: alcuni suoi leader e una parte, per adesso minoritaria, della popolazione guardano all’Asia come al loro naturale interlocutore del prossimo futuro, e pensano che restare legati alla monarchia lontana e non più imperiale monarchia inglese non gioverà alla difesa efficace dei loro interessi come nazione indipendente. E qui il tema della identità s’intreccia, a sua volta, con il tema dell’oicofobia, che riguarda un po’ tutti i Paesi occidentali.

Esistono due differenti significati della parola oicofobia, che oggi viene continuamente adoperata, a sproposito e a proposito. Il primo significato è quello inventato, o meglio reinventato, da Roger Scruton, nel Manifesto dei conservatori, ed esprime il timore di vedere invasa la propria “casa”, nel senso più ampio del termine, da elementi terzi, completamente estranei ad essa, con il rischio di perdere il proprio senso di appartenenza e d’identità, insieme a tutte le proprie sicurezze. Il secondo, coniato da Alain Finkielkraut nel libro L’identità infelice, indica, letteralmente, l’odio per la casa natale, e, nello stesso tempo, la tendenza a valorizzare le “differenze culturali”, cioè, in buona sostanza, a esaltare in maniera unilaterale, e forse esagerata, i meriti altrui, le benemerenze altrui, le civiltà diverse dalla propria, a tutto demerito di quella cui si appartiene. In questo secondo significato, l’oicofobia è realmente il grande male, il tumore devastante che sta conducendo a morte l’anima occidentale (usiamo la parola “occidentale” per amor di chiarezza, anche se non l’approviamo, perché, come abbiamo spiegato altre volte, si basa su di una semplificazione geopolitica e culturale che non trova riscontro nella realtà). Gli occidentali sono rosi da un segreto senso di colpa, da un cocente auto-disprezzo, da un distruttivo disamore di sé, che li porta a guardare con idealistica ammirazione a tutto ciò che viene dall’esterno e a che appare estraneo alla loro cultura; e quanto più appare estraneo, tanto meglio. Tradotto sul piano intellettuale, religioso, estetico, perfino giuridico, questo sentimento conduce inevitabilmente all’indebolimento sempre più grave, e infine condurrà alla morte, la civiltà di cui facciamo parte; anche se ci corre  l’obbligo di precisare, per l’ennesima volta, che la nostra vera civiltà è la civiltà cristiana e non la civiltà moderna, una anti-civiltà che ha preso il posto di quella e che ha cercato di cancellarne perfino le tracce, nella sua pretesa di rifare un mondo nuovo e di costituire un modello, insuperabile e perciò definitivo, per tutti i popoli e per tutte le culture. Modello che ora, appunto, è in crisi di identità.

Ha scritto in proposito il politologo americano Samuel P. Huntington nel suo ormai classico Lo scontro delle civiltà (titolo originale: The Clash oth Civilizations and the Remaking of World Order, 1966; traduzione dall’inglese di Sergio Minucci, Milano, Garzanti, 1997, 2000, pp. 218-223):

 

A differenza di Russia, Turchia e Messico, l’Australia è sempre stata,  sin dalle sue origini, una società occidentale. Per tutto il XX secolo è stata intimamente legata alla Gran Bretagna prima e agli Stai Uniti poi e durante la guerra fredda ha fatto parte non solo dell’Occidente ma anche della coalizione spionistico-militare britannico-americana-canadese-australiana che dell’Occidente era asse portante. All’inizio degli anni Novanta, tuttavia, i leader politici australiani decisero, in buona sostanza, che l’Australia dovesse staccarsi dall’Occidente e definire la propria identità come società asiatica e coltivare stretti legami con i propri vicini territoriali. L’Australia, dichiarò il suo primo ministro Paul Keating, non doveva più essere una “filiale dell’impero”, ma diventare una repubblica e puntare a “confluire” nell’Asia. Questo era necessario per la sua identità di Paese indipendente. “L’Australia non può presentarsi agli occhi del mondo come una società multiculturale, stabilire un legame convincente con l’Asia e contemporaneamente restare, almeno dal punto di vista costituzionale, un Paese marginale”. L’Australia, dichiarò Keating, ha sofferto innumerevoli anni di “anglofilia e torpore” e perpetuare l’associazione con la Gran Bretagna avrebbe avuto un effetto “debilitante sulla nostra cultura nazionale, sul nostro futuro economico e sul nostro destino in Asia e nel Pacifico”. Simili sentimenti furono espressi anche dal ministro degli Esteri Gareth Evans. La decisione di ridefinire l’Australia come un Paese asiatico si fondava sul presupposto che il destino delle nazioni viene forgiato molto più dall’economia che dalla cultura. L’incentivo maggiore è venuto dal dinamico sviluppo delle economie est-asiatiche, che ha a sua volta stimolato una rapida crescita degli scambi commerciali tra Australia e Asia. (…) Nonostante questi legami economici, tuttavia, non sembra che il tentativo di asianizzazione dell’Australia presenti alcuno dei prerequisiti necessari perché un Paese in bilico possa operare con successo un passaggio di civiltà. Innanzitutto, ancora nel 1995 la classe politica australiana non appariva affatto compattamente entusiasta di tale corso, e i leader del Partito liberale si mostravano viceversa perplessi o contrari. Forti critiche venivano al governo laburista anche da un ampio numero di intellettuali e giornalisti. In breve, non esisteva un consenso generale tra le élites di potere australiane. In secondo luogo, l’opinione pubblica ha mostrato un atteggiamento ambiguo. Dal 1987 al 1993, la percentuale di cittadini australiani favorevoli a porre fine alla monarchia era passata dal 21 al 46 per cento. Poi, però, il sostegno in tal senso iniziò ad affievolirsi e a scemare. (…) Terzo e più importante punto: le élite dei Paesi asiatici hanno esibito nei confronti delle proposte australiane una freddezza ancora maggiore di quella palesata dalle élite europee nei confronti della Turchia. Hanno affermato esplicitamente che per far parte dell’Asia, l’Australia dovrebbe diventare una nazione genuinamente asiatica, e ritengono ciò improbabile se non impossibile. (…) Gli asiatici sottolineano una contraddizione tra la retorica filo asiatica degli australiani e il loro stile di vita perversamente occidentale. (…) “Dal punto di vista culturale, l’Australia è ancora europea”, ha dichiarato nell’ottobre 1994 il primo ministro malaysiano Mahathir, “… noi pensiamo che sia europea”, e dunque l’Australia non dovrebbe entrare a far parte dell’Eaec, il comitato per l’economia dell’Asia meridionale. (…) Gli asiatici, in breve, sono fermamente  intenzionati a escludere l’Australia dal loro club per lo stesso motivo che spinge gli europei a escludere la Turchia dal proprio: sono diversi. Al primo ministro Keating piaceva dire  che avrebbe trasformato l’Australia da un Paese tagliato fuori ad uno “tagliato dentro” l’Asia. Il che è un controsenso: non si può essere “tagliati dentro”. Come ha affermato Mahatir, cultura e valori costituiscono i principali ostacoli all’unificazione tra Australia e Asia. Periodici scontri sorgono in merito all’adesione dell’Australia alla democrazia, alla difesa dei diritti umani, alla libertà di stampa, e alle loro proteste per le violazioni dei diritti perpetrate di fatto dai governi di tutti gli Stati limitrofi. “Il vero problema dell’Australia nella regione”, ha dichiarato un alto diplomatico australiano, “non sta nella nostra bandiera, ma nei nostri valori basilari. Credo che non esista un solo australiano disposto ad abbandonare uno soltanto di quei valori pur di essere accettato nella regione”. Non meno grandi sono le differenze di carattere, stile e comportamento. Come sostiene Mahatir, nel perseguire i loro obiettivi nei rapporti con gli altri, gli asiatici adottano generalmente un modo di fare sottile, indiretto, ambiguo, pragmatico, conciliante e non moralistico. Quello australiano, per contro, è il popolo più schietto, diretto, esplicito e – direbbe qualcuno – insensibile di tutto il mondo anglofono. Un simile scontro di cultura risulta in modo ancor più evidente negli atteggiamenti assunti dallo stesso Paul Keating con gli asiatici. Keating incarna le caratteristiche nazionali australiane elevate all’ennesima potenza. È stato descritto come un “politico ruvido”, dotato di uno stile “innatamente provocatorio e pugnace”. Egli stesso non ha esitato a etichettare i propri oppositori politici come una ‘massa di rifiuti umani’, ‘gigolò profumati’ e ‘pazzi criminali dal cervello bacato’. Nel suo perorare l’asianizzazione dell’Australia, Keating finiva immancabilmente con l’irritare, sbigottire e contrariare con la sua rude franchezza i leader politici asiatici. Il divario tra le due culture era così profondo da impedire al sostenitore della loro convergenza di accorgersi come il suo stesso comportamento fosse inviso ai suoi pretesi fratelli culturali.

 

Si può pensare che politici come il leader laburista australiano Paul Keating siano le avanguardie di un nuovo modo d’intendere la politica, che privilegerà sempre più i fattori economici a scapito di quelli culturali, e che, pertanto, non esiterà a por mano a un radicale progetto di trasformazione, fino a operare dei volontari passaggi di civiltà (mentre finora i passaggi di civiltà sono avvenuti sempre sotto la spinta di pressioni esterne dirette ed esplicite). In tal caso, l’Australia sarebbe un progetto-pilota che potrebbe essere imitato da altri, di sganciamento da una civiltà occidentale percepita come decadente e in crisi irreversibile, e di ingresso in un’altra sfera di civiltà, percepita come prestigiosa per i suoi successi economici (le “tigri asiatiche” in ascesa industriale e finanziaria). Per una serie di ragioni, soprattutto storiche e geografiche, il caso dell’Australia è un caso-limite, perché si tratta realmente di un Paese “in bilico” fra due alternative radicalmente diverse; e tuttavia, nel vertiginoso accorciarsi delle distanze, non solo spaziali, ma anche produttive e comunicative, del mondo contemporaneo, il suo esempio potrebbe essere significativo anche per altri popoli e nazioni che si trovano in posizione meno marginale. Intanto, prendiamo nota che il destino di tutti gli ex Dominions britannici presenta, in misura maggiore o minore, caratteristiche assimilabili a al caso australiano. A parte la Nuova Zelanda, ancor più isolata dell’Australia e quindi legata al suo stesso destino, il Sud Africa appare caratterizzato da una crescente apartheid alla rovescia (anche sei nostri mass media sono diventati improvvisamente ciechi, sordi e muti al riguardo, mentre prima, quando era rivolta a danno dei neri, ne parlavano continuamente), che costringerà i bianchi alla fuga e porterà alla completa africanizzazione di quel Paese - e, quasi certamente, a un regresso economico senza precedenti; mentre il Canada si trova in una posizione simile a quella dell’Australia, con la sola differenza che il suo vicino non è l’Asia, ma gli Stati Uniti, cioè una nazione affine per lingua, cultura, religione, valori, e che già fin da ora la sua economia è talmente integrata con quella statunitense, che si può parlare di una avvenuta fusione quasi perfetta. Se al posto degli Stati Uniti ci fosse stata l’Asia, il destino del Canada sarebbe stato un “passaggio di civiltà”. Resta però la domanda: si può operare un passaggio di civiltà con la stessa naturalezza con cui si opera una transazione commerciale internazionale, ad esempio la fusione tra la FIAT e la Chrysler? I popoli possono assoggettarsi volontariamente a siffatte trasformazioni, che, secondo ogni evidenza, se si verificano, sono definitive e non più reversibili?

Questi interrogativi, che sono molto seri perché riguardano il nostro destino e quello dei nostri figli e nipoti, ci riportano al caso dell’Europa. Anche se in un contesto storico, culturale e geopolitico totalmente diverso da quello australiano, l’Europa, negli ultimi decenni, sta vivendo una crisi di identità senza precedenti, aggravata da fattori economici (e demografici) regressivi, che hanno portato le sue élite alla conclusione che, per sopravvivere, essa deve unirsi in un solo blocco, in modo da poter competere con gli altri colossi internazionali, specialmente sul piano economico-finanziario. Ciò, tuttavia, ha portato a una progressiva riduzione del patrimonio identitario delle singole nazioni, le quali, a un certo punto, hanno percepito il pericolo, reale e imminente, di una perdita delle proprie radici e di una radicale alterazione della loro cultura, cioè, in definitiva, l’equivalente di un “passaggio di civiltà”. La sensazione si è rafforzata a causa delle politiche tenute dalle élite nei confronti del fenomeno delle migrazioni dall’Asia e soprattutto dall’Africa, che hanno preso, via, via, le dimensioni e le caratteristiche di una vera e propria invasione, sebbene, per ora, relativamente  incruenta (è di ieri la notizia che una massa di 600 africani ha scavalcato di forza la recinzione, alta sette metri, che separa l’enclave spagnola di Ceuta dal Marocco, entrando così in territorio dell’Unione europea). Ci sono poi molti altri segnali, grandi e piccoli, che preoccupano i popoli europei e fanno crescere la distanza fra il loro sentire e la politica delle loro élite. Le scene selvagge di furore e distruzione che si sono verificate in Francia dopo la vittoria ai mondiali di calcio della squadra nazionale “francese”, composta quasi tutta di africani, dicono la stessa cosa; per non parlare degli stupri etnici di Colonia del Capodanno 2016. Oicofobia: i popoli si sentono traditi dalle élite, clero compreso, e temono di perdere la loro identità. Non vogliono questo. Hanno torto?