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Dal Buon Selvaggio al Buon Parassita

di Francesco Lamendola - 17/08/2018

Dal Buon Selvaggio al Buon Parassita

Fonte: Accademia nuova Italia

 

Il mito del Buon Selvaggio è stato partorito dal cervello bacato dei philosophes del tardo XVIII secolo e fa da ponte tra illuminismo e romanticismo, il che vuol dire che è entrato di diritto fra gli elementi centrali e qualificanti della cultura moderna, in cui si è vittoriosamente insediato e dalla quale non è stato più sloggiato, né con le buone, né con le cattive. È stato creato in buona parte con materiali da risulta e specialmente con l’idea di Rousseau che l’uomo è buono finché la civiltà non lo guasta, ragion per cui il ginevrino ha scritto il suo famoso trattato pedagogico, l’Emilio, in cui teorizza che l’ideale sarebbe educare un bambino lontano dalla civiltà, e solo quando gli sono stati inoculati gli anticorpi ed è un po’ cresciuto, gli si può permettere di andare a vivere in mezzo al frastuono dei suoi simili. In questa idea entra parecchio anche il nascente senso di colpa per ciò che gli europei facevano nel corso delle loro conquiste coloniali: mano a mano che si consolidavano gli imperi, soprattutto quelli sostanzialmente “virtuosi” della Francia e soprattutto della Gran Bretagna (mentre quelli iberici, e specialmente quello spagnolo, erano il Male per eccellenza, forse perché troppo esplicitamente cattolici), i philosophes sentivano il bisogno di esorcizzare il rimorso per i genocidi, le spoliazioni e il fiorente commercio degli schiavi (la tratta atlantica) inventandosi l’immagine di un uomo primitivo tutto bontà, gentilezza e delicatezza, tutto onestà e innocenza, e perfino pudore e continenza. Si vedano i romanzi René e Atala di François René de Chateaubriand, che pure non era uno stupido né un mediocre scrittore, a differenza di Bernardin de Saint Pierre e del suo zuccheroso e insulso Paolo e Virginia: quando si dice la potenza del condizionamento culturale.

Ora, sia il senso di colpa, sia l’idealizzazione del primitivo, hanno messo radici al punto che, oggi, sono divenuti parte essenziale della cultura politically correct. Che qualcuno si provi, per esempio, a ricordare che le società dell’America precolombiana non erano dei paradisi di bontà, mitezza e tolleranza, e che i sacrifici umani praticati su larghissima scala erano il loro pane quotidiano: subito scatteranno in piedi dieci, cento signori del politicamente corretto, e cominceranno ad abbaiare: e che, si vuol forse riabilitare i conquistadores spagnoli e la santa Inquisizione? Oppure, che qualcuno osi ricordare il cannibalismo dei maori, i quali mettevano in pentola i navigatori europei dopo averli blanditi e circuiti con mille moine e gentilezze: ecco che i cani da guardia dell’ortodossia culturale si metteranno a ringhiare che è inaudito, che si vuol far passare i carnefici (europei) per vittime, e le vittime (i buoni selvaggi) per carnefici: un indegno capovolgimento storico e morale. Se, poi, per caso, qualcuno osa ricordare che la schiavitù dei negri era praticata su scala industriale anche dagli arabi; o che gli Stati africani indipendenti sorti dal crollo del colonialismo hanno mostrato quali fossero le attitudini di quei popoli a vivere in pace e armonia fra di loro; se qualcuno, per esempio, si permette di citare un film come Africa addio, di Jacopetti e Prosperi (che non è affatto un inno al colonialismo o al razzismo, ma semplicemente una denuncia di quel che è accaduto in Africa quando il colonialismo è finito), certamente quei signori si stracceranno le vesti ed esclameranno, con la bava alla bocca (perché somigliano moltissimo, nella loro ipocrisia, ad Anna e Caifa e ai farisei del Sinedrio: Basta! Qui si pretende di riscrivere la storia in senso eurocentrico e razzista! Qui si vuol riabilitare il fascismo! (il fascismo c’entra sempre, è durato solo vent’anni ma da ottanta serve quale testa di turco per tutte le anime belle desiderose di sfogare la loro sacra indignazione: il che dimostra che, se non ci fosse stato, qualcuno se lo sarebbe dovuto inventare, altrimenti di che cosa camperebbero i Martina, i Delrio, i Grasso, le Boldrini, eccetera, eccetera?); ma noi non lo permetteremo. Noi li conosciamo, questi revisionisti, questi xenofobi travestiti da storici, questi populisti che si spacciano per studiosi obiettivi, e non gliela faremo passare liscia! Detto, fatto: in Europa, un parlamento dopo l’altro ha approvato leggi liberticide che prevedono la prigione per quanti osano incrinare i dogmi del politicamente corretto; e le terribili imputazioni di incitamento all’odio razziale, di razzismo e antisemitismo, pendono come una spada di Damocle su chiunque si permetta di entrare nel recinto riservato e monopolizzato dalla cultura progressista e di sinistra, e, più di recente, da quella cattolica progressista e di sinistra: vedi i Melloni, i Riccardi, e, da ultimo, i Cardini, che uniscono un amore smisurato e veramente commovente per gli ultimi, i diversi, i ”più deboli” (anche se poi non sono tali)  ad un astio, un’acredine, una insofferenza quasi patologica per quanti non condividono le loro opinioni, specialmente a proposito dell’atteggiamento da tenere verso i cosiddetti migranti e, quindi, il giudizio che essi danno, nella loro infallibilità e sovrana bontà (perché sono i Buoni per antonomasia) sul pontificato del signor Bergoglio.

Alla voce buon selvaggio, ecco cosa dice, per esempio, Wikipedia:

 

“Buon selvaggio” è la denominazione di un mito basato sulla convinzione che l'uomo in origine fosse un "animale" buono e pacifico e che solo successivamente, corrotto dalla società e dal progresso, diventasse malvagio. Nella cultura del Primitivismo del XVIII secolo, il "buon selvaggio" era considerato più lodevole, più autenticamente nobile dei prodotti dell'educazione civilizzata. Nonostante l'espressione "buon selvaggio" fosse già comparsa nel 1672 in La conquista di Granada di John Dryden (1672), la rappresentazione idealizzata di un "gentiluomo della natura" fu un aspetto caratteristico del Sentimentalismo del secolo successivo. Il concetto di "buon selvaggio" si rifà a un'idea di umanità sgombra dalla civiltà: la normale essenza di uomo senza impedimenti. Poiché tale concetto incarna la convinzione che senza i freni della civilizzazione gli uomini siano essenzialmente buoni, le sue fondamenta giacciono nella dottrina della bontà degli esseri umani, espressa nel primo decennio del Settecento da Anthony Shaftesbury, che incitava un aspirante autore “a cercare quella semplicità dei modi, e quel comportamento innocente, che era spesso noto ai meri selvaggi; prima che essi fossero corrotti dai nostri commerci” (Advice to an Author, Part III). La sua opposizione alla dottrina del peccato originale, figlia dell'atmosfera ottimistica dell'Umanesimo rinascimentale, venne raccolta da un suo coevo, il saggista Richard Steele, che attribuiva la corruzione dei comportamenti contemporanei a un'educazione falsa. Il concetto di buon selvaggio ha connessioni speciali in particolare con il Romanticismo e con la filosofia romantica e illuminista di Jean-Jacques Rousseau. (…) L'idea del "buon selvaggio" può essere servita, in parte, come tentativo di ristabilire il valore degli stili di vita indigeni e delegittimare gli eccessi imperialistici, definendo gli uomini "esotici" come moralmente superiori, in modo da controbilanciare le inferiorità politiche ed economiche percepite.

 

Come si vede, si tratta di un mare magnum nel quale c’è posto per tutti, purché non siano europei e purché non siano cristiani, specialmente cattolici: da Pocahontas a Che Guevara, da Ho Chi Min alla ragazza dalla pelle di luna del film omonimo, che poi sarebbe Zeudi Araya, e da Tippu Tib ai falsi lama tibetani inventati da Lobsang Rampa, al secolo Cyril Henry Hoskin, figlio di un idraulico del Devon, che in Asia non è mai stato, ma in compenso ha venduto più libri sul Tibet di tutti i veri lama tibetani messi insieme. Ora, però, grazie appunto ai cattolici “sinistri”, e specialmente al loro grande capo, patrono e ispiratore, il signore argentino che siede, indegnamente, sulla cattedra di San Pietro, ecco che la saga del Buon Selvaggio, dopo quella del Buon Rivoluzionario, termine coniato a suo tempo dal sociologo venezuelano Carlos Rangel (vedi il nostro articolo: Quando L. A. De Bougainville sbarca a Tahiti e s’imbatte… nel “buon selvaggio” di Rousseau, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 02/12/17), si arricchisce di una nuova puntata: quella del Buon Parassita. Il merito – si fa per dire - è tutto del quotidiano della C.E.I., L’Avvenire, del suo direttore Marco Tarquinio e del presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, il quale ha firmato l’editoriale (cosa che la dice lunga su quanto “pesi” nella Chiesa, oggi, la Comunità di Sant’Egidio), il quale ha ritenuto cosa buona e giusta lanciare un ulteriore, ennesimo affondo contro il ministro del’Interno, Matteo Salvini, reo, in questo caso, di voler sgombrare i campi rom abusivi di Roma e di altre parti d’Italia. Salvini, dopo un incontro con Virginia Raggi per decidere lo sgombero del campo romano denominato River Village, e mentre il presidente Mattarella, guarda caso, si produceva nell’ennesimo intervento buonista per mettere in guardia contro il razzismo e le discriminazioni contro i rom (che perfetto tempismo: un imbecille aveva sparato con un fucile ad aria compressa e ferito una bambina rom), aveva dichiarato:

 

Le presenze in Italia dei rom superano le 150 mila persone e sono solo circa 30 mila quelli che vivono nella illegalità nei campi, probabilmente spinti da chi ci guadagna. (…) Il problema è chi si ostina a vivere nella illegalità, questa sacca di minoranza e parassitaria, potrebbero anche essere svedesi o esquimesi. Nessuna discriminazione contro i rom, semplicemente parità di diritti e di doveri: bruciare cose con roghi tossici, non fa parte della legalità, le auto vanno assicurate, i bambini portati a scuola e va fatta la dichiarazione dei redditi.

 

Più che razzismo, sembrerebbero parole di buon senso; macché: non avesse mai usato l’aggettivo parassitario; a Tarquinio e a Impagliazzo quel passaggio non è proprio andato giù, è rimasto loro in gola e, per sputarlo, insieme a una buona dose di ideologia del Buon Selvaggio nella versione aggiornatissima della fine di luglio 2018, hanno tenuto a battesimo la nuova puntata della saga: quella del Buon Parassita. Ecco, infatti, Impagliazzo che scrive un editoriale di fuoco sul quotidiano dei vescovi, in prima pagina e col titolo a caratteri cubitali: Ma nessun uomo è mai un “parassita”:

 

(…) lascia perplessi il linguaggio di un importante ministro della Repubblica a proposito di una minoranza variegata presente in Italia da tempo, quella dei rom (mi si perdoni la semplificazione). Parlare, come ha fatto ieri il ministro Salvini, in sorprendente risposta a un efficace intervento del presidente Mattarella che ricordava le persecuzioni subite da questa minoranza a causa delle leggi razziste del 1938, di «30.000 persone che si ostinano a vivere nell’illegalità» definendoli «sacca parassitaria», suona pregiudiziale verso un’intera comunità, oltre che non corrispondente alla realtà. Forse ci si è dimenticati che la definizione «parassiti» nella storia del Novecento è stata utilizzata per gli ebrei, quando venivano accusati di praticare l’usura. Chi conosce la storia sa che da questa e altre definizioni si è passati a emarginare e poi considerare nemica quella minoranza con le conseguenze tragiche che sappiamo. Fosse soltanto per questo, mentre facciamo memoria degli ottant’anni delle leggi razziste, quest’espressione va bandita quando si parla di persone…

 

Ragionamento ammirevole e ineccepibile dal punto di vista del politically correct: i nazisti definivano parassiti gli ebrei; Salvini definisce parassiti alcuni rom; dunque Salvini è un nazista e chiunque usi questo linguaggio, che lo sappia o no, sta evocando e auspicando un nuovo Olocausto. Complimenti, sia suo piano storico che su quello logico-filosofico: Aristotele sorriderebbe compiaciuto per un uso tanto abile stringente del sillogismo e del principio di non contraddizione. Da parte sua, uno dei redattori del sito Inter multiplices, una vox, L. P., ha osservato argutamente in un articolo intitolato Avvenire e il buon parassita (pubblicato all’inizio di agosto 2018):

 

Giorni or sono (…) l’organo stonato della CEI, se ne uscì con un commento col dire che “Nessun uomo è mai un parassita”, evidente essendo l’intento di trasformare, con un procedimento cultural - alchemico, la realtà di un’etnìa che largamente si qualifica per comportamenti exlege, in modello di efficientismo sociale ed economico. Affermare, per l’appunto, che nessun uomo è mai un parassita vuol decisamente dire che, per il fatto di “essere persona”, anche uno stile di vita, connotato da attività illecite o da abulìa  – e le prove a sostegno di sì evidente realtà sono innumeri – va riconosciuto come segno di un oggettivo valore. Ora, il gran cuore di Tarquinio, colmo di buonismo e di filantropìa, scosso da viva e agitata voglia di un’accoglienza a prescindere, non solo smentisce e rifiuta il dizionario e la storia e, nella presente contingenza di cronaca, il ministro dell’Interno on.le Matteo Salvini – colui che ha ordinato lo sgombero del campo – ma cancella l’autorità di  San Paolo il quale, in 2Ts. 3,10b – 13 così ammaestra: “ Chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo, infatti, che alcuni di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù, di mangiare il proprio pane lavorando in pace”. (…). Siamo allo stravolgimento della parola di Dio a pro’ di una zuccherosa pastorale infarcita di antropologismo a rimorchio d’una cultura – accoglienza a prescindere – che ritiene buono, onesto ogni uomo visto nella prospettiva della nuova e tossica teologìa – quella del CV2 – che impasta e molazza pelagianesimo, angelismo cartesiano, massoneria, Comunità egidiana e Georges Soros nello sfondo ideologico russoiano di una natura umana incorrotta.

 

Rimandiamo alla lettura integrale dell’articolo, ripreso anche da altri siti, come Acta apostaticae Sedis, scusandoci se, per motivi di spazio, abbiamo saltato alcuni passaggi del ragionamento svolto dall’Autore. Il senso, però, è chiaro: i Tarquinio, i Galantino, i Bassetti, i Riccardi, non sono cattolici, ma seguaci di una nuova religione, la religione del Concilio Vaticano II. Quando qualcosa, nella dottrina cattolica, concorda con tale nuovissima religione, allora tutto bene; quando, invece, ci s’imbatte in qualcosa che, ahimè, non concorda, si fa finta di niente e si va oltre, senza batter ciglio, sostenendo e facendo esattamente il contrario di quel che c’è scritto nelle Scritture e che tramanda la Tradizione. L’esempio, del resto,viene dall’alto: il paragrafo 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica, quello sulla pena di morte, non piace al signore argentino? Nessun problema: quell’articolo si cambia, così, su due piedi, con un signorile tratto di penna (signorile nel senso etimologico del termine: come facevano i signori, o i tiranni, dell’ancien régime). E chi se ne frega delle opinioni di San Tommaso d’Aquino, di Santa Caterina da Siena (la quale di condannati a morte un po’ se ne intendeva, visto che li assisteva e li accompagnava fino al patibolo, convertendoli e aiutandoli a ritornare in grazia di Dio prima dell’estremo passo, e facendo piangere di commozione e di edificazione tutta la folla) e del Magistero dei duecentosessantacinque papi venuti prima di Bergoglio.

In che cosa consiste la disonestà intellettuale de L’Avvenire? Nell’aver confuso, volutamente – perché stiamo parlando, comunque, di persone intelligenti e tutt’altro che sprovvedute - il piano morale e il piano sociologico. Sociologicamente parlando, non c’è alcun dubbio che parassitismo è la sola parola idonea a descrivere il modo di vivere di quelle persone. Moralmente, si sa, per il cristiano ogni vita umana è preziosa, unica, “sacra”… Questo però non significa che ogni uomo abbia il diritto di vivere nel disprezzo delle leggi, o, appunto, nella pratica abituale del parassitismo (furto e accattonaggio), solo perché la persona possiede una dignità intrinseca. Se uno è un mascalzone, come essere umano va rispettato, ma come mascalzone va debitamente punito. Questo è parlar chiaro e ragionare senza sofismi. Non è lecito giocare sull’ambiguità. Altrimenti, se ne potrebbe ricavare che la prostituta va rispettata nell’esercizio del suo mestiere, mentre va rispettata come persona, ma non è rispettabile il mestiere che svolge. Oppure si potrebbe considerare degno di rispetto il ladro di professione, il mafioso, lo spacciatore di droga: mentre sono rispettabili in quanto esseri umani, ma non è rispettabile il modo in cui si guadagnano da vivere. E se la misericordia di Dio può perdonare qualsiasi peccatore (purché si penta: e questo è un dettaglio che i cattolici alla Bergoglio trascurano del tutto), la giustizia umana non solo non può, ma non deve perdonare, perché il suo compito è difendere gli onesti dalle violenze e dagli inganni dei disonesti, e, per farlo, deve servirsi della forza, cioè punire. E chi non è d’accordo, lo dica chiaro e tondo: e allora si capirà che costui non è una persona “buona”, ma “buonista” cioè un falsificatore del concetto di bontà. Una persona che, lo sappia o no, è disposta a lasciare indifesi gli onesti e a schierarsi, sempre e comunque, dalla parte dei violenti e dei disonesti: con il misero argomento che essi sarebbero (ma il condizionale è d’obbligo, viste le case e le automobili di certi rom) gli ultimi