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Non sarà la crescita del Pil a fermare il crollo dei ponti

di Maurizio Pallante - 21/08/2018

Non sarà la crescita del Pil a fermare il crollo dei ponti

Fonte: Maurizio Pallante

Da grande giornalista qual è, Ezio Mauro non avrebbe potuto descrivere meglio di quanto ha fatto nell’editoriale pubblicato da Repubblica il 17 agosto, la percezione che l’opinione pubblica italiana ha del sistema di potere, di cui una forza politica del tutto estranea sta scoperchiando senza nessuna soggezione gli altarini nascosti: «un insieme fradicio e marcio di élite, baronie, vecchi partiti, istituzioni e poteri economici e finanziari forti». Naturalmente le cose non stanno così. Questa è soltanto la rappresentazione che ne viene data dai suoi avversari populisti strumentalizzando l’emotività popolare suscitata dal crollo del ponte Morandi a Genova. Tuttavia, pur non essendo possibile negare che una gestione più attenta alla sicurezza degli utenti dell’autostrada e dei cittadini che abitano nelle case sottostanti avrebbe probabilmente potuto evitare non solo questa tragedia, ma anche i danni economici che ne derivano al porto di Genova e alla viabilità urbana, la sua saggezza di commentatore super partes, lo induce a mettere in evidenza la frettolosità e la strumentalità delle critiche rivolte ai gestori della Società Autostrade, «che non può diventare il capro espiatorio di processi sommari con riti di piazza». E a non sottacere le responsabilità degli altri soggetti politici che si dichiarano «perennemente estranei al sistema anche quando si siede al suo vertice, governandolo da Palazzo Chigi». Da ben 2 mesi. O guidano il governo regionale da ben tre anni.

Tutto questo avviene, scrive Ezio Mauro, soltanto perché non crediamo più al progresso. Anzi ne abbiamo addirittura paura. Non abbiamo più «qualcosa da progettare e costruire insieme, a cui guardare e in cui sperare per noi e per i nostri figli». Come non condividere queste perle di saggezza? In conseguenza dell’effetto serra la temperatura della Terra sta aumentando molto più di quanto è stato concordato al termine della Cop 21, a Parigi nel dicembre del 2015. Ed era già più del doppio di quanto è aumentata nel secolo scorso, mettendo in moto i cambiamenti climatici di cui stiamo sentendo i primi effetti devastanti. Nel 2017 il giorno in cui l’umanità è arrivata a consumare le risorse rinnovabili che la Terra rigenera nel corso di un anno è stato il 1 di agosto. Nel 2016 era stato il 9 agosto, nel 2015 il 15 agosto, dieci anni prima il 15 settembre. Negli oceani galleggiano masse di poltiglia di plastica grandi come continenti, mentre il numero dei pesci si è dimezzato. La fertilità dei suoli agricoli e la biodiversità si sono ridotte drasticamente. Le tensioni internazionali per controllare le fonti energetiche fossili si acuiscono. I popoli poveri deprivati del necessario per sostenere la crescita economica dei popoli ricchi alimentano flussi crescenti di migranti. Questi sono i fenomeni che «hanno consumato anche l’idea di futuro». E sono fenomeni talmente evidenti che non vengono visti soltanto da coloro che non vogliono vedere. Dio acceca quelli che vuol perdere, ha scritto il profeta Isaia.

Ezio Mauro non li vede. Per lui l’idea di futuro non si è consumata per questi fatti oggettivi, ma «in parte per colpa della crisi che si è mangiata la crescita» (birbona!), «in parte per colpa nostra (nostra: di chi?, del sistema di potere? Ndr.) perché abbiamo ascoltato per troppo tempo i pifferai della decrescita». A parte il fatto che non li ha ascoltati nessuno, ma ogni tanto qualcuno si è limitato a deriderli, la crescita non è ripartita perché qualcuno che, come vox clamantis in deserto, si è permesso di prospettare la necessità della decrescita per attenuare sia la crisi ecologica, sia la crisi economica. La crescita non è ripartita perché i suoi sostenitori, il sistema di potere di cui sopra, non sono stati capaci di farla ripartire pur manovrando, a differenza dei sostenitori della decrescita, tutte le leve del potere. Abbiano l’onestà intellettuale di assumersene la responsabilità. Il fatto è che agiscono con strumenti spuntati, che sono stati validi in passato, ma non hanno futuro. Non sono stati capaci perché non è «la crisi che si è mangiata la crescita», ma perché la crescita è la causa della crisi, in quanto le innovazioni tecnologiche finalizzate ad aumentare la produttività aumentano l’offerta di merci, ma, riducendo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto, se non si riduce l’orario di lavoro riducono l’occupazione e, quindi, la domanda.

Quanto alla decrescita, è mai possibile che si continui a confonderla con la recessione? La recessione è la diminuzione generalizzata e incontrollata di tutta la produzione di merci. La sua conseguenza più grave è la disoccupazione. La decrescita è la riduzione selettiva e governata della produzione di merci inutili o dannose. La sua conseguenza migliore è la crescita di un’occupazione utile, che paga da sé i suoi costi d’investimento. Invece di buttare fiumi di denaro pubblico in un’opera che non ripagherà mai i suoi costi perché non risponde a un bisogno reale, come il TAV, non sarebbe meglio ristrutturare la rete idrica esistente, che perde il 65 per cento dell’acqua che trasporta? La riduzione degli sprechi d’acqua, oltre a rispondere a un bisogno reale, crea un’occupazione ancora maggiore e genera dei risparmi economici che in un certo numero di anni ammortizzano i costi d’investimento. Lo stesso avverrebbe non investendo nel TAP, ma nella riduzione dei consumi energetici che si possono ottenere ristrutturando edifici che disperdono a causa della pessima coibentazione fino al settanta per cento dell’energia che si usa per riscaldarli. Lo stesso avverrebbe con il recupero delle materie prime secondarie contenute negli oggetti dismessi che oggi si bruciano o si sotterrano. Questo è l’unico modo di rilanciare la «vecchia idea di progresso» perché questo è il progresso di cui abbiamo bisogno e l’unico progresso possibile, in grado di attenuare sia la crisi economica, sia la crisi ambientale.

 

 

Da grande giornalista qual è, Ezio Mauro non avrebbe potuto descrivere meglio di quanto ha fatto nell’editoriale pubblicato da Repubblica il 17 agosto, la percezione che l’opinione pubblica italiana ha del sistema di potere, di cui una forza politica del tutto estranea sta scoperchiando senza nessuna soggezione gli altarini nascosti: «un insieme fradicio e marcio di élite, baronie, vecchi partiti, istituzioni e poteri economici e finanziari forti». Naturalmente le cose non stanno così. Questa è soltanto la rappresentazione che ne viene data dai suoi avversari populisti strumentalizzando l’emotività popolare suscitata dal crollo del ponte Morandi a Genova. Tuttavia, pur non essendo possibile negare che una gestione più attenta alla sicurezza degli utenti dell’autostrada e dei cittadini che abitano nelle case sottostanti avrebbe probabilmente potuto evitare non solo questa tragedia, ma anche i danni economici che ne derivano al porto di Genova e alla viabilità urbana, la sua saggezza di commentatore super partes, lo induce a mettere in evidenza la frettolosità e la strumentalità delle critiche rivolte ai gestori della Società Autostrade, «che non può diventare il capro espiatorio di processi sommari con riti di piazza». E a non sottacere le responsabilità degli altri soggetti politici che si dichiarano «perennemente estranei al sistema anche quando si siede al suo vertice, governandolo da Palazzo Chigi». Da ben 2 mesi. O guidano il governo regionale da ben tre anni.

Tutto questo avviene, scrive Ezio Mauro, soltanto perché non crediamo più al progresso. Anzi ne abbiamo addirittura paura. Non abbiamo più «qualcosa da progettare e costruire insieme, a cui guardare e in cui sperare per noi e per i nostri figli». Come non condividere queste perle di saggezza? In conseguenza dell’effetto serra la temperatura della Terra sta aumentando molto più di quanto è stato concordato al termine della Cop 21, a Parigi nel dicembre del 2015. Ed era già più del doppio di quanto è aumentata nel secolo scorso, mettendo in moto i cambiamenti climatici di cui stiamo sentendo i primi effetti devastanti. Nel 2017 il giorno in cui l’umanità è arrivata a consumare le risorse rinnovabili che la Terra rigenera nel corso di un anno è stato il 1 di agosto. Nel 2016 era stato il 9 agosto, nel 2015 il 15 agosto, dieci anni prima il 15 settembre. Negli oceani galleggiano masse di poltiglia di plastica grandi come continenti, mentre il numero dei pesci si è dimezzato. La fertilità dei suoli agricoli e la biodiversità si sono ridotte drasticamente. Le tensioni internazionali per controllare le fonti energetiche fossili si acuiscono. I popoli poveri deprivati del necessario per sostenere la crescita economica dei popoli ricchi alimentano flussi crescenti di migranti. Questi sono i fenomeni che «hanno consumato anche l’idea di futuro». E sono fenomeni talmente evidenti che non vengono visti soltanto da coloro che non vogliono vedere. Dio acceca quelli che vuol perdere, ha scritto il profeta Isaia.

Ezio Mauro non li vede. Per lui l’idea di futuro non si è consumata per questi fatti oggettivi, ma «in parte per colpa della crisi che si è mangiata la crescita» (birbona!), «in parte per colpa nostra (nostra: di chi?, del sistema di potere? Ndr.) perché abbiamo ascoltato per troppo tempo i pifferai della decrescita». A parte il fatto che non li ha ascoltati nessuno, ma ogni tanto qualcuno si è limitato a deriderli, la crescita non è ripartita perché qualcuno che, come vox clamantis in deserto, si è permesso di prospettare la necessità della decrescita per attenuare sia la crisi ecologica, sia la crisi economica. La crescita non è ripartita perché i suoi sostenitori, il sistema di potere di cui sopra, non sono stati capaci di farla ripartire pur manovrando, a differenza dei sostenitori della decrescita, tutte le leve del potere. Abbiano l’onestà intellettuale di assumersene la responsabilità. Il fatto è che agiscono con strumenti spuntati, che sono stati validi in passato, ma non hanno futuro. Non sono stati capaci perché non è «la crisi che si è mangiata la crescita», ma perché la crescita è la causa della crisi, in quanto le innovazioni tecnologiche finalizzate ad aumentare la produttività aumentano l’offerta di merci, ma, riducendo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto, se non si riduce l’orario di lavoro riducono l’occupazione e, quindi, la domanda.

Quanto alla decrescita, è mai possibile che si continui a confonderla con la recessione? La recessione è la diminuzione generalizzata e incontrollata di tutta la produzione di merci. La sua conseguenza più grave è la disoccupazione. La decrescita è la riduzione selettiva e governata della produzione di merci inutili o dannose. La sua conseguenza migliore è la crescita di un’occupazione utile, che paga da sé i suoi costi d’investimento. Invece di buttare fiumi di denaro pubblico in un’opera che non ripagherà mai i suoi costi perché non risponde a un bisogno reale, come il TAV, non sarebbe meglio ristrutturare la rete idrica esistente, che perde il 65 per cento dell’acqua che trasporta? La riduzione degli sprechi d’acqua, oltre a rispondere a un bisogno reale, crea un’occupazione ancora maggiore e genera dei risparmi economici che in un certo numero di anni ammortizzano i costi d’investimento. Lo stesso avverrebbe non investendo nel TAP, ma nella riduzione dei consumi energetici che si possono ottenere ristrutturando edifici che disperdono a causa della pessima coibentazione fino al settanta per cento dell’energia che si usa per riscaldarli. Lo stesso avverrebbe con il recupero delle materie prime secondarie contenute negli oggetti dismessi che oggi si bruciano o si sotterrano. Questo è l’unico modo di rilanciare la «vecchia idea di progresso» perché questo è il progresso di cui abbiamo bisogno e l’unico progresso possibile, in grado di attenuare sia la crisi economica, sia la crisi ambientale.