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Quei geografi brutti e cattivi che ci hanno inoculato i germi del razzismo

di Francesco Lamendola - 09/09/2018

Quei geografi brutti e cattivi che ci hanno inoculato i germi del razzismo

Fonte: Accademia nuova Italia

 

Se si confronta un comune libro di testo per le scuole, specialmente di storia o di geografia, con uno qualsiasi dei nostri giorni, una cosa appare evidente: la febbre del politicamente corretto ha operato una gigantesca rivisitazione del linguaggio, dei temi, delle prospettive, dei metodi d’indagine. La cosa più evidente che emerge è lo sforzo di “emendare” queste scienze da ogni residuo di una visione dei fatti umani che possa anche solo minimamente far pensare a delle categorie mentali di giudizio su popoli e culture, che possa anche solo lontanamente suggerire confronti e parallelismi fra popoli e culture diversi, partendo dall’assunto, meramente ideologico, che tutti gli esseri umani sono ugualmente dotati e ugualmente intelligenti, laboriosi, aperti all’apprendimento, onesti (se possibile) e che lo sono, di conseguenza, anche i popoli; infine, che non esistono civiltà migliori di altre, perché usare il concetto di migliore e di peggiore è una manifestazione di spirito razzista, perciò quei concetti devono essere totalmente aboliti. Ciò fa parte di una operazione ancora più vasta, diciamo pure globale, mediante la quale si vuole abolire la categoria del giudizio in quanto tale; non solo, ma si vuole abolire la categoria del “vero”, per sostituirla con l’equiparazione del fatto al valore: tanti fatti, tanti valori. Non ci sono più valori e quindi non esiste più nulla che sia bene o male in assoluto, di conseguenza non v’è neppure qualcosa che sia migliore o peggiore,  e neppure preferibile o deprecabile, tanto meno vero o falso, ma esistono solo delle situazioni di fatto davanti alle quali bisogna inchinarsi, riconoscerle, accettarle. Ciò, beninteso, se le situazioni di fatto risultano ideologicamente gradite; se non lo sono, allora anche le situazioni di fatto vengono ignorate, e perfino negate; e, non potendole cancellare, perché comunque esistono, si fa ricorso a incredibili virtuosismi verbali per arrivare a negarle a livello linguistico, sperando che il linguaggio consenta di arrivare anche alla loro soppressione a livello psicologico e culturale. E poco importa se le situazioni di fatto permangono: vorrà dire che, come estrema ratio, si possono sempre varare delle leggi in Parlamento, grazie alle quali chi si permette di nominare le situazioni di fatto ideologicamente scorrette, incorrerà nelle sanzioni giuridiche.

Per esempio, è divenuto impossibile parlare delle relazioni omofile come di qualcosa che si debba considerare anormale, o comunque meno naturale, e meno desiderabile per la società, di quelle fra uomo e donna: esse esistono, dunque vanno riconosciute, puramente e semplicemente. E se due uomini vogliono sposarsi in municipio, e magari anche in chiesa, con l’abito da cerimonia, il riso, i confetti, la torta con le figurine dei due sposi in marsina e cilindro, un centinaio d’invitati e un bel pranzo al ristorante, con luna di miele alle Maldive, chi siano noi per giudicarli? Queste cose esistono: esistono questi impulsi, questi desideri, dunque esistono anche queste coppie (ecco il vietato vietare di sessantottesca memoria); e se esistono le coppie omofile, perché negare loro la stessa dignità giuridica di quelle formate da un uomo e una donna? Nossignori, non sia mai: lo Stato deve essere laico, nel senso che non deve introdurre alcuna valutazione morale nei comportamenti dei suoi cittadini, tranne che in caso di violazione delle leggi; ma anche le leggi, d’altra parte, non devono riflettere una idea del vero e del falso, del bene e del male, ma solo formalizzare l’esistenza delle situazioni di fatto. Una volta imboccata questa via, non ci sono più freni. Si passa dal concetto, e dalla parola, di papà e mamma, al concetto, e alla parola, di genitore 1 e genitore 2; e se qualcuno fa resistenza a servirsi di un simile linguaggio, c’è sempre lo strumento della denuncia per ottenere ”giustizia” dallo Stato, laico e aconfessionale. Né il cittadino cattolico speri di avere il minimo sostegno o la minima comprensione da parte della chiesa cattolica, di questa chiesa cattolica, come ha dimostrato la vicenda del professor Léonard, cacciato dall’università cattolica (?) di Lovanio per aver equiparato l’aborto alla soppressione di una vita, cosa che non è piaciuta alle famiglie cattoliche (?) dei suoi studenti, né ai suoi superiori. Se però il dato di fatto è sgradito, allora lo si nega: per esempio, si nega l’handicap, si parla di persone diversamente abili, proibito dire cieco o zoppo, e naturalmente non c’è nulla di più naturale che correre alle olimpiadi con le protesi di ferro, se non si hanno le gambe. Le quali olimpiadi sono, sì, delle paralimpiadi, cioè non proprio la stessa cosa delle “vere” olimpiadi, ma guai a dirlo, sarebbe una forma grossolana d’insensibilità: sarebbe come insinuare che una persona senza le gambe ha meno diritto di correre alle olimpiadi di una che le ha. E la società odierna ha deciso che siamo tutti uguali, dunque anche la cultura, e il linguaggio innanzitutto, devono prendere atto di questa scelta democratica e ugualitaria, e riformarsi in base ad esse. Per la stessa ragione, non c’è niente di più normale che inscrivere un ragazzo autistico al liceo, perché è vero che non parla, non comunica, non scrive e  non comprende, se non, tutt’al più, e per pochissimi minuti, le cose più semplici, ma sarebbe inelegante e ingeneroso fare dei raffronti coi suoi compagni che possono tradurre Seneca e Ovidio e risolvere equazioni di algebra, perciò tutti zitti, dov’è il problema?, in classe c’è posto per tutti, basta aggiungere un banco, compagni e professori si adatteranno. E pazienza se questo comporterà disagi e ritardi per tutti gli altri, chi è più fortunato deve saper essere accogliente. Ma guai a dirlo, si deve fare senza dirlo: perché quel ragazzo non è mica diverso, no, lui è come tutti gli altri, quindi nessuno è più o meno fortunato, le differenze non esistono, sono solo vieti pregiudizi che una buona volta spariranno.

Ma torniamo alla storia e alla geografia e vediamo dove stanno le radici dei nostri cattivi pensieri, delle nostre tendenze razziste e sessiste, e chi ce le ha inoculate a suo tempo: parliamo, si capisce, delle generazioni adulte, traumatizzate nella loro adolescenza da libri di testo e da professori politicamente scorretti, mentre le ultime generazioni hanno avuto il privilegio di non subire tali nefaste influenze. Uno dei libri di geografia più apprezzati nelle scuole medie superiori era quello di Roberto Almagià ed Elio Migliorini, Terra, mari e uomini, in cinque volumi, sul quale hanno studiato probabilmente milioni di studenti italiani negli anni ’60 e ’70. Almagià specialmente (morto nel 1962, per cui la revisione e l’aggiornamento del suo manuale erano state affidate a Migliorini) era considerato uno dei migliori geografi italiani della prima metà del XX secolo, insieme a Renato Biasutti, Giotto Dainelli e Giuseppe Nangeroni. Sfogliando l’opera sunnominata (Roma, Cremonese, 1962, vol. 4, pp. 110; 111-12; 310, 317) possiamo leggere frasi come queste:

 

L’Africa a sud del Sahara è abitata in prevalenza dalla formazione razziale negride, divisa in parecchi tipi; la fascia lungo il Mediterraneo è invece da tempo remoto compresa nell’ambito delle razze bianche (Europidi). (…) Quanto alle religioni, i negri praticavano originariamente, e in molte regioni praticano tuttora, diverse forme, di solito assai grossolane, di animismo (…). I Negri della foresta, raccolti soprattutto lungo i fiumi, vivono di caccia e di pesca, ma lavorano un poco anche la terra; sono divisi in tribù, spesso assai numerose, si riuniscono in grossi villaggi di capanne. Alcune tribù praticavano un tempo l’antropofagia, ora scomparsa. (…)

Gli abitanti indigeni [dell’Australia] sono gli Australiani, che formano una razza speciale, in condizioni bassissime di civiltà (i primi coloni europei lo trovarono allo stadio della pietra) e in via di scomparire. (…) I Melanesiani rassomigliano alquanto ai Negri: poco progrediti in civiltà, poco dediti alla vita marinaresca, sono sedentari ed esercitano rudimentalmente l’agricoltura; alcune tribù erano fino a pochi anni fa ancora cannibali.

 

Sono brani trascelti quasi a casaccio, ed è certo che, oggi, nessun autore di libri di testo oserebbe esprimersi in questi termini. Tanto per cominciare, non potrebbe usare la parola “negri”, a meno di rischiare una querela per razzismo e incitamento all’odio razziale. Poi, non potrebbe parlare di “civiltà”, e tanto meno osservare che alcuni popoli sono più indietro di altri sulla via della civilizzazione. Non parliamo delle religioni: espressioni come “forme assai grossolane” sarebbero da bollino rosso, anzi nero. Infine, che dire dell’accenno all’antropofagia? Certo, si tratta di dati di fatto, sia per certe popolazioni africane, sia per quelle melanesiane: ma quale intollerabile mancanza di delicatezza e di buon gusto, il farne menzione! Sarebbe come parlare di una corda, in casa di una famiglia il cui padre è stato impiccato. No, non va proprio bene: son cose che non si dicono. Ma come fare, allora? Dire, per esempio, che quelle popolazioni, per necessità alimentare, solevano integrare la loro magra dieta con le carni dei nemici uccisi (e anche di qualche navigatore europeo di passaggio, come il povero Marion Dufresene, ingannato abilmente, trucidato a tradimento e messo in pentola coi suoi compagni dai valorosi guerrieri maori nel 1772)? No, non va bene neanche così; come non va bene dire che la religione degli aztechi era basata sulla pratica massiccia e sistematica dei sacrifici umani, per offrire continuamente cuori umani ancora palpitanti al dio del Sole. Saranno anche cose vere, ma è meglio che se ne occupino gli studiosi di antropologia e di etnologia, i quali sapranno quali cautele, anche linguistiche, usare e quali argomenti scegliere per razionalizzare, storicizzare, minimizzare e attenuare l’impatto psicologico e morale sul pubblico. Dopotutto, siamo eredi di Rousseau, quindi non è opportuno che qualcuno si permetta di infangare a questo modo il nome onorato del Buon Selvaggio, cardine della nostra visione del mondo.

È stato dunque un cattivo maestro, Roberto Almagià? Dobbiamo dare il bando alle sue opere? Dobbiamo intentargli un processo postumo, e magari tirarlo fuori dalla fossa, e porre i suoi resti sulla scranna dell’imputato, come fece il papa Stefano VI allorché convocò il “sinodo del cadavere”, fece riesumare il corpo del defunto papa Formoso e lo processò, facendolo condannare per indegnità e tradimento, dopo di che gli vennero strappati di dosso i paramenti, gli vennero mozzate tre dita della mano destra e venne gettato, ormai già bell’e morto da dieci mesi, nelle acque del Tevere. Vi sono pochi dubbi che, almeno idealmente, i signori progressisti dei nostri giorni procederebbero, potendolo, in questo modo; se non che vi si oppongono due fattori, l’uno di natura particolare, l’altro di natura generale. Il primo è che Roberto Almagià era ebreo, e che perse la cattedra a causa delle leggi razziali del 1938; scampò in seguito alla deportazione perché Pio XII (quello del vergognoso “silenzio”!) lo aveva assunto come bibliotecario in Vaticano. E certo non si può accusare un geografo ebreo di razzismo; non si può rinfacciargli di avere avvalorato l’esistenza delle “razze” umane, e di aver parlato di “negri”, e di aver insinuato che essi sono meno civili delle altre razze. Riguardi che non sono stati usati nei confronti di altri studiosi, vuoi perché avevano il torto generale, per così dire, di essere ariani, vuoi perché avevano il torto specifico di avere aderito alle esecrande ideologie totalitarie e concentrazionarie del XX secolo (no, non quella comunista: quella non è esecranda, o almeno non è stata considerata tale, per settanta anni, dalla cultura italiana dominante). L’altro fattore è che, se si condanna il linguaggio di Almagià e l’universo concettuale ad esso sotteso, bisognerebbe condannare praticamente tutta la cultura dei nostri genitori e dei nostri nonni, il che, francamente, sarebbe un’impresa superiore alla ripulitura delle stalle di Augia, anche se si disponesse della forza di un Ercole. Senza contare che non ci si dovrebbe limitare alla geografia, o alla storia; ma bisognerebbe estendere l’epurazione postuma a tutti gli ambiti del sapere e del conoscere. La psicologia, per esempio:  è vero o non è vero che tutti i manuali di psicologia pubblicati fin verso il 1950, e spesso anche un po’ oltre, classificavamo l’omofilia tra le perversioni sessuali? E che tutti gli studiosi accademici erano di questa opinione, non solo i sacerdoti cattolici più oscurantisti e reazionari? In altre parole: se dovessero indossare i panni della coerenza, gli odierni paladini del relativismo e del politically correct dovrebbero rifare tutto il sapere, censurare tutti gli scrittori, i pensatori e gli scienziati, emendare tutto il vocabolario adoperato usualmente fino ai primi anni ’60, musica leggera compresa (vi ricordate gli altissimi negri della canzone Siamo i vatussi di Edoardo Vianello?), per non parlare del cinema e del fumetto (sporco negro e muso rosso erano epiteti abituali sulle labbra d’un eroe del West come Tex Willer). E allora meglio lasciar perdere e far finta di nulla; dopotutto, la signorilità paga e i signori della neolingua, della neocultura e della neochiesa sono veramente nobili. Non si perdono in battibecchi con gli esponenti della vecchia cultura, loro: sanno di rappresentare le magnifiche sorti e progressive, di avere tutto il futuro, e guardano radiosamente avanti, senza curarsi degli italiani razzisti e omofobi che li hanno preceduti. Dante diceva li mal protesi nervi per indicare l’atto della sodomia, e poneva i sodomiti sotto una pioggia di fuoco, all’inferno, dove poneva anche Maometto, squartato da un diavolo? Non ragioniam di lui, ma guarda e passa: oggi abbiamo la Boldrini e Nichi Vendola, altro che Dante…