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L’Occidente e la sua sfida (I parte)

di Aleksandr Dugin - 18/10/2018

L’Occidente e la sua sfida (I parte)

Fonte: Ereticamente

Che cosa si intende per “Occidente”?
 Il termine “Occidente” può essere interpretato in diversi modi. Quindi è prima di tutto necessario chiarire cosa intendiamo con questo termine e come questo concetto si è evoluto nel tempo.
È evidente che “Occidente” non è un termine puramente geografico. La sfericità della Terra renderebbe tale definizione semplicemente inconsistente: ciò che per un punto è l’occidente, per un altro è l’oriente. Ma nessuno intende il concetto di “Occidente” in questo senso. Anche se, ad un esame più attento, scopriamo qui una coincidenza importante: “l’Occidente” assume come propria linea-zero predefinita, a partire dalla quale vengono fissate le coordinate longitudinali, precisamente l’Europa. Non è un caso che il meridiano zero passi attraverso Greenwich, secondo la convenzione internazionale. Già in questa stessa prassi si evince l’eurocentrismo.
Sebbene molte potenze antiche (Babilonia, Cina, Israele, Russia, Giappone, Iran, Egitto, ecc.) considerassero sé stesse come “il centro del mondo”, “il regno di mezzo”, “l’impero celeste”, “il regno del sole”, ecc., nella prassi internazionale è diventata l’Europa il centro del sistema di coordinate; più precisamente, l’Europa occidentale. È esattamente da lì che è consuetudine impostare un vettore diretto verso Est ed uno diretto verso Ovest.  Accade, quindi, che anche in senso strettamente geografico vediamo il mondo da una prospettiva eurocentrica, e ciò che chiamiamo “Occidente” si presenta allo stesso tempo come il centro, “il mezzo”.

L’Europa e la modernità
Da un punto di vista storico, l’Europa è diventata lo spazio territoriale in cui ha avuto luogo la transizione dalla società tradizionale alla società moderna. Tale transizione si è inoltre realizzata grazie allo sviluppo di tendenze connaturate alla cultura e alla civiltà europea.
Sviluppando in una precisa direzione i principi stabiliti dalla filosofia greca e dal diritto romano, attraverso una specifica interpretazione dell’insegnamento cristiano – dapprima in chiave cattolico-scolastica, e più tardi in quella protestante – l’Europa è arrivata a creare un modello di civiltà unico, diverso da tutte le altre. Questa civiltà innanzitutto:
è stata costruita su basi secolari (atee);
ha proclamato l’idea del progresso sociale e tecnologico;
ha creato le basi della moderna visione scientifica del mondo;
ha sviluppato e implementato un modello di democrazia politica;
considera di primaria importanza le relazioni capitalistiche di mercato;
è passata da un’economia agraria ad una di tipo industriale.
 Riassumendo, l’Europa è diventata lo spazio del mondo contemporaneo.
Poiché in Europa le zone in cui si è maggiormente sviluppato il paradigma della modernità sono state quelle corrispondenti a paesi come Inghilterra, Olanda e Francia, situate nell’Europa occidentale, i concetti di “Europa” e “Occidente” sono diventati gradualmente equivalenti: la cultura “europea” propriamente detta, così diversa dalle altre culture, consisteva proprio nella transizione dalla società tradizionale alla società della modernità, e questa transizione a sua volta si è verificata in primo luogo nell’Europa occidentale.
Quindi, il termine “Occidente” nei secoli XVII e XVIII ha acquisito un preciso significato di civiltà, diventando sinonimo di “modernità”, “modernizzazione”, “progresso”, sviluppo sociale, industriale, economico e tecnologico. Da quel momento in poi, tutto ciò che è stato coinvolto nel processo di modernizzazione, è stato automaticamente attribuito all’Occidente. “Modernizzazione” e “occidentalizzazione” sono diventati sinonimi.
 
L’idea di “progresso” come giustificazione per la politica del colonialismo e del razzismo culturale
L’identità tra “modernizzazione” e “occidentalizzazione” richiede alcune precisazioni, che ci porteranno a conclusioni molto importanti. L’avvento della modernità, con la nascita in Europa di una civiltà moderna senza precedenti, ha portato ad una particolare disposizione culturale che ha formato l’autocoscienza dapprima degli europei, e in seguito di tutti coloro che si sono trovati sotto la loro influenza. Questo atteggiamento consiste nella sincera convinzione che il percorso di sviluppo della cultura occidentale, e in particolare la transizione dalla società tradizionale a quella moderna, non sia semplicemente una peculiarità dell’Europa e dei popoli che la abitano, ma una legge di sviluppo universale, una strada obbligata per tutti i paesi e per tutti i popoli del mondo. Gli europei, il “popolo dell’Occidente”, sono stati i primi a passare attraverso questa fase cruciale, ma tutti gli altri sono fatalmente destinati a seguirli, in quanto tale è la logica presumibilmente “oggettiva” della storia mondiale, è questo ciò che richiede il “progresso”.

Nasce così l’idea che l’Occidente sia il modello di sviluppo storico obbligato per tutta umanità, e la storia del mondo – passato, presente e futuro – viene concepita come una ripetizione di quelle fasi che l’Occidente, nel suo sviluppo, ha già attraversato o verso cui attualmente si sta dirigendo, in anticipo su tutti gli altri. Ovunque gli europei si siano imbattuti in culture “non occidentali”, che hanno conservato la “società tradizionale” e il proprio stile di vita, essi hanno emesso una diagnosi inequivocabile: “barbarie”, “ferocia”, “sottosviluppo”, “assenza di civiltà”, “arretratezza”. Così, gradualmente, l’Occidente è diventato un’idea, un criterio normativo per valutare i popoli e le culture del mondo intero. Quanto più questi ultimi erano lontani dall’Occidente (inteso nella sua ultima fase storica), tanto più “difettosi” e “inferiori” essi venivano considerati.

Le radici arcaiche dell’esclusività occidentale
 È interessante analizzare l’origine di questo atteggiamento universalistico, che identifica le tappe dello sviluppo dell’Occidente con la logica obbligatoria della storia del mondo.
Le radici più profonde e arcaiche possono essere rintracciate nelle culture delle tribù antiche. Le società arcaiche tendono ad identificare il concetto di “uomo” con il concetto di “appartenente alla tribù”, “all’ethnos”, il che a volte conduce a negare al membro di un’altra tribù lo status di “uomo”, o a collocarlo ad un livello gerarchico inferiore. I prigionieri di altre tribù o i popoli schiavizzati diventano, sempre per la stessa logica, una classe di schiavi confinati al di fuori della società umana, privati ​​di tutti i tipi di diritti e privilegi. Questo modello – membri della propria tribù = persone; membri di tribù straniere = non persone – sta alla base delle istituzioni sociali, giuridiche e politiche del passato, ed è stato studiato in dettaglio da Hegel (e in particolare dall’hegeliano Alexandre Kojève), esaminando la coppia Signore-Servo.  Il Signore era tutto, il Servo non era nulla. Il Signore possedeva lo status di uomo come privilegio. Il Servo era equiparato, anche legalmente, al bestiame addomesticato o ad un oggetto di produzione.
Questo modello di dominazione si è dimostrato molto più solido di quanto si possa pensare, e si è riprodotto in forma mutata nell’era moderna. È nato così un complesso di idee che paradossalmente ha combinato democrazia e libertà all’interno delle società europee con rigidi atteggiamenti razzisti e cinico colonialismo nei confronti degli altri popoli “meno sviluppati”.
È significativo che, dopo un intervallo di oltre mille anni e per motivi razziali, l’istituzione della schiavitù sia tornata nelle società occidentali  –  in primo luogo negli Stati Uniti, ma anche in America latina  –  proprio nell’era moderna, cioè nell’era della diffusione delle idee democratiche e liberali. Inoltre, la teoria del “progresso” è servita in realtà come giustificazione per lo sfruttamento disumano degli aborigeni – indiani autoctoni e schiavi africani – da parte degli europei e degli americani bianchi.
Si ha l’impressione che, dalla formazione della civiltà dell’era moderna in Europa, il modello Signore-Servo si sia trasferito dall’Europa stessa al resto del mondo sotto la forma di politica coloniale.
 
L’impero e la sua influenza sull’occidentalizzazione contemporanea
Un’altra importante fonte di questa influenza è stata l’idea di Impero, a cui gli europei hanno esplicitamente rinunciato all’alba dell’era moderna, ma che è penetrata nell’inconscio dell’uomo occidentale. L’Impero  – sia Romano che, successivamente, Cristiano (l’Impero Bizantino ad Oriente e il Sacro Romano Impero delle nazioni germaniche in Occidente)  – era concepito come l’Universo all’interno del quale vivono le persone (i cittadini), mentre oltre i suoi confini vivono i “subumani”, i “barbari”, gli “eretici”, i “gentili” o persino creature fantastiche: cannibali, mostri, vampiri, “Gog e Magog”, e così via. Qui la divisione tribale tra i propri membri (persone) e gli stranieri (non-persone) viene trasferita ad un livello più elevato ed astratto: da una parte i cittadini dell’Impero (partecipanti all’Universo) e dall’altra i non cittadini (abitanti della periferia globale) [1].
Questo stadio di generalizzazione su chi deve e chi non deve essere considerato una persona, può essere visto nella sua totalità come una fase di transizione tra l’Occidente arcaico e l’Occidente contemporaneo. Sebbene abbia formalmente respinto l’Impero, insieme con le sue fondamenta religiose, l’Europa moderna ha tuttavia preservato completamente l’imperialismo, ma trasferendolo al livello dei valori e degli interessi. Il progresso e lo sviluppo tecnologico sono stati da qui in avanti riconosciuti come una missione europea, in nome della quale è stata dispiegata una strategia di colonizzazione planetaria.
Così, l’era moderna, distaccatasi formalmente dalla società tradizionale, ha trasferito alcuni orientamenti di base propri di quest’ultima (la divisione arcaica nella coppia persona/non-persona su basi etniche; il modello Servo-Signore; l’identificazione imperialistica della propria civiltà con l’Universo e di tutti gli altri con i “selvaggi”; ecc.) alle nuove condizioni di vita. L’Occidente come idea e come strategia planetaria è divenuto un progetto ambizioso per l’instaurazione di un nuovo dominio mondiale – questa volta eretto sull’“Illuminismo”, sullo “sviluppo” e il “progresso” di tutta l’umanità. Una sorta di “imperialismo umanitario”.
È importante sottolineare che la tesi del progresso non è stata una semplice copertura per gli interessi egoistici e predatori delle popolazioni occidentali nella loro espansione coloniale. La fede nell’universalismo dei valori occidentali e nella logica dello sviluppo storico era totalmente sincera. Interessi e valori in questo caso coincidevano. Ciò ha conferito una straordinaria energia ai pionieri, ai marinai, ai viaggiatori e agli uomini d’affari dell’Occidente per colonizzare il pianeta: non solo per il profitto, ma anche per “illuminare i selvaggi”.
La crudele depredazione, il cinico sfruttamento e una nuova ondata di schiavismo, insieme alla modernizzazione e allo sviluppo tecnologico dei territori coloniali, hanno costituito le fondamenta dell’Occidente come idea e come prassi globale.

Modernizzazione: endogena ed esogena
Qui dobbiamo fare un’importante osservazione. A partire dal XVI secolo nel territorio dell’Europa Occidentale inizia a svilupparsi un processo di modernizzazione su scala mondiale. Questo è strettamente correlato alla colonizzazione da parte dell’Occidente di nuove terre, dove di regola vivevano popoli che preservavano le fondamenta della società tradizionale. Gradualmente, la modernizzazione interessa tutti: sia gli occidentali che i non occidentali. In un modo o nell’altro, tutti vengono modernizzati. Ma l’essenza di questo processo rimane differente nei diversi casi.
In Occidente  – in primo luogo in Inghilterra, Francia, Olanda e specialmente negli Stati Uniti, un paese costruito come un esperimento di laboratorio dell’era moderna su una presunta “terra vuota”, a partire “da una pagina bianca”  –  la modernizzazione si distingue per il carattere endogeno. Essa si manifesta come coerente sviluppo dei processi culturali, sociali, religiosi e politici, che figurano nelle fondamenta stesse della società europea. Questo non succede però ovunque simultaneamente e con la stessa intensità: popoli come i tedeschi, gli spagnoli e gli italiani sono evidentemente in ritardo; con essi la modernizzazione procede a un ritmo leggermente più lento di quanto non faccia con i loro vicini occidentali. Tuttavia, l’era moderna per i popoli europei deriva dal loro “calendario interno” ed è conforme alla logica naturale del loro sviluppo. La modernizzazione dei paesi e dei popoli d’Europa procede secondo leggi interne. Essendosi sviluppata a partire da precondizioni oggettive e corrispondendo al volere e all’umore della maggioranza degli europei, la modernizzazione è di natura endogena, ha cioè un principio interno.
Un discorso completamente diverso va fatto per i paesi e per i popoli che sono stati trascinati nel processo di modernizzazione contro il loro volere, diventando vittime della colonizzazione oppure vedendosi costretti ad opporsi all’espansionismo europeo. Naturalmente, conquistando paesi e popoli o inviando schiavi neri negli Stati Uniti, gli occidentali hanno favorito il processo di modernizzazione. Insieme con l’amministrazione coloniale, hanno introdotto nuovi ordini e principii, nonché le nuove tecnologie, la logistica dei processi economici, nuovi usi e costumi, strutture socio-politiche e istituzioni giuridiche. Gli schiavi afroamericani, soprattutto dopo la vittoria del Nord abolizionista, sono diventati membri di una società più sviluppata (anche se sono rimasti a lungo segregati e discriminati) delle tribù arcaiche dell’Africa, da cui i mercanti di schiavi li avevano prelevati. La modernizzazione delle colonie e delle nazioni schiavizzate non può essere negata. L’Occidente, anche in questo caso, dimostra di essere il motore della modernizzazione. Ma qui si tratta di una modernizzazione esogena, cioè proveniente dal di fuori, quindi indotta.
I popoli e le culture non occidentali rimangono nelle condizioni della società tradizionale, sviluppandosi in accordo ai propri cicli e alla propria logica interna. Anche loro attraversano periodi di crescita e di declino, di riforme religiose e discordia interna, di catastrofi economiche e di scoperte tecnologiche. Ma questi ritmi rispondono ad un modello di sviluppo differente, non occidentale, seguono un’altra logica, sono diretti verso obiettivi diversi e affrontano problemi diversi.
La caratteristica fondamentale della modernizzazione esogena consiste in questo: essa non emerge da esigenze interne e non è il risultato del naturale sviluppo della società tradizionale, la quale, lasciata a se stessa, probabilmente non sarebbe mai giunta a quelle strutture e a quei modelli che sono stati elaborati in Occidente. In altre parole, tale modernizzazione è forzata e indotta dall’esterno.
Di conseguenza, si può considerare la colonizzazione (introduzione di un’autorità esterna) come un ulteriore sinonimo di modernizzazione e occidentalizzazione. La maggioranza oppressa dell’umanità, escludendo gli europei e i diretti discendenti dei colonizzatori dell’America, è stata sottoposta proprio a questa modernizzazione violenta, obbligata, esogena. Ciò ha avuto un impatto traumatico sulle contraddizioni interne alla maggior parte delle società contemporanee asiatiche, orientali e del Terzo Mondo. Questa è modernità malata, la caricatura dell’Occidente.

Due tipologie di società con modernizzazione esogena
Possiamo suddividere le società esposte alla modernizzazione esogena in due gradi classi:
quelle che hanno preservato l’indipendenza politico-economica (o che hanno lottato per difenderla in guerre anti-coloniali);
quelle che l’hanno persa.
Nel secondo caso abbiamo a che fare con colonie pure, che hanno completamente perso la loro indipendenza e che sono partecipi dei valori dell’era moderna non più di quanto lo siano gli indiani nelle riserve in Nord America. Tali società possono essere arcaiche (come alcune tribù africane, sudamericane o del Pacifico), ma in parte si sovrappongono a strutture altamente tecnologiche e completamente modernizzate, dispiegate su quello stesso spazio territoriale dai colonizzatori. Non vi è quasi nessuna intersezione semantica tra autoctoni e modernizzatori: lo status delle società locali si differenzia a malapena da quello degli abitanti dei giardini zoologici, e nel migliore dei casi corrisponde a quello delle specie in via di estinzione che popolano un’area protetta (segnate nel “libro rosso” della natura). In questa situazione, la modernizzazione non riguarda la popolazione autoctona, che continua ad ignorarla, scontrandosi solo con restrizioni tecniche come filo spinato e gabbie reticolate di ferro.
Quando abbiamo a che fare con una società che ha dovuto obbligatoriamente attraversare un percorso specifico di occidentalizzazione e modernizzazione esogena, ma lo ha fatto in risposta alla minaccia della colonizzazione proveniente dall’Europa (Occidente) ed è riuscita a mantenere la sua indipendenza, il processo di modernizzazione (= occidentalizzazione) acquisisce un carattere più complesso. La si può chiamare: “modernizzazione difensiva”.
In questo caso, il punto centrale risulta essere l’equilibrio tra i valori peculiari della società tradizionale, salvaguardati al fine di preservarne l’identità, e quei modelli e sistemi che è necessario importare dall’Occidente al fine di creare i presupposti e le condizioni per una modernizzazione parziale (difensiva). Allo stesso tempo, in tali società è preservata la soggettività, che ne definisce gli interessi, predeterminando l’intensità della resistenza alle iniziative coloniali dell’Occidente.
Così, emerge il quadro seguente: al fine di difendere i propri interessi di fronte all’assalto dell’Occidente, un paese (una società) è costretto ad adottare determinati valori dello stesso Occidente, ma combinandoli con i propri valori originali. Huntington ha chiamato questo fenomeno “modernizzazione senza occidentalizzazione”.
Per inciso, tale fenomeno porta con sé alcune contraddizioni: poiché modernizzazione e occidentalizzazione sono essenzialmente sinonimi (Occidente=modernità), è impossibile realizzare la modernizzazione separata dall’Occidente e senza adottarne i valori. Nelle società tradizionali esterne all’ambiente naturale della cultura europea, i presupposti per la modernizzazione sono semplicemente assenti. Ecco perché non parliamo di un rifiuto totale dell’“occidentalizzazione”, ma di un equilibrio tra i propri valori e quelli importati dall’Occidente tale da soddisfare le condizioni per la preservazione dell’identità (differenziarsi dall’Occidente – cosa c’è di più importante, a livello di principio?!) e per lo sviluppo di tecnologie difensive, in grado di competere con l’Occidente in ambiti basilari e vitali (cosa impossibile da realizzare senza un’intensa inclusione nel contesto “occidentale”). Ne risulta quindi che un tale tipo di modernizzazione esogena si basa sulla presenza di propri interessi autonomi e indipendenti (fondamentalmente diversi dalle intenzioni coloniali dell’Occidente) e allo stesso tempo sulla combinazione dei propri valori con quelli pragmaticamente “presi in prestito” dall’Occidente. La si può definire una “modernizzazione con parziale occidentalizzazione”.
In questa categoria di modernizzazione esogena rientrano paesi come la Russia (che, durante tutto il corso dell’era moderna, rappresenta un caso più unico che raro!), ma anche la Cina contemporanea, l’India, il Brasile, il Giappone, alcuni paesi islamici, i paesi della regione del Pacifico (entrati in questo processo più tardi, nel secolo scorso). Oltre alla Russia, i restanti paesi che hanno percorso questa strada sono stati ad un certo punto colonie dell’Occidente e hanno guadagnato la loro indipendenza in tempi relativamente recenti, o (come il Giappone) hanno subito una sconfitta in un conflitto militare e sono stati occupati.
In ogni caso, questo tipo di modernizzazione esogena mette in evidenza la questione dell’equilibrio tra i propri interessi e quelli esteri; cioè, la questione della proporzione e della qualità degli elementi appartenenti a due diverse forme storico-culturali e di civiltà: i fondamenti locali conservatori della società tradizionale e i modelli cosiddetti “universali” e “progressisti” della civiltà occidentale.
La cosa più importante è questa proporzione, che costituisce l’essenza delle relazioni tra la Russia e l’Occidente.
Torneremo su questo più avanti, dopo aver fatto alcune osservazioni di natura geopolitica.

I concetti di “Occidente” e “Oriente” negli Accordi di Yalta
 Considereremo ora gli aspetti geopolitici dei problemi di cui abbiamo discusso finora e la trasformazione del concetto di “Occidente” nel XX secolo ad essi correlata.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il concetto di Occidente ha cominciato ad essere applicato geopoliticamente alla totalità dei paesi sviluppati che avevano imboccato il percorso di sviluppo capitalistico. In ciò riscontriamo un mutamento di tale concetto. Un simile “Occidente” è in realtà equivalente al capitalismo e all’ideologia liberaldemocratica. Quei paesi che si sono portati più avanti di altri lungo questo percorso, sono stati infatti considerati come “l’Occidente” nella costruzione del mondo bipolare, chiamato anche “di Yalta” (dal nome della località in cui ebbe luogo la conferenza dei capi di stato della coalizione anti-hitleriana – Stalin, Roosevelt e Churchill – i quali predeterminarono quale sarebbe stata la configurazione del mondo nella seconda metà del XX secolo).
Questo concetto di “Occidente” differisce parzialmente da quello che abbiamo trattato finora. In primo luogo, anche i regimi comunisti  –  a partire dall’URSS – appartenevano ideologicamente all’“Occidente” in un senso più ampio, nella misura in cui essi adottavano le teorie del socialismo e del comunismo partorite nell’Europa occidentale (costruite sulla base di osservazioni concernenti la storia degli sviluppi politico-economici delle società segnatamente occidentali, insieme con una corrispondente fede nel progresso e nell’universalità di questi modelli). Ma allo stesso tempo, il marxismo era diventato il modello preferito per la modernizzazione delle società tradizionali che potesse combinare il mantenimento dei propri interessi geopolitici e la parziale conservazione dei valori tradizionali locali con un potente apparato di idee, strutture, istituzioni e teorie modernizzanti e sostanzialmente occidentali. Pertanto, il marxismo – sovietico, cinese (maoista), vietnamita, nordcoreano, ecc. – dovrebbe essere considerato come una variante della modernizzazione esogena di cui abbiamo parlato in precedenza. E dal punto di vista della competizione tecnologica e ideologica, questo progetto si è rivelato relativamente di successo.
Sebbene il marxismo affermasse dogmaticamente la rivoluzione proletaria e l’avvento del comunismo, che avrebbe dovuto sostituirsi al capitalismo una volta che questo avesse raggiunto la fase critica al culmine del suo sviluppo, nella pratica non è andata affatto in questo modo: i partiti comunisti hanno vinto in quelle società in cui il capitalismo era agli albori mentre la società tradizionale (in primo luogo agraria) predominava sia in senso economico che culturale. In altre parole, la prassi marxista ha confutato la teoria del fondatore ideologico del marxismo, e d’altra parte la storia delle società capitaliste ha smentito le previsioni di Marx sull’inevitabilità della rivoluzione proletaria. Marx insisteva che la rivoluzione proletaria non potesse verificarsi in Russia (e negli altri paesi in cui predominava il “modello di produzione asiatico”), ma essa ha avuto luogo proprio lì. Nulla di simile è accaduto, invece, nelle società caratterizzate da un capitalismo pienamente sviluppato.
Ne consegue che il marxismo nei regimi comunisti non è stato ciò che prometteva di essere, ma solo un modello di modernizzazione esogena, in cui i valori occidentali erano recepiti solo parzialmente ed erano implicitamente combinati con tendenze locali, escatologico-religiose e messianiche. Nel complesso, questo specifico processo di modernizzazione – “alter-modernizzazione” lungo la via socialista (totalitaria) anziché capitalista (democratica) – è stato funzionale alla difesa degli interessi geopolitici e strategici delle nazioni indipendenti, intente a respingere gli attacchi coloniali dell’Europa e, più tardi, dell’America.
Il blocco strategico formatosi attorno all’URSS – l’avanguardia di questa alter-modernizzazione – fu chiamato, dopo la seconda guerra mondiale, “l’Est” o “l’Oriente”. Benché si trattasse di una variante della modernizzazione esogena, formalmente il sistema valoriale marxista era basato sul paradigma dell’era moderna nella stessa misura in cui lo erano le società capitaliste.
A volte, nella politologia del periodo di Yalta, invece di “Est” o “Oriente” (da cui “l’Est comunista”, “il blocco orientale”, ecc.) si è preferito usare l’espressione più accurata del “Secondo Mondo”, per indicare quei paesi che hanno realizzato un’industrializzazione forzata con una modernizzazione parziale e del tutto particolare (di tipo comunista) e – la cosa più importante! – che sono riusciti a preservare l’indipendenza geopolitica, riuscendo ad evitare (o a liberarsi da) la colonizzazione diretta.
 
In tal caso, assume un significato ben preciso anche il concetto di “Terzo Mondo”.
Il “Primo Mondo”, cioè “l’Occidente” nella terminologia del secondo dopoguerra, è costituito dai paesi che hanno avuto una modernizzazione endogena (Europa, America) cui si aggiunge un caso di modernizzazione esogena tecnologicamente di grande successo, quello del Giappone occupato, che è stato in grado di dirigere le energie interne di una nazione vinta verso una massiccia crescita economica secondo i canoni occidentali. Tuttavia, il Giappone allo stesso tempo ha perso l’indipendenza geopolitica e dal punto di vista strategico è diventato una colonia americana sottomessa.
Il “Secondo Mondo” comprende i paesi che hanno avuto una modernizzazione esogena avvalendosi dei metodi di modernizzazione totalitari e socialisti, con una parziale e relativamente efficace adozione di tecnologie occidentali e mantenendo l’indipendenza dall’Occidente capitalista. Questo insieme di paesi, nella terminologia del mondo di Yalta, è stato chiamato “l’Est” o “l’Oriente”.
E infine abbiamo il “Terzo Mondo”, costituito dai paesi a modernizzazione esogena con un livello di sviluppo inferiore sia al “Primo Mondo” che al “Secondo Mondo”; essi non possiedono una piena sovranità, hanno conservato le fondamenta della società tradizionale e sono stati costretti a dipendere dall’Occidente o dall’Oriente, rappresentando quindi delle colonie subordinate all’uno o all’altro.
Così, se limitiamo le nostre considerazioni al contesto della “Guerra Fredda” (mondo bipolare), allora il concetto di “Occidente” diviene sinonimo del campo capitalista, “il Primo Mondo” comprendente i paesi più ricchi e sviluppati del Nord America e dell’Europa con l’aggiunta del Giappone.
A fungere da epicentro di integrazione intellettuale del “Primo Mondo”, dell’“Occidente”, è stata la Commissione Trilaterale, realizzata sulla base del Council on Foreign Relations (CFR), e composta dai rappresentati delle élite di Stati Uniti, Europa e Giappone. Dunque, un segmento specifico di intellettuali, banchieri, politici, e accademici occidentali, a partire dagli anni ’60 ha assunto la responsabilità storica dei processi di globalizzazione e di creazione di un “governo mondiale” basato sulla vittoria finale – geopolitica, morale, economica e ideologica – dell’Occidente sul resto del mondo.

Anni ’90: “l’Occidente” diventa globale
Il concetto di “Occidente” subisce un’altra metamorfosi negli anni ’90, quando crolla l’architettura del mondo bipolare basata sugli Accordi di Yalta. Da qui in poi, il modello liberalcapitalista diventa il principale nonché l’unico, il comunismo come progetto di alter-modernizzazione implode, non più in grado di reggere la competizione con l’Occidente, e la potenza militare, politica ed economica degli Stati Uniti surclassa quella di tutti i paesi. La capitolazione unilaterale dell’URSS e la parallela dissoluzione del Blocco di Varsavia aprono la strada alla globalizzazione e alla costruzione di un mondo unipolare. Il filosofo americano neoconservatore Francis Fukuyama ha parlato di “fine della storia”, di “sostituzione della politica con l’economia” e di “trasformazione del pianeta in un mercato unico e omogeneo”.
Ciò ha portato ad un’ulteriore mutazione del concetto di “Occidente”: questo è divenuto un concetto globale ed unico, non essendovi più nulla in grado di contrastare non solo l’idea stessa di modernizzazione, ma anche la sua variante più ortodossa, il modello liberalcapitalista occidentale. La pesante vittoria dell’Occidente sull’Oriente – cioè del “Primo Mondo” sul “Secondo Mondo” – ha sostanzialmente liquidato le alternative alla modernizzazione, rendendola di fatto l’unica e indiscutibile essenza della storia mondiale. Chiunque voglia rimanere connesso con la “contemporaneità” deve riconoscere questa incondizionata supremazia dell’“Occidente”, esprimergli fedeltà, e anche ripudiare una volta per tutte i propri interessi, se differiscono in alcuni aspetti o – tanto più – se contrastano apertamente con quelli degli Stati Uniti (o, più in generale, dei paesi della Nato) in quanto alfieri del mondo unipolare.
D’ora in poi, l’unica questione da porsi è stata quella di capire in che segmento dell’Occidente globale si sarebbe andato ad integrare un paese o un altro. Se la modernizzazione, e di conseguenza l’occidentalizzazione, veniva conseguita con successo, allora vi era l’opportunità di integrarsi nel “miliardo d’oro” [“золотой миллиард”, letteralmente “il miliardo d’oro”, è una metafora russa che fa riferimento alla popolazione relativamente ricca dei paesi sviluppati o all’Occidente, NdT] o nel “Nord ricco” del mondo. Se per qualche motivo ciò non accadeva, l’unica opzione rimasta era l’integrazione nella fascia periferica del pianeta, nel “Sud povero” del mondo. In questo caso, la suddivisione planetaria del lavoro ha rappresentato la promessa di una modernizzazione anche per il “Sud povero”, ma questa volta secondo lo scenario coloniale, con la schiavitù politica sostituita dalla schiavitù economica, mentre l’importazione degli standard culturali occidentali ha estirpato sistematicamente i valori autoctoni (ad esempio, gli abitanti della Corea del Sud, che hanno ricevuto un forte impulso alla modernizzazione esogena di tipo coloniale, insieme con la rapida crescita economica si sono scontrati con una diffusione quasi totale del protestantesimo in una società tradizionalmente sciamanica, buddista e confuciana). L’inclusione di tutti i paesi nell’Occidente globale ha dato loro un’opportunità, ma non è stata garanzia di nulla.
Anche la Russia – emersa come nuova entità statuale dalle ceneri dell’Unione Sovietica, che a sua volta era dal punto di vista geopolitico l’erede dell’Impero Russo – ha implementato diverse riforme per integrarsi nell’Occidente globale, puntando ad ottenere un posto nel “Ricco Nord” e cercando di attraversare il percorso principale (capitalistico) di modernizzazione piuttosto che quello secondario (socialista). Nel frattempo, la Russia, così come tutti gli altri paesi, è stata invitata a rinunciare inizialmente alle sue pretese globali, e poi anche a quelle locali, dovendo accontentarsi del ruolo di satellite strategico degli Stati Uniti tra le nazioni meno modernizzate, senza ricevere in cambio alcun tipo di vantaggio. Essenzialmente, il paese era posto sotto una dominazione straniera e, di conseguenza, l’autorità governativa ospitava al suo interno l’élite coloniale – i riformatori occidentalisti e gli oligarchi – consapevoli di essere manager al soldo di multinazionali con sede sull’altra sponda dell’Atlantico.

La globalizzazione
Nei primi anni ‘90, quando “la fine della storia” sembrava quasi realtà, il concetto di “Occidente” è andato sostanzialmente a sovrapporsi a quello di “mondo” o di “globo”, impresso nel termine “globalizzazione”.
La globalizzazione rappresenta il punto finale nella concretizzazione delle pretese fondative dell’Occidente di universalità della sua esperienza storica e del suo sistema valoriale.
Penetrando in diverse società e civiltà, combinando progetti umanitari con metodi coloniali volti al soddisfacimento dei propri interessi (in primo luogo nell’ambito delle risorse naturali), l’Occidente mediante il processo di globalizzazione è diventato un concetto globale. Il mondo si è mosso rapidamente verso un modello unipolare, in cui un centro sviluppato (costituito dalla comunità transatlantica e avente negli Stati Uniti il suo nucleo) viene affiancato da una periferia sottosviluppata. [2] Alla fine, ha prevalso il modello descritto nel classico di Samuel Huntington “Lo scontro delle civiltà”: “l’Occidente e tutto il resto”. Ma nel modello della globalizzazione, questo “tutto il resto” non è considerato come qualcosa di diverso rispetto all’Occidente; anche questo è Occidente, solo sottosviluppato, incompiuto, imperfetto: una sorta di “mezzo-Occidente”.
Ecco che, seppur sotto nuove condizioni storiche e dopo una serie di trasformazioni e cambiamenti semantici, ci imbattiamo nuovamente nel razzismo culturale e nel “messianismo” secolare e liberaldemocratico che abbiamo trovato alle origini dell’era moderna e nella definizione originaria di “Occidente”.

La postmodernità e “l’Occidente”
Negli anni ’90 si è verificato un nuovo processo che ha interessato l’essenza del concetto di “modernizzazione”. La modernizzazione, che con velocità e modalità diverse, in un modo o nell’altro si è realizzata in tutto il mondo partendo dall’Europa occidentale agli albori dell’era moderna, è giunta alla sua logica conclusione alla fine del XX secolo. E questo, naturalmente, si è verificato sempre in Occidente, dato che prima degli altri, e in conformità con i suoi principi originari, esso ha dato il via alla modernizzazione della società tradizionale. Pertanto, vincendo sia la resistenza delle strutture conservatrici tradizionali, sia la concorrenza – in un determinato momento molto efficace – dell’alter-modernizzazione socialista, la modernità nella sua forma liberalcapitalista ha raggiunto i suoi limiti completando la realizzazione del suo programma: lo scontro diretto con le ideologie alternative è stato vinto, mentre superare la resistenza passiva della periferia mondiale è diventata una questione tecnologica. E lì dove ancora continuava ad esserci una certa resistenza, questa poteva essere equiparata ad una “reazione inerziale oggettiva dell’ambiente” piuttosto che ad una strategia competitiva. La battaglia contro la società tradizionale e i tentativi di quest’ultima di preservarsi sotto una nuova veste (alter-modernizzazione, socialismo) è terminata con la vittoria netta del liberalismo. E in Occidente, la modernizzazione ha raggiunto i suoi limiti intrinseci, giungendo al punto più basso della cultura occidentale.
L’esaurimento del programma di modernizzazione ha dato origine in Occidente ad un fenomeno piuttosto specifico: la postmodernità.
Il dato essenziale della postmodernità è che si tratta di una condizione fondamentalmente nuova raggiunta dai popoli occidentali in seguito alla conclusione del processo di modernizzazione della società tradizionale. Si può paragonare questo processo ad un lungo viaggio verso una meta prefissata. Le persone, che viaggiano sedute su di un treno diretto verso una stazione incredibilmente lontana, sono così abituate ad un moto che non cessa per generazioni, che non riescono ad immaginare la propria vita in modo differente. Esse considerano l’esistenza come un movimento evolutivo, un percorso di sviluppo che conduce ad una meta remota, di cui tutti hanno cognizione, a cui tutti tendono e a cui tutto confluisce, ma che rimane sempre molto distante. Ed ecco che improvvisamente la modernizzazione arriva alla sua conclusione: il treno arriva alla stazione finale… La meta è stata raggiunta, i problemi risolti… Ma le persone si sono così abituate a muoversi e a viaggiare tutto il tempo, che non riescono a riprendersi dallo shock derivante dall’impatto con la realizzazione del loro sogno. Quando un obiettivo viene raggiunto, non c’è nient’altro per cui lottare, non si sa più dove andare, non vi è più nulla a cui tendere. Il progresso ha raggiunto il suo limite. Questa è precisamente la “fine della storia”, o “post-storia” (A. Gelen, G. Vattimo, J. Baudrillard).
La condizione postmoderna può essere ben descritta mediante questa metafora. Vi è una sensazione di successo cui va ad affiancarsi una sensazione di delusione. In ogni caso, questa non è più era moderna, né Illuminismo. La fazione critica dei filosofi postmoderni ha deriso le varie fasi del processo che ha portato a questo risultato, e ha iniziato a ironizzare su quelle illusioni e aspettative di cui si sono nutriti coloro che hanno intrapreso questo percorso senza dubitare del tipo di risultato a cui sarebbero giunti. Altri, al contrario, hanno deciso di sospendere ogni giudizio critico e di prendere il “meraviglioso nuovo mondo” per quello che è, senza entrare nei dettagli e coltivare dubbi.
In ogni caso, che sia valutata positivamente o negativamente, la postmodernità rappresenta uno stato terminale. La fede nel progresso ha esaurito il suo compito e ha ceduto il passo ad una temporalità giocosa [3]. La realtà, che ha in precedenza soppiantato il mito, la religione e il sacro, si è trasformata in virtualità. L’uomo, dopo aver detronizzato Dio dal suo piedistallo agli albori dell’era moderna, è ormai pronto a cedere egli stesso il trono alle razze post-umane: cyborg, mutanti, cloni, e tutti i prodotti di una “tecnica liberata” (O. Spengler).

Il Post-Occidente
 Nell’era della globalizzazione, l’Occidente non diventa solo globale e onnipresente (il che si esprime nell’uniformità delle mode nel mondo, nella diffusione generalizzata di computer e tecnologie informative, nell’instaurazione in tutto il mondo dell’economia di mercato e del sistema politico e giuridico liberaldemocratico), ma nel suo nucleo, nel cuore del mondo unipolare, il “Ricco Nord” cambia qualitativamente passando dalla modernità alla postmodernità.
D’ora innanzi, l’appello al nucleo di questo Occidente, all’Occidente nella sua massima espressione, forse per la prima volta nella storia non implica il ricorso al concetto di modernizzazione (endogena o esogena che sia), giacché l’Occidente stesso non è più sinonimo di modernità, bensì di postmodernità. Un tale Occidente postmoderno – con la sua ironia, la sua pura sofisticazione tecnologica, il riciclo del vecchio, la perdita della fede nel progresso – non offre più alla sua periferia del mondo nemmeno una remota prospettiva di sviluppo. L’inizio della “fine della storia” solleva questioni completamente diverse, di fronte al peso e alla rilevanza delle quali il processo di elevazione del “Sud povero” da parte dell’Occidente al suo stesso livello appare un compito assolutamente inutile, superfluo e senza senso: se qualcosa può essere trovata qui, sicuramente non saranno le risposte ai nuovi problemi dell’era postmoderna.
Pertanto, coloro che in queste nuove condizioni si rivolgono per inerzia alla radice dell’Occidente inseguendo la modernizzazione, andranno incontro ad un’enorme delusione: dopo aver attraversato l’intero percorso di modernizzazione fino alla sua conclusione, l’Occidente non dispone più dell’impulso a muoversi in questa direzione né ad attrarre altri dietro di sé. L’Occidente è passato ad uno stadio qualitativamente nuovo. Ora questo non è più Occidente, ma “Post-Occidente”, cioè l’Occidente profondamente mutato dell’era postmoderna.
Dal punto di vista tecnico esso domina incontrastato, i processi globalizzanti si sviluppano a tutta velocità, ma questo non è più uno sviluppo progressivo bensì un movimento circolare attorno ad un centro sempre più complesso e problematico. Attraverso i suoi processi principali, l’architettura postmoderna genera particolari costruzioni in cui gli stili e le epoche si mescolano in modo bizzarro, e in luogo del punto centrale del complesso architettonico, si apre una voragine. Questo è il centro mancante, il polo del sistema circolare, rappresentante il baratro del non-essere.
Questa è anche la struttura sostanziale del mondo unipolare. Al centro dell’Occidente globale – negli Stati Uniti e nei paesi dell’Alleanza transatlantica – si apre il buco nero privo di senso della postmodernità.

Il divario tra teoria e prassi del globalismo
L’ultima metamorfosi dell’Occidente nel corso del suo passaggio alla postmodernità, descritta pocanzi, è tuttavia una costruzione puramente teorica. Tale quadro è stato elaborato, e la logica della storia del mondo così concettualizzata, all’inizio degli anni ’90 da parte di quei pensatori che ancora sopravvivevano in Occidente, prima di cedere definitivamente il posto alla post-umanità (probabilmente, ad automi pensanti). Ma tra questa costruzione teorica e la sua realizzazione è rimasto un abisso. Riflessioni sulla natura e la struttura di un tale Occidente e di tale postmodernità hanno portato persino i suoi più accaniti apologeti in uno stato di terrore e disperazione. Ad esempio, Francis Fukuyama ad un certo punto ha ritrattato quell’immagine ideologica idilliaca che lui stesso aveva dipinto nei primi anni ’90, e si è offerto di fare un passo indietro, mantenendo l’Occidente nella condizione in cui si trovava prima che raggiungesse la sua stazione terminale. [4] I critici di Fukuyama, incluso S. Huntington, hanno addirittura sovrastimato la qualità e la quantità di quegli ostacoli che l’Occidente deve superare per diventare veramente globale e universale. Da diversi punti di vista, tutti hanno iniziato ad aggrapparsi ai resti della modernità, con i suoi stati nazionali, la fede nel progresso, i suoi moralismi, la sua guida e le fobie, a cui tutti sono stati a lungo abituati. Si è poi deciso di prolungare il movimento verso l’obiettivo prefissato, o almeno di simulare il dondolio dei vagoni e il battere delle ruote sui giunti delle rotaie.
Oggi l’Occidente vive proprio in questa discrepanza, tra ciò che teoricamente dovrebbe diventare nell’era del globalismo e a seguito del fatto che ha superato tutti gli ostacoli e vinto tutte le alternative, e ciò che non vuole assolutamente riconoscere essere la nuova architettura globale della postmodernità, con un buco nero al posto del centro. Tuttavia, in questa crepa – infinitamente piccola e in costante contrazione – si sviluppano processi molto importanti che cambiano costantemente il quadro generale del mondo.
Tutto ciò influisce attivamente sulla Russia.

Gli Stati Uniti e l’Unione europea: i due poli del mondo occidentale all’inizio del XXI secolo
 L’oscillazione dell’Occidente tra la compiuta modernità e l’incipiente postmodernità si riflette anche in ambito geopolitico. La scomparsa del suo concorrente globale – l’Unione Sovietica (il progetto di alter-modernizzazione) – ha messo in discussione la civiltà transatlantica. L’assenza di un nemico ad Oriente ha reso il legame tra Stati Uniti ed Europa nel quadro dell’“Occidente nucleare” non più così scontato ed evidente. Si è manifestato lo sfaldamento dell’Occidente transatlantico, che ha cominciato a scindersi in Stati Uniti ed Europa.
Il baricentro dell’Occidente durante il XX secolo si è gradualmente spostato dall’altra parte dell’Atlantico, negli Stati Uniti. E dopo la seconda guerra mondiale, sono stati propri gli Stati Uniti ad assumere il ruolo di avanguardia occidentale. Essi sono diventati una superpotenza, che con la sua potenza militare ha garantito la sicurezza strategica e la prosperità economica dei paesi europei.
Dopo il crollo dell’URSS, il ruolo degli Stati Uniti come baricentro dell’Occidente si è consolidato. Questo ha coinciso con l’integrazione europea e, in sostanza, con la creazione in Europa di uno stato sovranazionale di tipo postmoderno [5]. L’Europa, una volta culla dell’Occidente inteso come fenomeno, a sua volta è diventata “Oriente” in relazione agli Stati Uniti. Questi hanno attraversato il percorso di modernizzazione e post-modernizzazione sopravanzando l’Europa, e il Vecchio Mondo si è trasformato in qualcosa di indipendente rispetto al Nuovo.
Si è delineato così un quadro geopolitico in cui nello spazio dell’Occidente stesso ha preso forma un determinato dualismo. Da un lato, gli Stati Uniti sono diventati l’Occidente più “avanzato”. Dall’altro, l’Europa ha cercato di trovare il suo distinto e specifico percorso.
Sono iniziati anche dibattiti filosofici, e alcuni americani neoconservatori (ad esempio, R. Kagan [6]) hanno proposto di considerare la civiltà americana come derivante dal concetto dello Stato minaccioso del “Leviatano” di Hobbes, e l’Unione europea come l’incarnazione delle idee pacifiste di Kant, con la sua società civile, la tolleranza e i diritti umani. Sono state anche proposte altre classificazioni. In ogni caso, gli Stati Uniti e l’Europa hanno iniziato a ripensare in modo nuovo la loro identità, i loro valori e il loro rapporto con la modernità e la postmodernità.
Sul piano degli interessi, ciò è risultato ancora più evidente. L’Unione europea, come prima potenza commerciale e seconda potenza economica al mondo, ha preso coscienza del fatto che i propri interessi nei paesi arabi, così come in relazione alla Russia e ad altri paesi dell’Est, differiscono molto spesso da quelli americani e frequentemente confliggono con questi. Ciò si è manifestato in modo particolarmente chiaro durante la guerra in Iraq, quando il comando della NATO non ha appoggiato l’invasione statunitense, e i leader di Francia e Germania (Chirac e Schroeder) insieme al presidente russo Putin hanno espresso la loro netta contrarietà a questa guerra.
i può descrivere il quadro attuale con la seguente formula: oggi gli Stati Uniti e l’Europa hanno valori comuni, ma interessi diversi. La divergenza di interessi e la consapevolezza di ciò è particolarmente evidente in paesi come Francia, Germania, Italia e Spagna. Essi solitamente sono chiamati paesi dell’Europa continentale, mentre la tendenza a rappresentare l’Europa come un attore geopolitico indipendente, che per quanto possibile dovrebbe svincolarsi dagli Stati Uniti, viene indicata come continentalismo o euro-continentalismo. Nei casi più estremi, i continentalisti sostengono che gli Stati Uniti e l’Europa non hanno solo interessi diversi ma anche valori diversi (è il caso, ad esempio, del filosofo francese Alain de Benoist [7]).
All’estremo opposto dell’Europa vi sono coloro che sottolineano in ogni modo possibile l’unità di valori, e a partire da questa base insistono sull’adeguamento degli interessi europei a quelli americani. Si tratta dei paesi cosiddetti euro-atlantisti (l’Inghilterra, i paesi dell’Europa orientale come Polonia, Ungheria, Romania, Repubblica Ceca, i paesi baltici, ecc.).
Così, due diverse tendenze generano nell’Europa stessa una duplice identità: da un lato abbiamo a che fare con l’Europa continentale; dall’altro, con l’Europa atlantica (filoamericana).  Entrambi gli schieramenti fanno riferimento al concetto di “Occidente” ma in modi differenti: i continentalisti pensano che se l’Europa è “l’Occidente”, allora gli Stati Uniti sono qualcosa di diverso. Gli atlantisti, al contrario, tendono ad indentificare il destino di Europa e America in quanto appartenenti ad una sola civiltà, di cui l’Oceano Atlantico rappresenta una sorta di “lago interno” (proprio come gli ecumenes greci e romani consideravano a suo tempo il Mediterraneo). Per gli euro-atlantisti, l’Unione Europea e gli Stati Uniti costituiscono insieme “l’Occidente”, e gli Stati Uniti ne sono l’avanguardia.

L’identità della Russia: paese o…?
Passiamo ora a considerare l’identità della Russia contemporanea. L’esame preliminare di ciò che si intende con “Occidente” ci fornisce solidi strumenti che ci consentono di specificare cosa intendiamo con “Russia”. Successivamente potremo descrivere in modo abbastanza corretto e fondato il loro rapporto nel presente e nel probabile futuro.
Ci sono due concezioni fondamentalmente diverse della Russia contemporanea (tuttavia, questo si può dire anche del regno dei Romanov, in cui avevano luogo vivaci dispute sullo stesso argomento). Essa può essere intesa come paese oppure come civiltà indipendente, e la scelta di una concezione piuttosto che dell’altra influenzerà la struttura delle nostre relazioni con l’Occidente.
Se la Russia è un paese, allora dovrà essere considerata alla stessa stregua degli altri paesi, come ad esempio Francia, Germania, Inghilterra o Stati Uniti. Dovrà pertanto essere ascritta all’Europa (per la sua posizione geografica in quanto essa ricade parzialmente nel continente europeo, per la predominanza della religione cristiana e per le origini indoeuropee delle etnie slave dominanti – in primo luogo, quella dei “Grandi Russi”) e, di conseguenza, all’“Occidente”. Molti considerano la Russia una potenza europea. Questa opinione è prevalsa:
nell’aristocrazia dei Romanov,
tra i russi occidentalisti,
nell’élite politica russa contemporanea.
 Da Putin e Medvedev, abbiamo ripetutamente sentito dichiarazioni sul fatto che “la Russia è un paese europeo”.
Se assumiamo questa posizione, allora dobbiamo riconoscere quasi immediatamente che la Russia è “un paese europeo brutto, se non orribile” dal momento che chiaramente non è conforme a quello che è solitamente considerato il modello normativo della civiltà occidentale. L’identità morale, sociale, politica, culturale e psicologica della Russia è così diversa da quella delle società europea e americana, da mettere subito in dubbio la sua appartenenza all’Occidente.
Il criterio più rilevante in questo caso è fornito dalla natura della modernizzazione russa. Analizzandola, possiamo scorgere chiaramente tutti i segni dell’esogeneità; in altre parole, l’impulso alla modernizzazione ha avuto un’origine esterna, non è maturato in seno alla società stessa ma è stato imposto dall’alto artificialmente e con la forza (in maniera autoritaria o totalitaria) da parte di un despota tirannico (Pietro il Grande) o da fanatici estremisti (i bolscevichi). In Russia non stavano maturando e non sono maturati:
né il capitalismo,
né l’individualismo,
né la democrazia,
né il razionalismo,
né la responsabilità individuale,
né l’autocoscienza giuridica,
né la società civile.
Al contrario, hanno prevalso e continuano a prevalere i connotati della società tradizionale:
paternalismo,
collettivismo,
gerarchia,
stato e società visti come una famiglia,
superiorità della morale sul diritto, del pensiero etico sul razionale, ecc.
Inoltre, la Russia ha assorbito molte caratteristiche europee, sia di natura morale che tecnologica; tuttavia, le ha adattate al proprio modo di essere e se ne è servita per affermare i propri interessi e i propri valori. La Russia ha attinto attivamente diversi elementi dall’Occidente, ma ha persistito nell’essere altro rispetto all’Occidente e nel non conformarsi ad esso.  Da qui, l’estrema irritazione dei popoli occidentali (e degli occidentalisti russi in particolare) nei confronti della Russia, che è rappresentata da loro come una “caricatura dell’Europa” minacciosa e aggressiva, che ne imita le forme esteriori, ma le riempie con la propria essenza originaria russa.
La Russia non differisce solo da qualsiasi paese europeo allo stesso modo in cui essi differiscono l’uno dall’altro. Quando si attraversano i confini russi, è la stessa anima culturale che cambia; passiamo da un tipo storico-culturale ad un altro. La Russia cioè differisce segnatamente dall’Europa e dall’intero Occidente.
Se insistiamo nel voler comunque considerare la Russia come un paese europeo nonché parte dell’Occidente, allora possiamo trarne due conclusioni. O la Russia ha bisogno di riforme radicali in chiave occidentale (che finora nessuno è riuscito a portare a termine), o essa rappresenta una sorta di altro Occidente, “un’altra Europa”.
Il primo caso è il più frequente. Ma la tenacia con cui il popolo russo e la società russa rifiutano la radicale occidentalizzazione (imitandone unicamente le forme esteriori), sabotano l’adozione dei valori europei (alterandoli in una forma nazionale del tutto particolare), e rintracciano nella stessa società occidentale stravaganti scenari, che permettono di eludere o snaturare il rigido imperativo dei valori e degli atteggiamenti puramente occidentali (il che era evidente sia nel periodo zarista che – in particolar modo – nel periodo sovietico), ci fa supporre che la trasformazione dei russi in europei sia una causa persa e che quindi la Russia rimarrà solo un “sub-Occidente”, un “Occidente di second’ordine”, incapace di assorbire veramente l’essenza dell’identità occidentale.
Il secondo caso, in cui si sostiene che la Russia rappresenti un altro Occidente, non è meno complesso. In primo luogo, anche qualora i russi si considerassero “Occidente”, benché si tratti di un Occidente del tutto particolare – ad esempio, ortodosso, post-bizantino, slavo, ecc. –, gli europei non lo accetterebbero e non lo riconoscerebbero mai, ritenendo una simile pretesa “un’ambizione arrogante e infondata”. I tentativi di insistere su questo punto non faranno altro che esacerbare le tensioni e suscitare una reazione. Se la Russia è Occidente, e allo stesso tempo insiste nell’essere accettata e rispettata così com’è, il concetto stesso di “Occidente”, l’integrità del suo vettore storico, geopolitico, tecnologico e culturale, ne risulterebbero corrotti e disintegrati. Se la Russia è parte dell’Occidente, allora l’Occidente non è più Occidente, ma chissà cos’altro.
E infine, entrambe le posizioni rimarcanti che la Russia è un paese europeo acuiscono le proprie contraddizioni riconoscendo che la Russia ha i propri interessi e che questi entrano quasi sempre in conflitto con quelli dei paesi occidentali. L’indipendenza e la libertà della madrepatria sono sempre stati i valori più alti per i russi, e questa esplicita e costante divergenza di interessi impone di mette in discussione la comunanza di valori e l’appartenenza ad un’unica civiltà. Questo non è l’argomento principale, in quanto esistono profondi contrasti anche tra i paesi europei, ma in combinazione con le due sopraccitate considerazioni ciò crea un contesto favorevole all’insorgenza di legittimi dubbi circa l’ipotesi di appartenenza della Russia all’Occidente.
Solo la posizione degli occidentalisti radicali è più o meno fondata (da un punto di vista puramente teorico e astratto). Essi sostengono che la Russia – questa “assoluta mostruosità” – debba essere forzatamente trasformata in una parte dell’Occidente attraverso lo sradicamento di ogni identità, il ripudio dei propri interessi, l’instaurazione di una dominazione esterna e la mutazione della composizione etnico-sociale della popolazione. In altre parole, affinché la Russia possa diventare un paese europeo a tutti gli effetti, essa deve prima essere annichilita fino alle sue fondamenta. Tuttavia, né il radicale esperimento bolscevico ha avuto successo in questo, giacché la Russia è rinata dalle ceneri con tutte le sue peculiarità, né tantomeno vi sono riusciti i riformatori liberali e gli oligarchi degli anni ’90.
Malgrado ciò, la convinzione che la Russia sia un paese europeo è tutt’oggi insita nella classe dirigente russa. E non a caso l’impulso alla modernizzazione e all’occidentalizzazione della società russa è sempre partito proprio dalla sua classe dirigente. Puškin ha giustamente osservato che “in Russia l’unico europeo è il governo”.
 
La Russia come civiltà (tipo storico-culturale)
 Una visione alternativa della Russia la definisce come civiltà indipendente. Questa posizione è tipica degli ultimi slavofili (Leontiev, Danilevsky), degli eurasisti russi, dei Giovani Russi o “Mladorossi” [monarchici russi emigrati (per lo più in Europa) appartenenti al movimento controrivoluzionario social-monarchico degli anni ’20; essi sostenevano un ibrido tra la monarchia russa e il sistema sovietico, esplicitato nel motto “lo Zar e i Soviet”; nel 1923 a Monaco di Baviera fondarono un’organizzazione politica chiamata “Unione della Giovane Russia” che nel 1925 venne ribattezzata “Unione dei Mladorossi”, NdT] e dei nazional-bolscevichi (Ustralyov, Smenovekhovtsy). In questo caso, la Russia appare come un fenomeno da equiparare non ad un singolo paese europeo ma all’Europa nel suo complesso, al mondo islamico, alla civiltà indù o cinese. Danilevsky l’ha definito un “tipo storico-culturale”. Si può parlare di civiltà russa o “slavo-ortodossa”. Un’espressione ancora più precisa è quella di “Russia-Eurasia”, introdotta dai primi eurasisti (Trubetskoy, Savitsky, Vernadsky, Alexeev, Suvchinsky, Ilyin, ecc.). Tale espressione evidenzia che non si sta parlando di un paese, o di una semplice forma di organizzazione statale, ma di una civiltà unica, di uno stato-mondo.
La presenza di tratti sia europei che asiatici nella Russia intesa come civiltà non deve portarci alla precipitosa conclusione che si tratti di un’addizione meccanica di elementi mutuati sia dall’Occidente che dall’Oriente. Il termine “Eurasia” sta ad indicare che si tratta piuttosto di qualcosa di terzo, di una civiltà specifica, equiparabile all’Occidente e all’Oriente per dimensione e originalità ma differente da entrambi in merito al proprio contenuto valoriale.
Se accettiamo la tesi per cui la Russia costituisce una civiltà, ogni cosa va al suo posto e tutto acquista un senso – nell’epoca del regno moscovita, nel periodo di San Pietroburgo e nell’era sovietica. Le relazioni tra Russia e Occidente acquisiscono una logica compiuta, e tutte le incongruenze e i paradossi insiti nell’ipotesi di “Russia come paese europeo” svaniscono da soli.
La Russia-Eurasia è una civiltà distinta che possiede i suoi valori originali – valori connessi alla società tradizionale con un accento sulla fede ortodossa e sullo specifico messianismo russo – e ha i suoi interessi.
Le fondamenta politiche e sociali sono state profondamente influenzate dall’idea imperiale di Gengis Khan e dalla struttura centralizzata delle orde mongole.  Il naturale sviluppo di questo complesso non ha implicato una modernizzazione e non ha portato in sé i presupposti per la comparsa di quelle idee, principi e tendenze insiti nelle fondamenta dell’era moderna in Europa. Tuttavia, la presenza in Occidente di potenze colonialiste attive e aggressive, che hanno ossessivamente cercato di promuovere in Oriente non solo i propri interessi ma anche i propri valori, ha periodicamente obbligato la Russia a intraprendere il percorso di una parziale e difensiva modernizzazione (e occidentalizzazione).
Questa modernizzazione è stata di natura esogena, ma non coloniale. La sua natura parziale e ibrida è anche responsabile di quella caricatura della Russia che ha indignato gli occidentalisti russi, a cominciare da Chaadayev, ma che, dal canto loro, hanno condannato anche gli slavofili russi (Khomyakov, Kireevskij, i fratelli Aksakov, ecc.).
In questo caso, la storia russa appare come una pulsazione ciclica di una specifica civiltà, che in condizioni di calma ritorna alle sue radici originarie, ma che in periodi critici adotta una modernizzazione forzata (dall’alto). In tale contesto, sia le riforme di Pietro, sia l’“europeismo” dell’élite dei Romanov, sia l’esperienza sovietica acquistano significato e regolarità. La Russia-Eurasia ha fermamente difeso i propri interessi e valori, ma talvolta è stata costretta a ricorrere ad una modernizzazione-occidentalizzazione al fine di contrapporsi efficacemente all’Occidente.
La Russia non fa parte né dell’Occidente né dell’Oriente. Essa è una civiltà a sé stante. E la conservazione di tale libertà, indipendenza e unicità di fronte alle altre civiltà – sia occidentali che orientali – costituisce il vettore della storia russa.