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La paura dell’altro ci aiuta a sopravvivere

di Claudio Risé - 22/10/2018

La paura dell’altro ci aiuta a sopravvivere

Fonte: Claudio Risé


Gli intellettuali raccontano un’Italia in preda all’odio e al razzismo. Non
capiscono che l’antipatia verso i migranti non è il frutto della politica, ma
nasce nei cuori. È l’emozione profonda di chi non ha intenzione di perdere la
propria terra e le proprie radici.

Ma come siamo delicati! A credere ai commenti, la società italiana sarebbe
attraversata dalla violenza, in preda alla paura, e posseduta dall'odio. Queste
tre parole (e altre sullo stesso registro) ricorrono costantemente per
descrivere il clima politico e culturale del nostro Paese, e vengono usate con
dovizia dai molti interessi ancora storditi dai risultati delle ultime elezioni.
Proviamo a osservare questa visione intimorita e un po' frignona con uno
sguardo più selvatico, nel senso leonardesco di più vicino alla selva e alla
natura umana che al birignao da salotto.
Il sospettato numero uno di questo mutamento da paese dell'amore e del
piacere a quello dell'odio e della paura è il cambiamento della politica italiana
(l'unico finora realizzato con chiarezza e successo) di fronte all'immigrazione
di massa e indiscriminata, che è stata fermata. Lo stop, avversato dai paesi
che finora avevano scaricato sull'Italia i migranti e i relativi problemi, è
considerato dalla maggioranza dei media e da molti operatori culturali come
espressione di un odio irrazionale, generato da paure infondate.
È davvero così? Gli italiani sono posseduti da paure ingiustificate e
irrazionali, che li rendono violenti e aggressivi? Innanzi tutto le emozioni di cui
si parla (come ogni emozione) non sono affatto irrazionali e rivelatrici di
incapacità di pensare. Come ogni psicologo sperimenta, e (tra gli altri) la
filosofa Hanna Arendt ha spiegato, è invece il rifiuto delle emozioni che
genera sviluppi irrazionali. "È l'ipocrisia e il far finta di niente che trasforma gli
"impegnati" in "arrabbiati"".
È allora che le istituzioni rischiano di essere viste dal popolo come un nemico
dal cui volto "strappare la maschera di ipocrisia", come racconta appunto la
Arendt nel suo libro Sulla violenza. A quel punto, per lui diventa "ragionevole"
ribellarsi, come è accaduto con il voto di marzo.
È poi vero e possibile che l'altro vada sempre e comunque "amato", e
qualunque altro sentimento verso di lui vada rifiutato e condannato? Per
rispondere va valutato nella giusta importanza un fatto noto a chiunque abbia
contatti reali con la società, ma poco presentato dai media: l'opposizione
all'immigrazione indiscriminata non è stata suscitata da qualcuno, ma è nata
spontaneamente, nel cuore delle persone (non solo in Italia, ma in tutta
Europa), quando venivano a contatto con gli immigrati. Per quanto Matteo
Salvini sia un politico capace, non è stato lui a creare un fenomeno così
vasto, sviluppatosi in silenzio nel cuore delle persone. Poi, certo, ha capito in
fretta cosa stava accadendo e si è impegnato a rappresentarlo. Si tratta del
resto di uno dei fenomeni più noti e osservati in natura: quando in uno stesso
territorio vengono inseriti nuovi individui, la reazione di quelli che c'erano
prima varia a seconda dello spazio e delle risorse a disposizione, e della
compatibilità tra comportamenti e credenze fra i nuovi e gli autoctoni.
Perché dico che si tratta di un fenomeno che nasce nel cuore delle persone?
Perché è un'emozione profonda, di tipo affettivo, solo secondariamente
legata all'interesse e alla convenienza. In prima istanza lo straniero è l'"altro",
la realtà più importante dopo l'Io, quello che trovo quando esco di casa, che
sta vicino a me, nel mio territorio, nei miei lavori. È la versione socializzata
dell'estraneo verso il quale il bambino prova a partire dall'ottavo mese di vita
una naturale avversione. Si tratta dell'esperienza vitale su cui poi poggeranno
tutti i successivi vissuti di aggressività verso gli altri, che riproducono
l'angoscia di venire separati dagli affetti primari: la terra e la madre. Insomma
mentre i politici, gli intellettuali, molti operatori economici e tanti altri
vedevano gli immigrati come cose, oggetti delle loro decisioni, futuri elettori,
della cui esistenza personale importava meno di zero, gli altri hanno visto gli
immigrati come esseri umani, l'altro della porta accanto, il vicino di casa. E
non l'hanno amato. Il fatto è che l'emozione affettiva non è sempre "empatia";
c'è anche l'"antipatia".
Non l'hanno amato non perché siano razzisti ma perché avrebbe potuto
ottenere la casa prima di loro, perché aveva principi e comportamenti diversi,
perché avrebbe offerto il suo lavoro a un prezzo inferiore, o perché avrebbe
venduto ai suoi figli le canne (quelle celebrate con pagine osannanti sui
giornaloni antiproibizionisti da intellettuali alla moda), come altri immigrati già
facevano. E per tante altre ragioni che avrebbero inciso direttamente sulla
sua esistenza. Nessuna centrale dell'odio gliel'aveva detto, l'aveva scoperto
lui da solo guardando la città, il quartiere, la campagna attorno e chi ci
lavorava. Quell'immigrato era un altro che avrebbe potuto cambiare la sua
vita, in un senso che lui non voleva.
Un sentimento per nulla innaturale, e che dal punto di vista etico vale molto di
più di quell'indifferenza cinica celebrata nei romanzi di Alberto Moravia, che
ispira da tempo immemorabile la politica italiana. In questi fenomeni affettivi
si tratta invece, dice Max Scheler (l'autore che ha contato di più nella
formazione filosofica di Giovanni Paolo II, in "Essenza e forme della
simpatia"), di "evidenze conoscitive emozionali" maturate nell'esistenza di
ogni singola persona, e del tutto libere da qualsiasi posizione teorica e
ideologica. Insomma il popolo non rifiuta gli immigrati scaricati alla rinfusa dai
barconi per ideologia o propaganda, ma perché li ha visti come persone, e
non li ama. "L'amore e l'odio - dice ancora Scheler - "si configurano come atti
spirituali, movimento verso" l'altro. C'è un'emozione personale (non
un'indifferenza o un ammaestramento propagandistico) che si conclude qui
con un rifiuto, motivato dalle scelte di fondo dell'individuo, dai progetti di vita,
dal Sé personale. Che di solito è più saldo di molti comportamenti ideologici,
perché è nato nel cuore di tante e diverse persone, che poi l'organizzano e
traducono con la propria testa in comportamenti, come il voto.
I narratori di un'Italia conquistata dalla sindrome "irrazionale" dell'odio lo
fanno, oltre perché gradito al padrone, perché non hanno mai visto da vicino
né gli sbarcati, né il popolo che non li ama. Però sbagliano a tenersene
lontani, perché rischiano di non capire più nulla di quanto sta accadendo non
solo in Italia, ma nel mondo. Che invece è molto appassionante e istruttivo,
perché produce, ovunque nel mondo, la fine degli universalismi astratti e
cattivi imposti dall'Illuminismo in poi, e il ritorno delle persone fisiche, con le
loro emozioni e i loro personali valori. Tutt'altro che aridi o malvagi anche se
molto diversi dall'accoglienza obbligatoria e stereotipata, promossa dalle
scrivanie di tecnocrati oggi alla frutta. Almeno sul piano umano, è il bosco che
si riprende il deserto.
L'accusa all'Italia di oggi di essere posseduta dalla paura ha sempre la
stessa origine: la non conoscenza del popolo, e il tenersene a distanza.
Certo: il popolo ha vivo il ricordo (spesso ancora attuale) del bisogno, e teme
di non potervi fare fronte. Anche perché a differenza del "single benestante",
di solito il popolo ha famiglia. È spesso di origine meridionale anche quando
è oggi al nord (dove giunse nel dopoguerra alla ricerca di lavoro) ed ha
ancora la particolare dignità del povero, che spesso il borghese ha perduto:
ciò lo carica di ulteriori responsabilità, che suscitano nuovi timori. Si può dire
che il povero conserva ancora (almeno in parte): il "timore di Dio", la
consapevolezza di non essere onnipotente. Grazie ad essa, il popolo
mantiene parte di quella compostezza conservatrice che caratterizzò a lungo
il partito comunista nel dopoguerra, e che naufragò un po' ridicolmente nella
pretenziosità banale di Capalbio. Oggi, quel che rimane del popolo, ha
ancora le sue paure, e le onora, anche quando vota. A me sembra un
dignitoso tratto di saggezza. Ma forse ad altri "fa paura".