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L'anima in vetrina

di Cristiano Vidali - 20/11/2018

L'anima in vetrina

Fonte: Il Talebano

Vi è un sottile quanto infausto parallelismo tra l’ipertrofia pubblicitaria delle merci e la sovraesposizione mediatica di adolescenti di tutte le età. Dal lato industriale, il marketing è diventato l’anima del prodotto: una grande impresa può delocalizzare, appaltare o addirittura sostituire la produzione, ma ciò che deve rimanere stabile (oltre all’immancabile capitale finanziario) è il logo. Il prodotto stesso diventa soltanto un vettore accidentale del marchio – con sproporzionati investimenti destinati al secondo e a scapito del primo – poiché non importa quel che si vende, purché lo si venda. Precisamente la stessa logica governa la condotta diffusa epidemicamente dall’utilizzo dei social network: non importa quel che si pubblica, purché si pubblichi. Così le bacheche vengono impinguate dalle scarpe a tacco alto accanto alla commemorazione di un lutto, dall’ennesimo primissimo piano di un drink al momento irripetibile del giuramento matrimoniale, dal (provvisorio) ultimo tatuaggio al cordoglio per una disgrazia civile.

In questo zibaldone di stimoli cicaleggianti, che amalgama impunemente qualsiasi confine tra sacro e profano, ogni utente è insieme la merce ed il promotore della propria vendita – versione post-moderna di soggetto e oggetto. Così come per un prodotto non vi è altro tratto definitorio che il prezzo, il quale è tuttavia solo potenziale fino all’atto della vendita, parimenti l’utente non ha altra conferma del proprio valore che per mezzo di una compravendita virtuale, espressa in termini impersonali e puramente quantitativi in forma di ‘like’ – e, in questo senso, influencer, food blogger o youtuber non sono altro che merci prezzate sull’onda della domanda che imperversa. Un post contenente un’impeccabile analisi della realtà o la foto di un capolavoro oggi demodé che non ricevessero alcun ‘mi piace’, esisterebbero tanto poco quanto un prodotto dimenticato in magazzino e mai esposto sullo scaffale di un supermercato.

Se da un lato questa tendenza viene suffragata dalle stesse istituzioni, che si allineano nel promuovere uno sfarfallio di master in ‘public speaking’ o ‘retorica, comunicazione e leadership’, il cui unico proposito è educare a rendere sgargianti anche le più insignificanti sciocchezze, dall’altro vi è un’oggettiva semplificazione dell’interazione sociale nel suo complesso. Che si assista ad un evento storico o ad una quisquilia quotidiana, è sempre e soltanto una foto (con lo stesso ‘statuto ontologico’) a documentarlo. In questo senso, vi è un progressivo scivolamento dalla comunicazione mediata e riflessiva a quella puramente estetica ed immediata, con una netta dittatura dell’immagine sulla parola. Non è un caso che dal primo social network, Facebook, che consente di pubblicare sia foto che contributi scritti senza significativi vincoli, si sia passati a Twitter, che restringe la comunicazione a 280 (prima addirittura 140) caratteri, per approdare infine a Instagram dove selfie e insta-stories sopprimono definitivamente ogni forma di scrittura. Così, la complessità multifattoriale dell’identità personale si appiattisce su un’estetica unidimensionale, come un grottesco quadro cubista portato in vita.

Tutto ciò accade in quanto i social, come ogni mezzo, non sono affatto neutri e non vengono dispensati benevolmente per il benessere universale. Al contrario, essi sono inseriti all’interno di un determinato contesto di produzione materiale e promuovono i valori e le funzioni dominanti che ne garantiscono l’esistenza e la riproduzione. E il liberal-liberismo, ideologia entro la quale tali valori si coagulano, identifica l’essere umano con l’essere consumatore. Sicché, in quanto ogni soggetto economico sa già cos’è meglio per sé, ogni sua valutazione diventa insindacabile; ogni proposito educativo che tenti di istituire scarti qualitativi tra valori viene stigmatizzato come paternalismo, laddove non fascismo; ogni giudizio (soprattutto se assiologico) viene asfissiato nella sfera strettamente privata, senza nessun riferimento dialettico ad un ambito comunitario di riconoscimento e confronto. E, laddove la comunità è inesistente, l’unico successo possibile sarà quello del singolo. Così, ciascuno vedrà nei social un palcoscenico vuoto dai riflettori accesi, in attesa di compiacere l’unico vero protagonismo ancora inappagato: il proprio. Ma a prendere forma è piuttosto una commedia dell’assurdo riecheggiante le ambizioni frustrate dei suoi attori, nella quale, dagli jihadisti alle magliette rosse, ciascuno recita da protagonista e, così, di fatto non lo è nessuno.