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L'Europa in pezzi?

di Claudio Mutti - 08/12/2018

L'Europa in pezzi?

Fonte: Eurasia


L’11 novembre scorso, commentando la dichiarazione di Emmanuel Macron circa la necessità di creare “un vero esercito europeo”, Vladimir Putin ha definito tale idea come “positiva nell’ottica di un rafforzamento di un mondo multipolare”. D’altronde, ha aggiunto il presidente russo, “l’Europa è un forte blocco economico, una potente unione economica, ed è piuttosto naturale che voglia essere indipendente, autosufficiente, sovrana nella difesa e sicurezza”.

Come ha ricordato lo stesso Putin, l’idea di un esercito europeo non è nuova. Infatti nel 1952 i Paesi aderenti alla CECA (Belgio, Francia, Repubblica Federale di Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi) avevano deciso di fondare una Comunità Europea di Difesa che costituisse una forza militare europea; ma il trattato di fondazione della CED non entrò mai in vigore a causa della mancata ratifica francese. Così la “difesa” di quel nucleo d’Europa rimase affidato alla NATO, l’organizzazione militare nata in seno al Patto Atlantico ed egemonizzata dalla potenza statunitense.

Incapaci di creare un esercito, i Sei diedero vita ad un mercato, il MEC. Così, al momento dello scioglimento del Patto di Varsavia, la Comunità Economica Europea si guardò bene dall’esigere la soppressione della NATO per sostituirla con un esercito europeo. Anzi, il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 dai dodici Paesi membri della Comunità Europea, stabilì all’art. 42 il rispetto degli “obblighi di alcuni Stati membri, i quali ritengono che la loro difesa comune si realizzi tramite la NATO”. E il Protocollo (n. 10), sulla cooperazione strutturata permanente istituita dall’articolo 42 del medesimo trattato, stabilì che la NATO sarebbe rimasta “il fondamento della difesa” dell’Unione Europea.

Le disposizioni più importanti del Trattato di Maastricht furono quelle che fissarono le fasi di transizione dalle monete locali all’euro, la valuta comune ufficiale dell’Unione Europea, la quale, entrata in circolazione all’inizio del 2002, ha fornito quel tessuto connettivo che i semplici accordi commerciali non avevano potuto dare. Ma la nuova moneta è del tutto anomala: essa non reca su di sé il simbolo di un potere politico, poiché è emessa da un ente finanziario: la Banca Centrale Europea. Come è stato osservato, “l’Europa commerciale e finanziaria, che ha preso il posto di quella ideale e politica, somiglia ad una di quelle aziende fittizie, prive di scopo e di consistenza, che i finanzieri di avventura inventano per coprire i loro traffici con un’attività che in realtà non esiste, e per scambiarne i titoli con altre aziende altrettanto virtuali”[1].

Perciò, se da un lato è possibile affermare che “i veri euroscettici, chi non vuole andare oltre il livello delle conferenze intergovernative, sono proprio i difensori della moneta senza Stato, che rappresentano l’ostacolo più ingombrante in cui si imbatte oggi la continuità del processo di unificazione europea”[2], dall’altro non si può non riconoscere che, nonostante la sua fondamentale anomalia, l’euro risponde tuttavia all’esigenza dell’Europa di avere una sua propria moneta. Non solo, ma questa moneta senza Stato è oggi la principale concorrente del dollaro statunitense.

Per quanto riguarda la difesa militare, se Vladimir Putin ha riconosciuto come positiva l’idea di un esercito europeo in grado di difendere l’Europa e di assicurarne l’indipendenza, Donald Trump ha invece ribadito con esemplare franchezza la volontà statunitense di mantenere l’Europa in condizione di divisione e di sudditanza. Il presidente degli USA, che il 15 luglio aveva dichiarato l’Unione Europea, “nemica” (testualmente: foe) degli Stati Uniti[3], ha infatti brutalmente sollecitato Macron a versare il tributo vassallatico e gli ha ricordato che sulla Francia incombe la storica minaccia teutonica[4], vanificata due volte, come ci viene ripetuto da una settantina d’anni, dal salvifico e disinteressato intervento degli Stati Uniti.

Ormai è fin troppo evidente che l’amministrazione statunitense considera l’Unione Europea come un potenziale rivale strategico e che a Washington ci si preoccupa, in particolare, del peso esercitato all’interno dell’Unione dalla Germania (la quale si permette di stabilire pericolosi rapporti con la Russia e con la Cina) e dalla Francia (che ambirebbe a ricoprire in Europa un ruolo militare non inquadrato nella NATO). Sembra perciò che la strategia di Washington consista nel mettere ulteriormente in crisi la traballante costruzione europea, per instaurare relazioni bilaterali coi singoli Stati nazionali.

Iniziata con la Brexit, la destabilizzazione dell’Europa è proseguita con la guerra dei dazi e col sostegno fornito dagli USA ai governi ed ai movimenti sovranisti e populisti: in primo luogo all’Italia ed ai paesi del gruppo di Visegrád.

Ma la comune subordinazione al padrone americano non garantisce affatto la solidarietà fra i paesi europei governati da forze politiche ideologicamente affini. Lo dimostra il fatto che il governo austriaco di centrodestra ha invocato il rigore di Bruxelles nei confronti dell’Italia e che anche il portavoce di Viktor Orbán ha garbatamente invitato il governo di Roma a limitare le spese in deficit.

D’altronde il sovranismo non è altro che la forma odierna del piccolo nazionalismo, sicché non appare affatto inverosimile l’ipotesi che, in seguito ad una vittoria dei partiti populisti alle prossime elezioni europee, si aggravi ulteriormente la divisione dell’Europa, la quale è già adesso un “vestito d’Arlecchino malamente ricucito”[5], tanto per riproporre l’impietosa metafora usata più di mezzo secolo fa da Jean Thiriart. Il quale scriveva, a proposito dell’“Europa delle Patrie” teorizzata dai micronazionalisti d’allora: “Questa Europa delle Patrie non è altro che la somma temporanea e precaria dei rancori e delle debolezze. Sappiamo che la somma di debolezze è uguale a zero o quasi. I piccoli nazionalismi si annullano gli uni con gli altri così come si annullano i valori algebrici di segno contrario. I piccoli nazionalismi ‘chiusi’ derivano, in genere, la loro apparente forza solo dall’odio per il vicino o dal ricordo di quest’odio. È un controsenso, è una contraddizione in termini pretendere di ricavare una forza da una somma di particolarismi incalliti e sospettosi”[6].

Una cosa è certa: la dichiarazione di guerra nei confronti di Bruxelles induce i sovranisti ad accentuare la loro dipendenza nei confronti di Washington.

Lo si è visto il 6 luglio 2017, quando a Varsavia Donald Trump ha tenuto a battesimo l’Iniziativa dei Tre Mari, che, oltre a stendere un cordone sanitario alle frontiere occidentali della Russia, imporrà vincoli energetici e militari ad una macrozona di dodici paesi compresa fra il Baltico, il Mar Nero e l’Adriatico[7].

Lo si è visto nel dicembre 2017, quando la Repubblica Ceca e l’Ungheria hanno impedito all’Unione Europea di pubblicare una dichiarazione unitaria di condanna del trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, prima che il governo di Praga seguisse quello di Washington nel riconoscere Gerusalemme come capitale dell’entità sionista.

Lo si è visto il 30 luglio 2018, quando l’incontro fra Donald Trump e Giuseppe Conte ha inaugurato un “Dialogo strategico”, proseguito a Washington nel novembre successivo, che assegna all’Italia, in rotta di collisione con Bruxelles, il ruolo di testa di ponte dell’amministrazione statunitense in Europa[8].

Lo si è visto, infine, nella disponibilità mostrata dai movimenti sovranisti nei confronti dell’iniziativa di Steve Bannon, alla quale hanno aderito, limitandoci a parlare dell’Italia, Matteo Salvini a nome della Lega e Giorgia Meloni a nome di Fratelli d’Italia. La missione dell’ex “capo stratega” di Donald Trump consiste infatti nel “preservare l’egemonia economico-culturale degli Stati Uniti nell’attuale panorama geopolitico di progressiva disgregazione del progetto europeista tecnocratico, unendo sotto la bandiera di una rinnovata forma di americanismo (da esportazione e imitazione) i gruppi politici che si oppongono alle istituzioni europee e che cercano di farsi espressione dell’inevitabile malcontento popolare di fronte alle nefaste politiche dell’Unione”[9]. Proclamando che “l’Unione Europea è finita, come sono finiti i diktat europei e il fascismo dello spread”, l’agitatore statunitense si è rivolto agli Europei formulando questa promessa: “Presto avrete una confederazione di Stati liberi e indipendenti”[10].

Così, dopo aver liberato l’Europa dal Kaiser, da Hitler e dalla minaccia sovietica, adesso gli Stati Uniti d’America si apprestano a liberarla per l’ennesima volta, favorendo la nascita di un’“Europa delle patrie” a sovranità ancor più limitata.

NOTE
[1] Enzo Erra, L’inganno europeo, Settimo Sigillo, Roma 2006, pp. 95-97.

[2] Leonardo Paggi, Gramsci, la mondializzazione e il pensiero della differenza, Franco Angeli, Milano 2017, p. 44.

[3] https://www.agi.it/estero/trump_europa_nemico_usa-4160287/news/2018-07-15/

[4] “But it was Germany in World Wars One & Two – How did that work out for France? They were starting to learn German in Paris before the U.S. came along. Pay for NATO or not!” (https://eu.usatoday.com/story/news/politics/2018/11/13)

[5] Jean Thiriart, Un impero di 400 milioni di uomini: l’Europa, Volpe, Roma 1965, p. 38.

[6] Jean Thiriart, ibidem.

[7] Si veda il Dossario di “Eurasia”, 4/2017 (Il cordone sanitario atlantico).

[8] Si veda il Dossario di “Eurasia”, 4/2018 (La geopolitica giallo-verde).

[9] https://www.eurasia-rivista.com/steve-bannon-e-la-nuova-egemonia-americana/

[10] http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/ContentItem-11d3992d-373e-45b0-87ac-cdd0148b39c7.html