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Quale idea rappresenta, l’Italia?

di Francesco Lamendola - 20/12/2018

Quale idea rappresenta, l’Italia?

Fonte: Accademia nuova Italia

Uno Stato, per esistere e per avere delle basi solide, non può accontentarsi di essere uno scatolone di popolazioni e un contenitore di interessi economici, grandi o piccoli che siano; non può essere nemmeno, come vorrebbe il liberismo classico, una sorta di agenzia delegata a proteggere le libertà del singolo individuo e a garantire i suoi inalienabili diritti. Deve essere di più, molto di più, altrimenti finirà per sfasciarsi, sanguinosamente come la ex Jugoslavia, o anche in modo del tutto pacifico e civile, come la ex Cecoslovacchia; e non  è affatto escluso che il Belgio finisca per fare  la stessa fine. Gli Stati, come li conosciamo, sono delle creazioni abbastanza recenti: lo Stato moderno nasce verso il 1300, alla fine del Medioevo, con il consolidamento delle monarchie nazionali, specialmente la Francia e l’Inghilterra. Gradualmente, dalla frammentazione politica, giuridica ed economica del feudalesimo, sono nati questi grossi organismi che solo un po’ alla volta hanno visto l’affermazione territoriale delle rispettive monarchie: ancora alla metà del 1600, per esempio, l’autorità, sul territorio francese, era rappresentata assai più dai grossi feudatarie che dal re. Ci sono voluti altri due secoli, e specialmente l’esperienza della Rivoluzione francese e di Napoleone, perché lo Stato odierno si consolidasse, e ciò avvenne, in Europa occidentale, essenzialmente sulla base della nazionalità. In Europa centrale e orientale, invece, la maggior parte degli Stati erano di origine dinastica, si erano formati come estensioni delle rispettive case regnanti e si erano ampliati per mezzo di matrimoni e unioni personali: tipico esempio l’impero austriaco, che comprendeva undici popoli e aveva la sua idea forte nella fedeltà alla casata asburgica, la quale si poneva come un potere paternalistico e unificante, al di sopra di tutte le identità e le possibili divisioni. Anche l’Impero russo, in una certa misura, si reggeva sul principio monarchico e dinastico, però in esso la nazionalità russa occupava un ruolo centrale: perciò, di fatto, la Russia degli zar si reggeva su un doppio principio, dinastico e nazionale. Ma la Francia, in particolare dal 1792, rappresentava un principio nuovo: non solo il principio nazionale, ma anche quello democratico di stampo massonico. Grazie a Napoleone, alle sue conquiste e alla sua legislazione, tale principio si estese a gran parte dell’Europa; e se è vero che con la Restaurazione molte delle novità introdotte dal modello napoleonico vennero ritirate, è altrettanto vero che molte altre rimasero, perché erano ormai funzionali al processo evolutivo della forma statale stessa. I prefetti, ad esempio, o i licei, come scuole superiori per la formazione della futura classe dirigente; oppure l’anticlericalismo programmatico e il confinamento della realtà religiosa entro un ghetto dai confini ben precisi: tutte queste cose erano state introdotte dai francesi negli Stati conquistati da Napoleone, ma sostanzialmente rimasero anche dopo la sua definitiva sconfitta, nel 1815. L’Inghilterra, da parte sua e sin dalla fine del XVII secolo, rappresentava un’altra idea ancora: la monarchia costituzionale, sul modello del liberalismo. Dunque, nell’Europa del 1914 vengono a confrontarsi almeno tre modelli ideologici e pratici di Stati: quelli basati sul principio dinastico e legittimista, come l’Austria-Ungheria, la Russia e la Germania; quelli basati su quello repubblicano, democratico e massonico, come la Francia; e quelli basati sul principio costituzionale e liberale moderato, anch’esso di stampo massonico ,come la Gran Bretagna. Al di fuori del continente, gli Stati Uniti, benché eredi della colonizzazione inglese, rappresentavano il principio democratico e massonico, più sul modello francese che su quello britannico, però, a differenza della Francia, con un legame meno forte col principio di nazionalità, essendo formati da immigrati delle più varie provenienze (anche se la base nazionale era e restava anglosassone); e il Giappone, che era passato direttamente dallo Stato feudale medievale allo Stato moderno di matrice liberale, senza però recidere del tutto le proprie radici e senza rinunciare alla propria specifica identità asiatica.

E il Regno d’Italia, nato il 17 marzo 1861, quale idea rappresentava? E quale idea, oggi, rappresenta la Repubblica italiana, nata il 2 giugno 1946?

Ci sembrano molto interessanti le riflessioni svolte su questo argomento da un grande storico e sociologo italiano, Guglielmo Ferrero, nella sua grande opera sul Congresso di Vienna (da: G. Ferrero, Il Congresso di Vienna, 1814-1815. Talleyrand e la ricostruzione dell’Europa; Milano, Editore Corbaccio, 1999, vol. II, pp. 359-362):

 

[Dopo il 1815] l’Italia, calpestata, smembrata e ricomposta a capriccio dai poteri rivoluzionari aveva cominciato a sentirsi capace di fondare sull’esempio e in opposizione agli altri grandi Stati d’Europa, uno Stato potente. Nasceva quel sentimento nazionale che non tarderà a svilupparsi e finirà per persuadere una parte dell’Italia – ma una parte solamente – che i piccoli Stati dell’Antico Regime e il paradiso di lave spente caldeggiato dall’imperatore d’Austria erano causa di tutti i suoi mali, della sua povertà, della sua impotenza, della sua oscurità… L’Italia sarà sempre più divisa da un dualismo inconciliabile: dove s’annidava il nemico, il pericolo, la sorgente del male? Nell’Antico Regime, o nella Rivoluzione?

Le dinastie dell’Antico Regime sopravviventi in Italia rappresentavano delle legittimità, ma legittimità moribonde. Per questa ragione la soluzione che il Congresso di Vienna aveva applicato al problema italiano era mediocre e precaria, senza che si possa d’altra parte incolparne il Congresso, perché era la sola possibile e non si può giudicarla se non tenendo conto di quello che il Congresso doveva e poteva fare. Per tutto il secolo decimo nono si è rinfacciato al Congresso di Vienna di non aver voluto creare nell’Italia del nord uno Stato italiano forte, sia in gradendo la Casa Savoia, sia chiamando una nuova dinastia. Ma questo progetto era impossibile. L’Austria si era assicurata la Lombardia e il Veneto, già a Parigi col trattato del 30 maggio; così la sorte dell’Italia del nord era già decisa prima che il Congresso si riunisse. La manomissione della Lombardia e del Veneto compiuta dall’Austria nel 1814 è la conseguenza di Campoformio, l’espiazione per la mancata resistenza d‘Italia all’invasione del 1796: il Congresso non è responsabile. La Casa Savoia del resto se le avessero annesso l’Italia del nord si sarebbe trovata a Milano e Venezia come Murat a Napoli: un potere imposto dal di fuori, una dittatura rivoluzionaria sostenuta dalla forza. Prima o dopo sarebbe stata fatalmente trascinata in avventure incompatibili con il “riposo dell’Europa” come si diceva a Vienna del sistema europeo che si doveva ricostruire. Gli storci italiani hanno da un secolo a questa parte, troppo ragionato intorno alla questione, come se l’Italia fosse stata sola a Vienna: hanno troppo dimenticato che a Vienna il problema italiano, come tutti gli altri, è stato risolto in funzione del problema europeo che era urgente ristabilire. La grandezza misconosciuta al Congresso consiste appunto in questo.

Disgraziata Italia anche questa volta: poiché entra nel gran secolo, umiliata, calpestata, immiserita e già divisa pel dualismo, Antico Regime e Rivoluzione. Più infelice ancora perché essa tenterà di sottrarsi a una tal tortura negando i due termini del dualismo. L?Italia era tornata da Vienna iena di orrore ed i terrore per tutte e due le rivoluzioni: l’orientamento nuovo e il sovvertimento delle regole. Essa avrebbe dovuto essere il campione del’Antico Regime in Europa. Ma non sentiva più la forza di opporsi al secolo decimo nono quale figlia primogenita della passata civiltà. Che cosa avverrà nel suo spirito? L’odio alle tendenze nuove si spegne rapidamente nell’indifferenza. Dopo il 1815 l’Italia è il paese d’Europa in cui le grandi idee della Rivoluzione sono penetrate con maggior difficoltà. Il diritto di opposizione non vi è mai stato accettato sinceramente da nessuna scuola, partito o istituzione, a cominciare dagli organi di questo nuovo diritto: la stampa e il Parlamento. La libertà non è stata che un’arma, maneggiata dai partiti nella loro lotta per il potere senza sincerità.

Ma se le grandi idee della Rivoluzione la lasciano indifferente, lo spirito d’avventura, il sovvertimento gigantesco delle regole che la Rivoluzione ha compiuto appaiono sempre più abbaglianti! Ma se invece la vera Rivoluzione fosse non tanto la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo quanto un attentato al Diritto e alle sue funzioni, la conquista e l’estensione del potere per mezzo della violenza, compiuta senza scrupoli, sicura di se stessa senza limiti? Sì, Napoleone alla fine aveva fallito, era stato sconfitto, ma per un certo tempo era pur riuscito. Un altro non potrebbe riuscire più a lungo, forse definitivamente? Idee sovversive che erano la negazione di ciò che v’era stato di più grande e di più vitale nell’Antico Regime. E l’Italia non riuscirà mai a liberarsene, malgrado tutti gli sforzi compiuti. Dopo il 1915, anzi di generazione in generazione, pur senza dichiararsi apertamente, queste idee eserciteranno un’influenza occulta sulla filosofia, sull’arte, sulla letteratura, sulla politica, si assoceranno al ricordo della gloria passata e finiranno per esplodere. Un uomo, un grand’uomo, una guerra, una grande guerra, una conquista una grande conquista, e l’Italia potrà in pochi anni riconquistare la sua grandezza d’altri tempi sovvertendo tutte e regole inventate dalla mediocrità, gettandosi anch’essa in una grande avventura.

 

Naturalmente, la conclusione è opinabile: che, nel 1861, sia nata una grande Italia, per opera di un grande uomo e per mezzo di una grande guerra; ciascuna di queste asserzioni è quanto meno discutibile. Per alcuni osservatori stranieri, come Dostoevskij, non era nato che un piccolo regno, inadeguato a raccogliere l’eredità grandiosa di quel che l’Italia, idealmente, era stata nel corso dei secoli. Il che ci riporta alla domanda di fondo: quale idea esprimeva l’Italia, all’atto della sua nascita come Stato indipendente e sovrano? Per Guglielmo Ferrero, e questa è l’analisi che a noi sembra condivisibile, l’Italia nel 1815 è lacerata fra due opposte idee: quella della Restaurazione, cioè l’Antico Regime, impersonata dai sovrani restaurati sui loro troni dopo la bufera napoleonica, e quella della Rivoluzione, cioè l’idea repubblicana e democratica di matrice massonica, che sopravvive alla disfatta di Napoleone sotto forma di società segrete come la Carboneria, e che inizia a porsi l’obiettivo dell’unificazione nazionale. C’è un altro punto, però, sul quale non ci troviamo d’accordo con questo quadro: Ferrero parla dell’Italia come se l’Italia, nel 1815, fosse una nazione, o almeno un popolo, mentre questo è ciò che si dovrebbe semmai dimostrare, non un dato da cui partire. Nel 1815 si può parlare dell’Inghilterra o della Francia, per indicare, almeno fino a un certo punto, il popolo inglese e il popolo francese; ma non si può parlare dell’Italia come se fosse la stessa cosa del popolo italiano. Nel 1815 i due partiti che si fronteggiavano in Italia erano sei o sette sovrani restaurati, campioni dell’Antico Regime, con le loro piccole corti e i loro piccoli eserciti, e un pugno di rivoluzionari clandestini, carbonari e membri di altre minuscole società segrete; ma la quasi totalità delle popolazioni (popolazioni, non ancora popolo) non parteggiava né per questi, né, meno ancora, per quelli, per il semplice fatto che non aveva mai partecipato alle vicende politiche. È perfettamente logico, quindi, che l’Italia nata nel 1861, sotto la guida della dinastia sabauda, ma anche sotto la spinta del movimento democratico, non fosse né carne, né pesce. La stessa monarchia sabauda esprimeva un’idea di compromesso: l’idea dinastica, quindi l’Antico Regime, perché i Savoia, in fin dei conti, erano una dinastia che aveva recuperato il trono grazie al Congresso di Vienna; ma anche l’idea democratica, massonica e anticlericale, impersonata dalla Francia, visto che la ”grande guerra”, quella del 1859, era stata fatta, e vinta, al rimorchio della Francia, la quale, a sua volta, era un compromesso fra l’Antico Regime, dinastico e cattolico, e la Rivoluzione, vista l’eredità napoleonica e le modalità plebiscitarie dell’ascesa al trono di Napoleone III. E non è certo un caso che i Savoia, nel 1915, abbiamo deciso un colpo di Stato, spingendo Salandra a firmare in segreto il Patto di Londra: avevano capito che la guerra mondiale avrebbe segnato il tramonto delle monarchie legittimiste e che la sola speranza di restare sul trono, per loro, era spostarsi ancor più sul versante democratico e massonico. La stessa manovra e nella stessa persona, cioè Vittorio Emanuele III, i Savoia la tentarono nel 1943-46: traghettare se stessi e il regno nello schieramento democratico, cercando di legittimarsi dalla parte dei vincitori, cioè della democrazia, e disfacendosi del loro imbarazzante passato: non solo la compromissione col fascismo, ma il peccato d’origine del 1861: essere diventati re d’Italia come una dinastia dell’Antico Regime (e infatti Vittorio Emanuele II conservò l’appellativo di “secondo”, come se fosse ancora il re del Piemonte), ma flirtando con i rivoluzionari, i democratici repubblicani. Questa ambiguità di fondo, questa tendenza al voltafaccia, all’opportunismo, è stata ereditata, sin dalla nascita, dalla Repubblica nata il 2 giugno 1946. Una repubblica che si diceva nata da un moto spontaneo di popolo, la Resistenza, e però occultava due fattori decisivi: la conquista militare e la vittoria alleata, che ne faceva una repubblica subalterna, e la guerra civile, che restava uno scheletro nell’armadio, rimuovendo il sangue degli italiani vinti…