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“Gilet gialli”: una protesta oltre la destra e la sinistra.

di Carlo Formenti - 20/12/2018

“Gilet gialli”: una protesta oltre la destra e la sinistra.

Fonte: Vision-gt

Da settimane la Francia è sconvolta dalle mobilitazioni dei “Gilet gialli”, un movimento di popolo, trasversale, nato spontaneamente per opporsi alle misure economiche intraprese da Macron.
Il malcontento popolare esploso in Francia ha, tuttavia, radici ben più profonde, radicate nel più ampio contesto occidentale che, afflitto da crisi sociali, economiche, demografiche e geopolitiche, si trova a dover fronteggiare diverse forme di protesta che ormai da qualche anno a questa parte interessano vari stati tenendo in apprensione le élite.
Al fine di comprendere meglio la natura della mobilitazione francese, ne abbiamo parlato con Carlo Formenti, firma autorevolissima di MicroMega,e autore di numerosissimi saggi su temi politici e sociali.

A cura di Filippo Romeo

Quali sono le cause scatenanti che hanno generato tale fenomeno?

Le cause scatenanti sono molte, anche se il tutto è partito da un provvedimento specifico del governo francese, ovvero l’aumento delle tasse che ha fatto crescere il prezzo del carburante delle automobili.
In realtà quello che è successo sembra una conferma da manuale delle tesi del teorico del populismo Ernesto Laclau, il quale appunto sosteneva che in una situazione di crisi dei regimi attuali, che si trovano sempre più in difficoltà a dare risposte differenziate e articolate alle varie domande che nascono dalla base e dal corpo sociale, ci sono circostanze in cui un aspetto particolare innesca una sorta di reazioni a catena – “una catena di equivalenza” – tra diverse forme di rabbia, di rancore e di malcontento popolare. In qualche modo queste sono state sintetizzate nel famoso “programma” dei gilet gialli, una sorta di “Cahiers de doleances” per citare la rivoluzione francese, che abbiamo visto pubblicato sui giornali. L’aumento del costo della vita, rivendicazioni di aumenti salariali, proteste contro le tasse, richieste di restaurazione di condizioni di welfare che sono state intaccate dalle politiche liberiste. Appunto un “Cahiers de doleances” che metteva insieme i motivi di malcontento della stragrande maggioranza del popolo francese che, a differenza di quello italiano, è molto più propenso a scendere in piazza per sostenere le proprie ragioni con un’esplosione spontanea, senza nessuna guida politica. Tale fattore è un elemento che ha spaventato ma, al contempo, assicurato il potere perché si sa che in mancanza di una direzione politica e di un progetto politico queste forme di protesta, anche molto radicali, restano comunque ad un livello superficiale, senza evolvere ad un vero e proprio attacco al sistema costituito. Vediamo, infatti, che piano piano tutto sta rientrando e si sta smorzando. Tuttavia, ha spaventato e inquietato il potere perché gli ha messo di fronte un soggetto con cui è particolarmente impossibile trattare per riconquistarne il consenso e che gli costerà caro in termini elettorali sia alle elezioni europee ma anche a quelle che si susseguiranno.

Autorevoli intellettuali ormai da tempo affermano che la frattura tra classi dominanti e popolo ha contribuito a far superare la vecchia dicotomia destra sinistra. A suo avviso vi è analogia tra queste visioni e il caso francese?

È indubbio che nella loro formulazione tradizionale, o se vogliamo classica, le categorie di destra e sinistra appaiono oggi largamente usurate e in crisi. Non è un caso che anche movimenti populisti che hanno un chiaro legame di continuità storica e con chiari programmi con filoni che erano stati tipici del movimento operaio e quindi della sinistra – penso al movimento Podemos in Spagna e Momentum in Inghilterra che il movimento parallelo e di appoggio a Corbyn, ma potremmo citarne molti altri- esitano o addirittura rifiutano a priori la classificazione di appartenenza ideologica di sinistra perché la considerano penalizzante in quanto riconducibile a leader che hanno praticato politiche impopolari, come Zapatero. Quindi, da questo punto di vista, cade una barriera classica e tradizionale. In realtà, nei fatti, esistono proposte politiche e progetti di aggregazione politica che hanno visioni differenti. Senz’altro non possiamo pensare che Marine Le Pen e Mélenchon in Francia rappresentino la stessa cosa. La questione che crea difficoltà sostanziale nel distinguere destra e sinistra, più sul piano culturale sociale che su quello socio politico, è l’estrema frammentazione dei blocchi sociali di riferimento. Mentre tradizionalmente si pensava alla sinistra come rappresentante degli interessi della classe operaia o comunque delle classi subalterne, del proletariato per utilizzare un termine più ampio, e nelle destre si vedeva i rappresentanti di una conflittualità sovversiva ma di tipo piccolo medio borghese, oggi questa distinzione all’interno del corpo sociale si è fatta più difficile in occidente. La classe operaia occidentale ha infatti subito un drastico ridimensionamento numerico, ma soprattutto ha subito un processo di individualizzazione che non le permette più di riconoscersi in un’identità simbolica tradizionale. Vi è stato, inoltre, un impoverimento della piccola e media borghesia dovuto al processo di finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia che viene trascinata in movimenti di rivolta come quello dei “gilet gialli” in Francia. Vi è, appunto, in questo contesto una dimensione di popolo più che di classe.
Tuttavia, possiamo affermare che a livello di forze “istituzionali di governo” non esistono più differenze perché fanno parte tutti dello stesso blocco. Mentre se esaminiamo le forze che stanno in basso, e che fanno una lotta antisistema, troviamo le differenze dal momento che a tali forze non appartiene un blocco sociale comune, ma ogni forza ha il suo blocco sociale di riferimento. A tal riguardo, se pensiamo all’Italia è chiaro che i blocchi sociali della Lega e del Movimento cinque stelle (che pur essendo forze di governo vengono percepite come forze anti establishment) pur avendo dei punti di contatto hanno notevoli differenze che non sono solo regionali tra nord e sud. Le differenze ci sono ma si stemperano e, contrariamente al passato, diventa una lotta per contendersi lo stesso blocco sociale di riferimento. Qui si decide la nobiltà, la capacità e la virtù dei leader politici nell’interpretare meglio e nell’essere più convincenti, e non soltanto ad essere più bravi sul piano della comunicazione, come banalmente spesso si dice. In questo contesto, il carisma dei leader è decisamente aumentato ma non basta perché, sostanzialmente, è una questione di programmi politici e di chi interpreta meglio gli interessi di questo magma sociale.

Prima o poi questo malcontento dovrà incanalarsi da qualche parte, all’interno di un movimento o di un partito politico?

Tendenzialmente si, anche se non è facile prevedere i tempi e soprattutto le forme organizzative, ideologiche e politiche che assumerà questo processo. Dipende da molti fattori. Vi è un elemento di contingenza molto elevato che noi oggi non siamo in grado di prevedere come la crisi finanziaria che, a detta di molti economisti, potrebbe ripartire. Questo avrebbe ovviamente un impatto devastante su una situazione di conflitto come quella che stiamo vivendo. Probabilmente sarebbe un fattore di accelerazione dei processi. Un altro fattore abbastanza incombente è il precipitare dei conflitti geopolitici, dal momento che siamo di fronte al superamento dell’unipolarismo e il nuovo assetto multipolare trova conferme drammatiche con l’acutizzarsi dello scontro tra Cina e Stati Uniti.

Non crede che questo movimento, nato in maniera del tutto spontaneo, possa essere stato influenzato per indebolire l’Europa?

La situazione oggi dell’Europa è di gravissima crisi a prescindere dal fatto che attori esterni, più ad occidente che ad oriente, abbiano interesse ad un suo ulteriore indebolimento. Tuttavia, non credo che questi attori possano provocare tali fenomeni; al massimo possono sfruttarli e utilizzarli. I fattori della crisi sono endogeni. Vi è un quadro in cui l’Europa si trova in una situazione pazzesca, come se fosse con i piedi posati su due cavalli che cavalcano verso direzioni opposte e non capisce da quale parte deve saltare. La questione dell’Ucraina è paradigmatica. La Germania di suo non avrebbe nessun interesse ad alimentare conflitti con la Russia, tuttavia si è trovata nella situazione di doversi mettere a rimorchio degli interessi statunitensi in quell’area, che sono interessi proiettati verso il Centro Asia per contrastare l’espansione della Cina con il progetto della via della seta. La Cina, paradossalmente, si prodiga per interessi commerciali a mantenere i piedi in Unione Europea. La cosa interessante dal punto di vista globale è che i conflitti intrecciati, caotici, non riconducibili al bipolarismo hanno, però, la caratteristica di mettere contro potenze tecnologico-finanziarie come ad esempio Stati Uniti e Cina; quest’ultima, tuttavia, è anche una potenza industriale, tanto è vero che i suoi investimenti in Africa sono di carattere infrastrutturale. I cinesi in Europa hanno interesse ad acquisire industrie, porti – come il Pireo in Grecia – e, a differenza degli statunitensi, non badano solo al controllo di tipo finanziario. Vi è sostanzialmente questo conflitto in atto. Anche la Germania potremmo definirla una piccola Cina, più forte industrialmente e commercialmente che finanziariamente. È curioso perché questo conflitto potrebbe forse prefigurare la fine dell’egemonia del modello americano, che è consustanziale alla crisi finanziaria, dal momento che una economia di quel tipo ha difficoltà a reggersi. Di qui la forza dell’alternativa civile e di qui anche il grande rischio a livello globale perché, come diceva uno dei miei grandi maestri, Giovanni Arrighi, “nessuna potenza egemone ha mai rinunciato alla sua egemonia mondiale senza prima scatenare una o più guerre.”.

Tra le rivendicazioni fatte dal movimento attraverso i loro manifesti vi è quello della democrazia diretta, cosa pensa a riguardo?

Questo è un elemento che viene fuori un po’ ovunque. In Italia, per esempio, è stato il cavallo di battaglia del Movimento cinque stelle. Io non credo nella democrazia diretta, anzi credo che uno dei gravi problemi che hanno portato al disastro le sinistre, soprattutto quelle movimentiste di fine novecento e primi del nuovo millennio, sia appunto l’orizzontalismo e l’esaltazione della democrazia diretta.
La democrazia diretta non si regge e ha il paradosso di produrre il proprio contrario sul medio lungo periodo. A tal proposito basti osservare la parabola dei cinque stelle che ha portato ad una democrazia plebiscitaria dove vi è un nucleo dirigente che domina in contrastato su qualche migliaio di militanti che votano attraverso la rete della piattaforma Rousseau, mentre la gran massa delle persone non viene affatto coinvolta nel processo decisionale. Quasi sempre si verifica questo: gli anarchici finiscono per essere i più autoritari, questo perché mancano le procedure formali e le garanzie per l’esercizio del potere. Il potere si seleziona, esattamente come avviene in economia con la mano invisibile di Adam Smith, attraverso la concentrazione spontanea monopolistica nelle mani dei più forti. In realtà, tutta questa aspirazione della democrazia andrebbe forse rivista e ripensata con la capacità di avere uno strato intermedio. La cosa più pericolosa è quella che sta accadendo, ovvero del super leader che governa plebiscitariamente senza niente in mezzo. Se notiamo il processo, a prescindere dalle ideologie, è quello della liquidazione dello stato intermedio dei quadri e dei militanti tendendo ad un rapporto diretto alto-basso. Una effettiva partecipazione ai processi decisionali non può esistere se non è garantita da una forte struttura intermedia che abbia cultura, conoscenze, competenze e capacità sia per trasmettere i valori, gli ideali e gli obbiettivi di un progetto politico verso le masse, che per controllare, governare o, nel caso, cambiare la leadership se questa assume tendenze che non rispecchiano il progetto politico.