Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Chi è italiano?

Chi è italiano?

di Francesco Lamendola - 12/01/2019

Chi è italiano?

Fonte: Accademia nuova Italia

Chi è davvero italiano, e chi no? Non basta, lo abbiamo già detto, possedere un pezzo di carta su cui c’è scritto che si è in possesso della cittadinanza; anzi, diciamo pure che ciò non è decisivo. Si può essere italiani nel cuore, se si ama l’Italia, se la sia ama come una madre, e tale può essere il caso di un figlio o un nipote di emigranti italiani in Argentina, o in Australia, o dovunque nel mondo, che in Italia ha mai neppur messo piede; e si può non essere italiani, anche se si è nati in Italia, da genitori italianissimi, e si ha, ovviamente, la cittadinanza italiana. Per quanto riguarda gli immigrati stranieri in Italia: sono italiani innanzitutto se, oltre al possesso della cittadinanza, amano l’Italia, la rispettano, la ammirano, e intendono viverci onestamente, senza pretendere di cambiarla e trasformarla secondo la loro cultura di provenienza; e dunque se la amano, la ammirano e la rispettano in ciò che essa ha di peculiare quanto a civiltà, tradizione, identità, cultura, religione. E la religione che l’ha formata, che l’ha anzi tenuta a battesimo, e che impronta di sé tutta l’arte, la poesia, il pensiero, la cultura, gli usi e le tradizioni, è quella cristiana cattolica; indipendentemente dal fatto che oggi i veri cattolici siano solo una sparuta minoranza. A queste condizioni, sì, si  è italiani, anche se si proviene da tutt’altra parte del mondo. Ma se si viene a vivere in Italia con una riserva mentale, o con una serie di riserve mentali; se si è ben decisi a non vestire all’europea, anzi se si pretende di andare in giro con il niqab e il burqa; se non si rispettano le tradizioni italiane, se non si vuole imparare nemmeno la lingua, tranne lo strettissimo indispensabile, e non si permette ai propri figli di frequentare i loro coetanei italiani, e tanto meno di fidanzarsi con loro; se si ostenta la propria diversità, se si va in moschea non per pregare, ma per coltivare l’odio contro l’Europa e contro la cristianità; se si sollevano mille problemi perché a scuola, il professore di italiano ha osato leggere agli studenti il canto ventottesimo dell’Inferno, ove Maometto è posto fra i dannati, o quello di storia dell’arte ha portato la classe in visita alla basilica bolognese di San Petronio, dove c’è un affresco che raffigura la stessa scena, o se il professore di educazione fisica si è permesso di far correre tutti i suoi ragazzi, compreso il figlio d’immigrati islamici che, osservando il Ramadan, è stanco perché non assume cibo: allora non si è italiani, non si è degni d’essere italiani e si farebbe assai meglio a tornare da dove si è venuti. Non è onesto, infatti, profittare dell’ospitalità altrui, del lavoro offerto da altri, se poi si odia e si disprezza la patria d’adozione: perché la Patria è il luogo in cui si vive, ma soprattutto il luogo che si ama, si ammira e si rispetta.
Ma ci sono anche molti, moltissimi italiani che non sono degni di dirsi tali. Quelli che odiano e disprezzano la propria cultura, la propria civiltà, la propria tradizione, e talvolta sono ancor più  rabbiosi di certi immigrati fondamentalisti, sono idealmente già fuori dalla patria italiana, anzi non ne hanno mai fatto parte. Il guaio è che appartengono spesso a delle categorie sociali e professionali – insegnanti, magistrati, giornalisti, pubblici amministratori – che consentono loro molta visibilità e  permettono loro di fare molto, molto danno, diffondendo ovunque i loro pessimi esempi. Le maestre che sopprimono il Presepio e i canti di Natale per una forma aberrante di “rispetto” verso i bambini di altre fedi religiose; i giudici che usano una indulgenza inesplicabile e del tutto a senso unico nei confronti dei criminali stranieri, rimettendoli in libertà, anche dopo che hanno commesso crimini piuttosto gravi, individui socialmente pericolosi, solo perché, poverini, hanno la pelle più scura, vero e proprio razzismo alla rovescia; i giornalisti che usano il loro potere mediatico per raccontare la realtà quotidiana in maniera falsa, tendenziosa, ideologica, ingannando sistematicamente il pubblico e tratteggiando una “realtà” che esiste solo nella loro testa, ma soprattutto nei disegni indicibili di quelli che pagano loro lo stipendio; i pubblici amministratori, in particolare i sindaci, che calpestano le leggi del Parlamento, approvate e firmate dal Presidente della Repubblica, dichiarando “aperte” le loro città a qualsiasi flusso di clandestini, quasi fossero i capi di tante minuscole repubbliche indipendenti e sovrane: tutti costoro non son degni di essere considerati italiani, per quanto si appellino a “più alte” idealità. In realtà, ciò a cui si appellano sono i cascami di ideologie morte e sconfitte dalla storia, alla cui disfatta non si vogliono rassegnare e che cercano di far rivivere sotto le mentite spoglie di un umanitarismo e di un filantropismo più o meno esplicitamente travestiti, a loro volta, da cristianesimo, e con lo sprone e la benedizione del signore argentino che dice di essere papa (in quel caso sì, prodigo di benedizioni e incoraggiamenti; mentre non lo è, né delle une, né degli altri, quando dovrebbe parlare da cattolico a dei veri cattolici, e invece sa solo insultarli, mortificarli, deprimerli, confonderli). Non sappiamo che farcene di italiani così, e neppure di cattolici così; tanto meno di un papa di tal fatta: no, nessuno di costoro ha il minimo diritto di professarsi italiano (o cattolico), perché la loro patria è l’odio: odio contro l’Italia, contro l’Europa, contro il cristianesimo e la sua civiltà. E come tali essi non appartengono affatto alla nostra civiltà: sono dei corpi estranei, dei meteoriti caduti non si sa di dove, dei parassiti e dei funghi velenosi, che diffondono fra la gente, specialmente fra i giovani, una micidiale pestilenza: il rancore, il disprezzo e l’avversione nei confronti della nostra identità. E dunque, come li si potrebbe considerare italiani? Essi abusano della cittadinanza italiana, dell’appartenenza alla Patria comune: sporcano il proprio nido (c’è una precisa parola tedesca per designare questo genere di persone: Nestbeschmutzer), agiscono come quinte colonne nemiche: sono letteralmente dei traditori della città che dovrebbero difendere, perché da essa hanno ricevuto tutto ciò che sono: la lingua, l’educazione, il senso del bello, del giusto, del vero, tutti valori elaborati dalla nostra civiltà nel corso dei secoli e dei millenni, e che essi vorrebbero gettare nel cestino della carta straccia, con la scusa di sostituirli con valori più nobili, più grandi, più “universali”. Veri figli del cosmopolitismo illuminista, velleitario e cialtrone, quello dei persiani che visitano l’Europa e ne colgono i difetti, ma con occhio molto europeo, anzi, molto parigino, cioè figli e nipotini di Montesquieu e di Voltaire, sono perfettamente inutili. La loro funzione è solo negativa: diffondere confusione, scoraggiamento e auto-disprezzo; sarebbe meglio che sparissero. Non sopportano l’Italia: e perché non se ne vanno? Dietro di loro non resterà niente, assolutamente niente. Provate a chiedere a uno studente, o chiedete a voi stessi, ritornando con la mente ai tempi della scuola media, o del liceo, o dell’università; che cosa ci hanno dato tutti quei professori di sinistra, saccenti, petulanti, boriosi, insofferenti di qualsiasi critica, piattamente conformisti e intimamente vili, perché certi di essere intoccabili, soldati di un esercito d’occupazione che nessuno poteva mettere mai sotto accusa; che cosa hanno lasciato dietro a sé? Quale contributo hanno dato, sia sul piano intellettuale, sia su quello umano, alla crescita e alla formazione dei loro studenti? Loro che mettevano i bei voti a quelli che, interrogati, davano le risposte a essi gradite, per motivi palesemente ideologici, e davano i voti più bassi che potevano ai pochi che si permettevano di pensare con la propria testa e perciò non ripetevano, servilmente pappagallescamente, le loro lezioncine apologetiche su Marx, Lenin, Freud, don Milani e compagnia bella? E ora facciamo un esempio di cosa vuol dire essere italiani.
Il nome di Manfredi Porena (Roma 1873-ivi, 1955) era molto conosciuto ai tempi dei nostri genitori e dei nostri nonni, perché autore di un commento alla Divina Commedia che ebbe molta fortuna nelle scuole; caso strano, era uno dei pochi filologi e storici della letteratura di orientamento non crociano, semmai di una interpretazione “psicologica” dei testi, e quindi contribuì a far capire ai ragazzi del liceo che si poteva essere grandi amanti di Dante, e di poesia in generale, senza essere per forza seguaci dell’estetica di Benedetto Croce, altrimenti onnipresente e onnipotente, con la sua legnosa separazione fra poesia e non-poesia. (la quale è la miglior via per non capir nulla di Dante). Professore all’Università di Roma (benché avesse fatto i suoi studi a Napoli, dove si era trasferita la famiglia, e fu allievo di Francesco d’Ovidio; membro di svariate associazioni culturali, fra le quali l’Accademia d’Italia, poi soppressa per lavare l’orribile macchia di un’accademia creata dal fascismo, Porena non fu solo un filologo e un dantista, ma anche un sincero ammiratore e diffusore della cultura nostra, in Italia e fuori. Ci piace riportare una sua pagina che non attiene ai suoi numerosi studi letterari, ma all’amor di Patria. Così narrava una visita da lui compiuta al carcere, poi divenuto museo, dello Spielberg, in Moravia, dove, fra gli altri, furono rinchiusi alcuni patrioti italiani, sia affiliati alla Carboneria, sia alla Giovine Italia (in: Piero Gribaudi, L’uomo e il suo regno, Torino, S.E.I., 1945, vol. III, pp. 94-95):

Scendiamo a Brno, traversiamo vie commerciali animatissime, una piazza di mercato piena di frutta, uova, oche e pollame; per una viuzza deserta giungiamo a una specie di circonvallazione che da quella parte separa la città dal colle e iniziamo la salita di quel calvario di Italiani su per un pendio trasformato n un bel parco ombroso, a viali serpeggianti, fontane, aiuole, panchine, ove pacifici cittadini tranquillamente conversano o leggono, bambinaie cianciano o lavorano, bambini giuocano. Più si sale, più i rumori della città si attenuano, l’aria si fa più mossa e più fine, le ombre più fresche. A un tratto, in fondo a un viale in ripida salita, il muro grigio e sghembo di un bastione: c’è una lapide sopra. Ci si avvicina alla lapide per leggerla: è in italiano! “Da questi tenebrosi covili, santificata col martirio, uscì vittoriosa la redenzione italiana: 1822-1922”.
Entriamo già profondamente commossi per l’arco della caserma… Varchiamo il fossato e siamo nel castello: un corridoio a volta, un cortile, una scala discendente, e perveniamo nel fossato. Da un lato,  una misera porticina con scritto su: “Kasematy”: le casematte, cioè i sotterranei del castello, dove erano le più rigorose prigioni. Entriamo, scendiamo ancora, camminiamo quasi tentoni n un buio un freddo, un umido, che fanno rabbrividire…
I passi risuonano in un silenzio di tomba. Un lungo tenebroso corridoio, una porticina a sinistra, uno stanzino con due porte laterali che immettono in due celle, tombe nella tomba… A destra quella ove Silvio Pellico, stanco, dolente, febbricitante, fu gittata suo arrivo.
Nude pareti scalcinate e sudice, un tavolaccio senza pagliericcio e senza guanciale, una catena infissa al muro: in alto, all’angolo d’una parete col soffitto, un pertugio da cui ai nostri occhi, che pure hanno dimenticato già il sole, sembra non penetri la benché minima luce…
Dalle prigioni sotterranee, ove il Pellico, grazie al suo grave stato di salute, patì solo per pochi giorni, ma il Maroncelli ed altri, in celle simili, mesi ed anni, passiamo a visitare le men tetre del piano superiore. Si risale nel fossato, di qui nel cortile; e lì una parentesi di non meno commossi, ma meno amari sentimenti ci offre la chiesina del castello, quella dove, dopo alcuni anni di divieto, fu concesso ai prigionieri di andare a sentire la Messa domenicale…
Con le lagrime negli occhi e l’animo sconvolto e raddolcito a un tempo, abbiamo ringraziato anche noi la chiesuola ai prigionieri amica, e siamo passati alla visita delle altre prigioni. Lungo l’ala del castello, che all’ingrosso guarda a settentrione, al livello  del terrapieno che lo circondava, era una lunga fila di celle tutte accessibili da un lungo corridoio posteriore. Il Pellico, prima da solo, poi col Maroncelli, occupava la prima a levante; nella seconda patì e morì di denutrizione Fortunato Oroboni; poi, della stessa morte, Antonio Villa, mentre il compagno di cella di quest’ultimo, Don Marco Fortini, vide, prima del Pellico, la propria liberazione…
Di fuori, accanto alla porta d’ingresso, è infissa nel muro una lapide con parole del Gioberti, tolte dalla dedica al Pellico del famoso “Primato”: “Spielberg non sarà più inferno di vivi né infamia di secolo, ma reliquia di martiri e monumento di virtù patria, cui converranno un dì pellegrine le redente generazioni”.
Non soffermiamoci, in questa sede, su quanto di retorico, ma soprattutto di storicamente discutibile vi può essere, non nello Spielberg come testimonianza di quella vicenda del nostro Risorgimento, ma nell’idea stessa di Risorgimento qui sottesa, con il bianco e il nero nettamente contrapposti, in modo manicheo; ci riproponiamo di ritornare a parlarne un’altra volta. Quel che vogliamo evidenziare di questo brano è il sentimento del Porena, in quanto italiano che riflette e si commuove sul destino di altri italiani, che soffrirono in quel luogo per amore della Patria: e che è senza dubbio autentico. Ecco: questa è una vera testimonianza di italianità, di ciò che intendiamo per essere italiani. Ed è anche una testimonianza di amore alle proprie radici: il che richiede la conoscenza del passato. E se i nostri professori, qualche volta, oltre che ad Auschwitz, portassero i loro studenti anche allo Spielberg, magari tornando da una visita a Praga? Quanti giovani oggi conoscono Silvio Pellico e Le mie prigioni? Ben pochi; forse quasi nessuno. Eppure è dalla conoscenza del passato che sgorga l’amore di ciò che si è, come popolo e come civiltà: e dunque, l’amor di Patria. Per amare l’Italia, bisogna conoscerla; e chi la conosce, come potrebbe non amarla, pur coi suoi difetti?