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Dalle gemelle cinesi alle Kessler, il cerchio è chiuso

di Francesco Lamendola - 15/01/2019

Dalle gemelle cinesi alle Kessler, il cerchio è chiuso

Fonte: Accademia nuova Italia

Due notizie apparentemente del tutto slegate fra loro.

Alla fine di novembre 2018, uno sconosciuto biologo cinese (ma chi li conosce singolarmente, gli scienziati cinesi, in Occidente?), il professor He Jiankui, dell’Università Shenzhen annuncia di aver fatto nascere, in vitro, due gemelline con il Dna modificato, Lulu e Nana. Motivo (ufficiale) di questa sconcertante sperimentazione: far sì che venissero al mondo con un organismo che fosse resistente al virus dell’Hiv.

Quasi sette anni prima, al principio di febbraio 2012, la stampa internazionale aveva riferito che le celebri gemelle Kessler, Alice ed Ellen, il duo femminile più famoso della televisione italiana,  nate nel 1936 e quindi, all’epoca, settantacinquenni, ma perfettamente in salute e ancora belle, brave e attive nel mondo dello spettacolo, avevano rivelato d’aver stretto un patto per la vita e per la morte: se una delle due dovesse mai ridursi, un giorno, allo stato vegetativo, allora l’altra l’aiuterebbe a chiudere, come si usa dire, con dignità.

Eppure, fra le due cose, una relazione forse c’è. A ben guardare, esiste un filo rosso che le collega. Le gemelle Kessler esordiscono, artisticamente, nel 1955; le gemelline cinesi nascono nel 2018: sessantatre anni separano i due eventi, un arco di tempo nel corso del quale la popolazione mondiale  è passata da 2 miliardi e 700 mila a 7 miliardi e 600 mila, vale a dire che  è quasi triplicata. I cambiamenti verificatisi nel campo economico, finanziario, sociale, politico, militare, scientifico, tecnologico, artistico, culturale, filosofico e religioso sono stati immensi: sono successe in proporzione più cose negli ultimi sessanta o settanta anni di quante non ne siano accadute negli ultimi seicento o settecento. Però le Gemelle Kessler, inossidabili, con le loro lunghissime gambe hanno continuato a esibirsi senza mai andare in pensione; ancora nel 2014, ormai vicine al traguardo degli ottanta,  erano ospiti al Festival di Sanremo e facevano la loro figura, eleganti, snelle e agili (quasi) come una volta, ancora capaci di fare qualche passo di danza e di cantare con onore. E intanto gli scienziati, cinesi e non cinesi, in tutto quel tempo, hanno lavorato: zitti, zitti, nei loro laboratori, a partire da quando, nel 1953, avevano scoperto la struttura del Dna. Il loro sogno segreto e inconfessabile, e infatti non l’hanno confessato fino a quando non sono arrivati a fare centro, era di poter generare l’uomo nuovo, frutto della manipolazione del suo codice genetico: in pratica, di sostituirsi a Dio come creatori degli esseri viventi. E mentre gli scienziati, nell’ombra, lavoravano, instancabili, senza dover rendere conto a nessuno, e tanto meno all’opinione pubblica, di quel che andavano sperimentando, le gemelle Kessler, come tutti gli uomini e le donne del mondo, e specialmente della vecchia Europa, vecchia proprio in senso demografico, cominciavano a interrogarsi sul loro futuro, a chiedersi che ne sarà di loro quando le mitiche gambe, il corpo tutto, e specialmente la mente, non le dovesse più sostenere. E sono arrivate alla conclusione che non vale la pena di vivere qualche anno in più, ridotte all’impotenza su una sedia a rotelle, o su un letto di ospedale; e che è meglio, molto meglio, esercitare il diritto di por fine alla propria vita, magari con l’aiuto l’una dell’altra. Così, mentre nei Paesi giovani si pensa a come far nascere la vita, anche artificialmente, anche con le pratiche più discutibili, nei Paesi vecchi si pensa alla morte e a come uscire di scena tramite l’eutanasia.

Nei Paesi del Sud del mondo si fanno figli, così tanti che Paesi come la Cine e l’India hanno dovuto provvedere drasticamente alla limitazione delle nascite, anche con misure coercitive; nei Paesi del Nord, che già sono a crescita zero, si praticano da decenni sia l’aborto che la contraccezione sistematica, ci si fa allacciare le tube, ci si fa sterilizzare, si acquistano cani e gatti da compagnia, ci si “sposa” fra persone dello stesso sesso, oppure ci si prenota per l’eutanasia, anche a costo di aggirare le leggi e, se necessario, di farsi trasportare all’estero, in qualche Paese di più larghe vedute, dove si può liberamente esercitare il diritto di por fine alla propria vita, quando essa è giudicata priva di valore. I radicali, infatti, si sono precipitati a diffondere l’annuncio shock delle Kessler: tutta acqua per far girare le pale del loro mulino. D’altra parte, al di là della contrapposizione fra i due orientamenti esistenziali, c’è un elemento che li accomuna, al punto che possiamo considerarli come le due facce d’una stessa medaglia: la pretesa di esercitare un controllo esclusivo sulla vita e sulla morte. Manipolazione genetica, aborto, eutanasia, sono espressioni di una stessa superbia intellettuale: quella della creatura che non accetta il proprio limite ontologico e vuol farsi padrona della vita e della morte, cioè vuole farsi dio. Lavorano male, questi scienziati che manipolano il codice genetico, e invecchiano male, questi europei che annunciano in anticipo la loro volontà di non continuare a vivere se non alle condizioni da essi stabilite. Il messaggio che lanciano entrambi alle nuove generazioni è sconcertante: la vita non è un dono di Dio, anzi non è affatto un dono, ma una conquista umana; e così come l’uomo ha ormai la capacitò per decidere, da solo, chi far nascere e chi no, e come farlo nascere, e con quale codice genetico, e quindi con quali caratteristiche biologiche, pianificando la sua nascita come un bravo ingegner pianifica la produzione di un certo complesso industriale, così egli può anche decidere quando spegnere l’interruttore, quando restituire il biglietto, per se stesso o anche per un parente, un amico, una persona che glielo chieda con insistenza. Sarebbe una crudeltà inutile, non vi pare?, sia far nascere una creatura svantaggiata, sia prolungare la vita d’un malato senza speranza. Questa, a quanto pare, è tutta la saggezza che due guerre mondiali, alcuni genocidi, un paio di bombe atomiche e altre amenità del genere hanno insegnato agli uomini delle ultime generazioni.

E non sono parole a vuoto. Quando il regista Mario Monicelli, malato di cancro alla prostata, decise di farla finita e si gettò nel vuoto, la sera del 29 novembre 2010, lanciandosi dalla finestra al quinto piano dell’ospedale in cui era ricoverato, aveva toccato la bella età di novantacinque anni. Anche nel suo caso, e sia detto con il debito rispetto verso il dolore altrui, fu il testamento spirituale che lasciò ai giovani e al pubblico che lo aveva amato attraverso i suoi film, in un arco di tempo di svariati decenni. Egli aveva esercitato un ruolo da “maestro” solo attraverso il cinema; aveva anche indossato i panni dell’intellettuale dissidente, del contestatore politico, lanciandosi, davanti a folle numerose, in violente campagne verbali contro i governi da lui ritenuti destrorsi e reazionari. La vita privata gli aveva riservato non poche soddisfazioni, anche sul piano sentimentale e affettivo, almeno secondo gli standard della gente di spettacolo. La sua ultima compagna era stata una ragazza di diciannove anni che si era unita lui, quando ne aveva quasi sessanta, e gli aveva poi dato una figlia quando ne aveva ben settantaquattro. Tre anni prima della morte aveva dichiarato, in un’intervista, di vivere da solo, di non provare alcuna nostalgia per i diversi figli e nipoti, di non avere più versato una lacrima da decenni e di essere un elettore dell’estrema sinistra. Aveva anche spiegato le ragioni della scelta di vivere da solo, con queste parole (riportate su Vanity Fair del 07/06/07, p. 146 e consultabili anche sulla voce a lui dedicata da Wikipedia):

 

Per rimanere vivo il più a lungo possibile. L'amore delle donne, parenti, figlie, mogli, amanti, è molto pericoloso. La donna è infermiera nell'animo, e, se ha vicino un vecchio, è sempre pronta ad interpretare ogni suo desiderio, a correre a portargli quello di cui ha bisogno. Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona, non si muove più e diventa un vecchio rincoglionito. Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere dei fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più.

 

Insomma, una donna quale compagna di vita è troppo sollecita, troppo servizievole; meglio stare da soli, arrangiarsi, farsi il letto e cucinarsi da mangiare, così si guadagnano dieci anni di vita. Il rifiuto dei legami, dell’amore, in nome del diritto a rosicchiare qualche anno di vita in più: niente male come filosofia quantitativa, perfettamente in linea con una società che quantifica e commercializza tutto. Se posso strappare qualche anno alla morte in cambio dell’aridità spirituale, perché no, il prezzo vale bene il risultato: e lasciamo il romanticismo ai romantici, illusi e sognatori. Meglio un cuore arido, come direbbe Cassola, che finire come un vecchio rincoglionito sulla poltrona, con la moglie che ti serve e ti accudisce. In fondo, è la filosofia dell’Uomo dal fiore in bocca di Pirandello: che noia, queste mogli che vorrebbero vivere, invecchiare e morire coi loro mariti. Non se ne può più, sono un autentico flagello; si attaccano all’uomo come le zecche, cioè, come le infermiere, e allora tanti saluti, è finita. Ma davvero c’è così tanto amore nel mondo, e specialmente nella relazione fra l’uomo e la donna, da poterlo disprezzare a questo modo, da poterlo gettare nel cestino della spazzatura con tanta leggerezza, o meglio, con tanta lucidità e con un tale senso di intimo sollievo? A noi non sembra proprio. Può darsi che soffriamo di miopia, o di strabismo, però a noi sembra che la società odierna sia affetta dal problema opposto: che di amore ce ne sia troppo poco, specialmente fra l’uomo e la donna. Per cui buttarlo via nella maniera lucidamente teorizzata da Monicelli, che pure ha dedicato tanti film a parlare dell’uomo, della donna e delle loro relazioni reciproche, è uno spreco immenso e incomprensibile.

Del resto, si tratta di idee e atteggiamenti oggi largamente diffusi nella società, a tutti i livelli; difficile dire se artisti e intellettuali come Monicelli abbiano contribuito a crearle, o si siano limitati a diffonderle, avendone subito l’influsso a loro volta. La filosofia e la letteratura del Novecento sono contrassegnate da questa ambivalenza: smania di creare la vita e terrore di doverla vivere in condizioni ritenute indegne. Per Heidegger (e per Sartre e gli esistenzialisti) la vita umana è un essere-per-la-morte; per Montale la vita è l’esperienza del male di vivere; per Pavese essa è un vizio assurdo. Si può anche ammettere che la vita è bella, o meglio che possiede dei lati gradevoli, ma solo finché ci sorride, finché siamo giovani, sani, efficienti; quando non piace più, quando non diverte più, perde valore e la si può gettare, come fa il bimbo viziato con un giocattolo che ha perso il suo incanto. Si direbbe che il mondo abbia perso il proprio incanto agli occhi degli uomini moderni: meglio corazzarsi contro il dolore, meglio premunirsi contro quel fastidioso incidente chiamato amore; meglio evitare di compromettersi con quella cosa tanto borghese, banale e molesta che sono i legami familiari.Ed ecco l’ideale stoico della divina indifferenza, teorizzato da Montale: l’arte di rendersi inattaccabili e impermeabili al male di vivere; anche a costo di non sentir più nulla, di recidere i legami più naturali. Un padre che, giunto all’età di novantadue anni, dice di non sentire la mancanza dei figli e dei nipoti (e questo dopo aver messo al mondo una creatura quando ne aveva già settantaquattro): è tutto dire. Si può immaginare un egoismo più totale? Si fanno i figli, e poi chi s’è visto, s’è visto; ci penserà qualcun altro, li crescerà qualcun altro. L’importante è vivere il più a lungo possibile; e per vivere a lungo non bisogna avere intorno né mogli, né figli, né nipotini. Le mogli sono delle infermiere indesiderate; i figli, una seccatura; e i nipoti, poi, figuriamoci: corrono, giocano, sai che fastidio. Si dirà che lo stoicismo è una nobile filosofia; e che, se era la filosofia di uomini come Marco Aurelio, non può essere che una gran cosa. Ma lo stoicismo è la classica filosofia della decadenza: nasce con l’ellenismo, trionfa a Roma: quando il mondo antico è in piena decadenza, anzi, si avvia alla dissoluzione morale.

Comunque, andiamoci piano col paragonare lo stoicismo dei greci e dei romani con quello odierno, che è, a ben guardare, un mixer di edonismo e nichilismo: chi vuol esser lieto, sia; di doman non c’è certezza. Non vi è molta nobiltà in questa filosofia, a dire il vero: è meschina, banale, materialista. È la stessa che spinge un uomo a lasciare la moglie cinquantenne per la ragazza ventenne, gettando nel cestino trent’anni di vita in comune, di progetti, di speranze, di difficoltà condivise, di figli allevati insieme. Ma quando arrivano le rughe, la donna tanto amata perde il suo fascino: perché non rimpiazzarla con una ragazzina fresca come una pesca? È una filosofia per uomini (e donne) che non valgono nulla, non val neanche la pena di perdere tempo a discutere con loro. Il guaio è che il mondo ormai è pieno di uomini e donne da nulla, che valgono meno dei vestiti che indossano. Sono gli stessi che, nei laboratori, tessono la loro bava in filamenti mostruosi, come ragni appollaiati al centro della loro tela: fanno esperimenti, giocano col Dna, dicono di voler migliorare la specie umana, di voler difendere la salute contro le malattie. Come sono buoni; e pretendono pure che crediamo a simili balle. La verità è che inseguono un solo dio, la propria illimitata ambizione, la smania di sfondare, di farsi un nome, diventare celebri; e, nello stesso tempo, di assaporare il senso di onnipotenza che viene dal manipolare le leggi stesse della vita. Anche questi sono uomini da nulla: non valgono niente, tirano fuori la vita dalle loro macchine, come l’operaio estrae il pezzo lavorato dalla matrice. A che servono, costoro? Altro non lasceranno, dietro a sé, come diceva Leonardo, che cessi pieni