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Il sacro selvaggio

di Luca Leonello Rimbotti - 18/01/2019

Il sacro selvaggio

Fonte: Italicum

Come rilevò una volta Carl Schmitt, la parola greca “nomos”, che sta per “legge”, ha la stessa radice di “nemos”, che significa “bosco”. Il significato da attribuire a questa straordinaria concordanza è semplice: la legge riposa nel mondo di natura ed essendo in antico – al tempo precristiano della paganitas - la natura un tutto sacro, ecco che anche la legge traeva piena legittimità, non da un qualche patto sociale o da qualche convenzione stipulata semplicemente fra gli uomini, ma dal suo appartenere al dato primordiale della natura originaria. Il sacro. Da qui parte la concezione dell’uomo non come padrone assoluto delle cose del mondo (quale appare nella Bibbia, dove all’uomo si assoggetta tutta quanta la natura), ma come una sorta di “primus inter pares”, soggetto anch’egli alla devozione per le energie della terra. Il sacro. Da qui si apre la divaricazione inconciliabile fra tradizione e modernità. La sacralità è lo scoglio, infranto il quale il precipizio in cui strapiomba la società progressista non ha più limite, conducendo alla disintegrazione dell’umano. La socialità greco-romana, per dire, partiva da un centro di intima identità comune, che era il fuoco sacro di Hestia-Vesta, attorno al quale, come scriveva René Girard, “si stabilisce il culto, si organizza lo spazio, si instaura una temporalità storica, si delinea una prima vita sociale”. Ed è attorno a questo luogo, massimo fra quanti simbolizzano l’unità, che cresce la comunità, qui si rinsaldano i legami, il tempo diventa storia, e sempre qui gli uomini riuniti diventano popolo reso partecipe e compatto dalla volontà di un dio della stirpe.
Sacro è ciò che deve rimanere puro e intoccato, è il luogo del vero e dell’eterno, il simbolo in cui bene e male si sublimano in una superiore unità e in cui, come accadeva nell’antichità, si attua il sacrificio che salva la città, intrecciando i rapporti col divino, nella superba accettazione di tutto quanto è vita, natura, realtà. Ciò fece considerare sacra anche la violenza (come insegnarono proprio Girard e Durckheim), poiché esiste una violenza liberatrice e salvifica. Una violenza divina e giusta. E dunque il terribile e il dolce, il sereno e il turbinoso, persino il mostruoso e il sublime, sono tutti momenti del sacro, che accoglie, distribuisce, ordina.
E c’è di più: il sacro è anche violenza, e non può non essere anche violenza, non per casualità ma per il motivo stesso del suo esistere. Esso rappresenta la suddivisione, la separazione, la discriminazione fra ciò è alto e ciò che è basso, il “pro-fano”, cioè ciò che sta fuori dal sacro. In un’epoca infima di valori e grassa di rozza incultura come quella in cui viviamo, dedita alle demagogie plebee sull’abbattimento dei “muri” e sulla “cittadinanza del mondo”, questi significati sono incomprensibili, così come l’arte, la bellezza, la nobiltà giungono ogni volta incomprensibili alle masse di tangheri massificati.
E l’appartenenza, in cui si celano l’unico e l’irripetibile, e poi la tensione religiosa, che scruta i destini per proiettare la vita nell’altrove, anche l’appartenenza, come l’identità, ha da essere pura di immacolata intangibilità. Qualcosa da proteggere con le buone e con le cattive, poiché con la sopravvivenza o con la sparizione dell’appartenenza si gioca la gloria oppure l’infamia, il bello oppure il brutto, la vita oppure la morte. Prendiamo Cristo, il grande profeta-dio tradito dai cristiani e rinnegato dall’usurpatore vaticano.
L’evangelista Matteo (10, 34-36) riporta le parole del Cristo: “Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace ma la spada. Sono venuto infatti a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre e la nuora dalla suocera”. La spada di Cristo è quella cosa che intendeva portare ovunque la parola di luce di una verità superiore, per la quale essere significava accettare la natura per come è stata creata ed essere uomo significava innalzare il male fino all’altezza del bene, trasmutandolo.
La violenza, quindi, come scoglio esistenziale e prova vitale iniziatica che reca il dolore, sommo tra tutti gli insegnamenti da superare e da vincere per trasfigurarsi. Queste culminazioni le religioni del passato ben conoscevano, e la cristiana non meno delle pagane. Fino a quando il moralismo anti-vitale del cosmopolitismo attuale, con la pervicacia dell’infimo che vuole tutto ridurre alla propria bassura, non ha soffocato il vero amore, sostituendo quello originario, che fu un “prendere per donare”, con il plebeo e ipocrita “donare per prendere”.
Chi ha studiato a fondo l’antropologia del sacro ha notato che la nostra società è sprofondata nella finzione e nell’inganno nel momento in cui ha cessato di credere nella vita, immaginandosi un mondo artificiale, irto di inganni. Il regalo degli illuministi all’umanità è stato la menzogna di un “mondo migliore” fatto di diritti immaginari, anziché di doveri reali. Il suono falso che ha l’amore proclamato oggi dalle agenzie umanitarie ne tradisce l’artificio: ciò dipende in buona misura dall’avere azzerato la sacralità delle cose e dei rapporti, riducendo la mistica alla sociologia, e dall’avere promosso – come ha scritto Umberto Galimberti – “l’assurda pretesa di eliminare la violenza” dal mondo, riducendo la società a un asilo d’infanzia per uomini lobotomizzati e impotenti, cui si narrano fiabe dementi e malvagie.
Il mondo spoglio e desertico di oggi non conosce la potenza intuitiva di una vibrazione che coglie la diversità – paurosa e abissale – nella dimensione dell’ulteriore, stabilendo per l’uomo una possibilità di innalzamento. La mistica primordiale è la prima e più originaria delle forme di proiezione che tendono all’assoluto. Forme di religiosità, qualcosa dunque che lega, unisce, vincola. Una società che vivesse di epica e di mito, come anche nella piena modernità sarebbe possibile, potrebbe stabilire un nuovo collegamento fra uomo e origine, restaurando la rottura razionalista voluta dai grandi mestatori cosmopoliti.
Come precisato da Alain de Benoist, è proprio il sacro a gettare un discrimine fra il plurale e l’uniforme, fra la ricchezza della diversità e l’omologazione universale. Il progetto abramitico di unificazione dell’umanità sotto un unico dio è il rinnegamento della vita ineguale e la guerra aperta ad ogni religiosità cosmica, di quelle che celebravano il multiforme della creazione, ma sposando in un’unica armonia umano e divino. Tale armonia era garantita dalla continuità del sacro, rappresentata dal rito e dal simbolo eternamente presenti nella vita associata.
Il disincanto prende posto quando il vizio razionalista diventa cultura egemone tra le élites di comando. Già lamentato cent’anni fa da Max Weber, il disincanto (“Entzauberung”) – come desacralizzazione e appiattimento o addirittura assenza di dimensione magica - diventa agnosticismo di preti laici intolleranti e violenti, i creatori del “partito unico” nel campo dei valori, che oggi spadroneggia come un vento di dissoluzione. Qui si annida la contraddizione sanguinosa fra il progressismo che distrugge l’uomo e la terra, e i suoi ipocriti proclami di ultimo umanesimo.
Ridotti la religiosità, il sacro, il mito a “sovrastruttura” – come recita il lessico marxiano e postmarxiano – non resta che la disperazione dell’uomo modernizzato, alla ricerca di parodie del sacro e contraffazioni di miti e magismi, lacerandosi nel rimpianto di essere stato l’esecutore della brutale condanna a morte della natura e del suo pulsante organismo. Questo è il risultato di due-tre secoli di supremazia razionalista e materiale sul lato solare e lussureggiante, umido e fecondo delle culture umane, cioè sul pensiero mitico, sacrale e spirituale, egemone nei sistemi tradizionali.
C’è chi ha individuato la disintegrazione coscienziale e sociale in atto ad ogni latitudine nella perdita del centro causata dal prepotere dell’utopia. Le fissazioni suicide del pacifismo, della rinuncia alla vita, della renitenza come scelta esistenziale, dell’uguaglianza e dei diritti universali hanno portato diritto all’abbattimento del centro, che in ogni agglomerato umano aveva sempre signoreggiato come corrispettivo relativo del centro assoluto cosmico. La tradizione conosce un centro per ogni cultura, per ogni gruppo umano.
E proprio qui ha colpito duro il violento utopismo progressista. Che sa ciò che fa. Sa che colpendo l’identità nel cuore del sacro, nel centro del simbolo, l’edificio dell’appartenenza tradizionale prima o poi crolla. E a poco serve che qualcuno, qua e là, forse per distrazione, per stravaganza, denunci il misfatto, asserendo che il sorgere di “centri” fittizi, cioè le realtà rovesciate, i valori invertiti, ha comportato la disintegrazione della realtà e il successo della sopraffazione ugualitaria-cosmopolita. Come è stato osservato, il contemporaneo vede sorgere ovunque falsi “centri” imposti col sopruso e la violenza, “senza rispetto per la volontà delle persone, dei caratteri, delle conformazioni razziali, delle congenialità o meno, delle tendenze naturali e soprattutto delle culture” . Molto giusto. Ma il tempo delle denunce cartacee è finito. Adesso è il momento delle parole di fuoco che spingono ad agire. È il momento di disseppellire l’atavico, il primordiale, il selvaggio. Tutti strumenti di salvezza. Adesso è il tempo di passare all’azione.