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Basi, basi, ovunque… tranne che nel rapporto del Pentagono

di Nick Turse - 23/01/2019

Basi, basi, ovunque… tranne che nel rapporto del Pentagono

Fonte: Aurora sito

Come ricorda Nick Turse di TomDispatch oggi, gli Stati Uniti rimangono una presenza militare imperiale diversa da qualsiasi altra, non solo oggi, ma nella storia dell’imperialismo. Mai un solo Paese ha avuto così tante basi militari su così tante parti della Terra. Si consideri un fatto sorprendente del 2019, come fu, diciamo, degli anni ’50 o ’90 dopo la Guerra Fredda. Quante basi di questo tipo? Come chiarisce Turse, nessuno lo sa davvero, forse nemmeno il Pentagono. E ancora più curioso la vasta infrastruttura globale, che è “l’impero delle basi” (secondo la frase eloquente di Chalmers Johnson) viene appena notata in quello che, dall’11 settembre, è conosciuta come “patria”. Pochi qui badano a tali guarnigioni globali (sebbene negli ultimi anni vi siano state schierate centinaia di migliaia di nordamericani); i media che seguono ogni tweet presidenziale come se fosse una missiva dell’imperatore non le nominano quasi mai, tanto meno ne parlano; e nessuno, a parte Turey e alcuni studiosi, sembra avere il minimo interesse a contarli, molto meno a considerarne il costo o persino il ruolo globale che giocano in questi anni. Internamente, sono essenzialmente dispersi, il che significa che manca anche la visione di come gli Stati Uniti si siano posizionati su questo pianeta.
Con ciò in mente, riconosciamo qualcos’altro in questo nostro strano momento: mentre tale massiccia struttura di base rimane saldamente al suo posto, il potere imperialista statunitense è sempre più un altro argomento. Dovrebbe essere abbastanza chiaro ormai, nonostante il recente profluvio di selfie notturni di Donald con le truppe statunitensi nella base aerea al-Asad in Iraq, come dice la CNN, “la difficile situazione della sicurezza limita ancora Trump a una visita clandestina 15 anni dopo l’invasione nordamericana”, sembra poter lanciare da sé il processo con cui il sistema imperiale statunitense, costruito negli ultimi tre quarti di secolo, potrebbe essere smantellato. Il ritiro siriano e il possibile ritiro dall’Afghanistan potrebbe essere solo una goccia nel mare, ma un giorno, che mare potrebbe rivelarsi! È ovvio che l’uomo che divenuto primo candidato declinante alla presidenza, l’unico a voler riconoscere nel 2016 che gli USA non sono più così “grandi”, sembra intenzionato, anche se ottusamente, ad iniziare il processo di smantellamento. Ha chiaramente l’impulso ad abbattere le istituzioni internazionali e di respingere la rete di alleati asserviti che Washington ha accuratamente composto in decenni per rafforzare il proprio potere globale. Eppure, non etichettarlo ancora come demolitore in capo. Alla fine, Donald Trump potrebbe davvero dimostrare di essere l’equivalente statunitense di uno dei matti imperatori che distrusse l’impero romano, un Caligola nato nel Queens. Per il momento, tuttavia, pensatelo invece come a un inviato e messaggero di ignoti dei del XXI secolo, sintomo di un processo che va avanti da anni. Dopotutto, non si assume alcuna responsabilità per il fatto che l’autoproclamata maggiore potenza militare di sempre, nel combattere guerre infinite, dall’11 settembre nonostante quell’impero di basi è sempre meno capace d’imporre militarmente la propria volontà o altrimenti su parti sempre più grandi del pianeta.
Tom

Basi, basi, ovunque… tranne che nel rapporto del Pentagono
Nick Turse

L’esercito statunitense sta finalmente ritirandosi (o meno) dalla base ad al-Tanaf. Sapete, il posto che il governo siriano indica da tempo come campo di addestramento dei combattenti dello Stato Islamico (SIIL); il corridoio appena in Siria, vicino ai confini iracheni e giordani, che la Russia ha definito focolaio terroristico (pur fluttuando l’idea di amministrarlo congiuntamente cogli Stati Uniti); l’ubicazione di un campo in cui centinaia di marines statunitensi si univano alle forze speciali l’anno scorso; un avamposto che i funzionari statunitensi sostenevano sia la chiave non solo per sconfiggere lo SIIL, ma anche, secondo il generale Joseph Votel, comandante delle forze statunitensi in Medio Oriente, per contrastare “le attività maligne che l’Iran e vari agenti e surrogati vorrebbero perseguire”. Sapete, quella al-Tanaf. A poche ore dall’annuncio del presidente Trump del ritiro delle forze statunitensi dalla Siria, le attrezzature di quella base erano già state impacchettate per essere rimosse. E proprio così, probabilmente la più importante guarnigione statunitense in Siria è stata (forse) indicata sulle carte del Pentagono, eccetto che, come accade, al-Tanaf non lo è mai stata. Aperto nel 2015 e, fino a poco prima sede di centinaia di truppe mordamericane, era una delle tante basi militari poste tra luce ed ombra, un avamposto estero riconosciuto che in qualche modo non è mai stato effettivamente inserito nell’inventario ufficiale delle basi del Pentagono. Ufficialmente, il dipartimento della Difesa (DoD) gestisce 4775 “siti”, distribuiti in tutti i 50 stati, otto territori degli Stati Uniti e 45 Paesi stranieri. Un totale di 514 di questi avamposti si trova all’estero, secondo il portafoglio immobiliare mondiale del Pentagono. Solo per iniziare una lunga lista, queste includono basi nell’isola dell’Oceano Indiano di Diego Garcia, a Gibuti nel Corno d’Africa, così come in Perù e Portogallo, negli Emirati Arabi Uniti e nel Regno Unito. Ma la versione più recente di quel portafoglio, pubblicata all’inizio del 2018 e nota come Base Structure Report (BSR), non fa alcuna menzione di al-Tanaf. O del resto qualsiasi altra base in Siria. O in Iraq. O in Afghanistan. O Niger. O Tunisia. O Camerun. O Somalia. O qualsiasi luogo in cui tali avamposti militari sono noti e persino, a differenza della Siria, si espandono. Secondo David Vine, autore di Nazione delle Basi: come le basi militari statunitensi all’estero danneggiano gli USA e il mondo, ci potrebbero essere centinaia di basi simili nel mondo. “I siti assenti riflettono la mancanza di trasparenza implicata nel sistema di ciò che ritengo ancora essere circa 800 basi statunitensi al di fuori dei 50 stati e di Washington, DC, che punteggiano il globo dalla Seconda guerra mondiale”, dice Vine, che è membro fondatore della neoistituita Overseas Base Realignment and Closure Coalition, gruppo di analisti militari da tutto lo spettro ideologico che sostengono la riduzione dell’impronta globale delle forze armate statunitensi. Tali basi fuori-rendconto sono tali per un motivo. Il Pentagono non vuole parlarne. “Ho parlato coll’addetto stampa responsabile del rapporto sulle Strutture delle basi e non ha nulla da aggiungere e nessuno è disponibile a discutere ulteriormente di questo momento”, aveva detto a TomDispatch la portavoce del Pentagono, tenente-colonnello Michelle Baldanza, chiestole quali sono le tante basi misteriose del dipartimento della Difesa. “Le basi non documentate sono immuni alla supervisione dal pubblico e spesso persino dal Congresso”, spiega Vine. “Le basi sono una manifestazione fisica della politica estera e militare degli Stati Uniti, quindi le basi fuori-rendiconto significano che il ramo militare ed esecutivo decide tale politica senza dibattito pubblico, spendendo spesso centinaia di milioni o miliardi di dollari e potenzialmente coinvolgendo gli Stati Uniti in guerre e conflitti di cui la maggior parte del Paese non sa nulla”.

Dove sono?
La coalizione di riallineamento e chiusura delle basi all’estero rileva che gli Stati Uniti possiedono il 95% delle basi militari estere del mondo, mentre Paesi come Francia, Russia e Regno Unito ne hanno forse 10-20 ciascuna. La Cina solo una. Il dipartimento della Difesa si vanta persino che le sue “posizioni” comprendono 164 Paesi. In altre parole, ha una presenza militare in circa l’84% delle nazioni del pianeta, o almeno il dipartimento della Difesa l’affermò brevemente. Dopo che TomDispatch s’informò sul numero da una nuova pagina web progettata per raccontare la “storia” del Pentagono al grande pubblico, fu cambiata rapidamente. “Apprezziamo la sua diligenza nell’approfondire”, aveva detto la tenente-colonnello Baldanza. “Grazie alle sue osservazioni, abbiamo aggiornato defense.gov dicendo più di 160”. Ciò che il Pentagono ancora non dice è come definisce “postazione”. Il numero 164 traccia approssimativamente le attuali statistiche sugli effettivi del Dipartimento della Difesa, mostrando dispiegamenti di personale in varie dimensioni in 166 località “oltremare”, comprese alcune nazioni con un numero simbolico di militari statunitensi ed altre, come Iraq e Siria, dove la dimensione della forza era ovviamente molto più grande, anche se non indicata dalla valutazione. (Il Pentagono recentemente affermava che c’erano 5200 soldati in Iraq e almeno 2000 in Siria, anche se quel numero dovrebbe ridursi notevolmente). Il resoconto “oltremare” del dipartimento della Difesa, tuttavia, elenca anche truppe in territori statunitensi come Samoa, Porto Rico, Isole Vergini e Wake. Decine di soldati, secondo il Pentagono, sono anche schierati nel Paese di “Akrotiri” (che in realtà è un villaggio sull’isola di Santorini in Grecia) e altre migliaia si trovano in luoghi “sconosciuti”. Nell’ultimo rapporto, il numero di tali truppe “sconosciute” supera 44000. Il costo annuale dello schieramento di personale militare statunitense all’estero, oltre a mantenerne e gestirne le basi, si aggira sui 150 miliardi di dollari stimati, ogni anno, secondo la coalizione di riallineamento e chiusura delle basi oltremare. Il prezzo per i soli avamposti ammonta a circa un terzo del totale. “Le basi statunitensi all’estero costano fino a 50 miliardi di dollari l’anno, denaro che potrebbe essere utilizzato per far fronte a pressanti bisogni su istruzione, sanità, edilizia ed infrastrutture”, sottolineava Vine. Forse non sorprenderà sapere che il Pentagono è anche un po’ confuso sui posti in cui si trovano le sue truppe. Il nuovo sito web del dipartimento della Difesa, ad esempio, contava “più di 4800 siti della difesa” in tutto il mondo. Dopo che TomDispatch chiese informazioni su questo totale e in che modo si riferisse al conteggio ufficiale di 4775 siti elencati nel BSR, il sito fu modificato in “circa 4800 siti della difesa”. “Grazie per aver sottolineato la discrepanza. Mentre passiamo al nuovo sito, lavoriamo all’aggiornamento delle informazioni”, aveva scritto la tenente-colonnello Baldanza. “Si prega di fare riferimento al rapporto Struttura delle basi che ha gli ultimi dati”. Nel senso letterale, il rapporto Struttura delle basi ha effettivamente gli ultimi dati, ma la loro accuratezza è un’altra questione. “Il numero di basi elencate nel BSR ha da tempo scarsa relazione col numero effettivo di basi statunitensi al di fuori degli Stati Uniti”, afferma Vine. “Molte, molte basi note e segrete sono state a lungo escluse dalla lista”. Un primo esempio è la costellazione di avamposti che gli Stati Uniti hanno costruito in Africa. L’inventario BSR ufficiale elenca solo una manciata di siti, sull’Isola dell’Ascensione e anche a Gibuti, Egitto e Kenya. In realtà, però, ci sono molti altri avamposti in molti altri Paesi africani.
Una recente indagine d’Intercept, basata su documenti ottenuti dal Comando Africa degli USA (AFRICOM) attraverso il Freedom of Information Act, rivelava una rete di 34 basi raggruppate nel nord ed ‘ovest del continente e nel Corno d’Africa. La “posizione strategica” di AFRICOM è costituita da più ampi avamposti “duraturi”, tra cui due siti operativi a termine (FOS), 12 posizioni di sicurezza cooperativa (CSL) e 20 siti più austeri noti come posizioni di emergenza (CL). L’inventario ufficiale del Pentagono include i due FOS: Ascensione e il gioiello della corona delle basi africane di Washington Camp Lemonnier, a Gibuti, allargatosi da 88 acri nei primi anni 2000 a quasi 600 oggi. Il rapporto Struttura delle basi tuttavia, manca un CSL in quel Paese, Chabelley Airfield un avamposto di basso profilo situato a 10 chilometri di distanza ed hub dei droni per le operazioni in Africa e Medio Oriente. Il conteggio ufficiale del Pentagono menziona anche un sito dal confuso nomignolo “NSA Bahrain-Kenya”. L’AFRICOM l’aveva precedentemente descritto come serie di magazzini costruiti negli anni ’80 nell’aeroporto e porto di Mombasa, in Kenya, ma ora appare sulla lista del 2018 di quel comando come CSL. Manca tuttavia un’altra base keniana, Camp Simba menzionata in uno studio interno del Pentagono del 2013 sulle operazioni segrete dei droni in Somalia e Yemen. All’epoca esistevano almeno due aerei di sorveglianza con equipaggio umano. Simba, struttura a lungo raggio della Marina, è attualmente gestita dal 475th Expeditionary Air Base Squadron dell’Air Force, parte del 435th Air Expeditionary Wing. Il personale di tale stormo si trova in un altro avamposto che non compare nel Rapporto Struttura delle Basu, sul lato opposto del continente. Il BSR afferma di non elencare informazioni specifiche su “località non statunitensi” di meno di 10 acri di dimensioni o che valgono meno di 10 milioni di dollari. Tuttavia, la base in questione, Air Base 201 ad Agadez, in Niger, ha già un costo costruzione di 100 milioni, una somma che presto verrà eclissata dal costo di gestione della struttura: circa 30 milioni all’anno. Entro il 2024, quando l’attuale accordo decennale per l’uso della base terminerà, i costi di costruzione e operativi avranno raggiunto circa 280 milioni di dollari. Inoltre, mancano dal BSR gli avamposti nel vicino Camerun, tra cui una vecchia base a Douala, aeroporto di droni nella remota città di Garoua e una struttura conosciuta come Salak. Quel sito, secondo un’indagine del 2017 d’Intercept , Forensic Architecture e Amnesty International, fu utilizzato da personale e contractor privati statunitensi per le missioni di sorveglianza e addestramento dei droni e dalle forze alleate del Camerun per l’imprigionamento illegale e tortura. Secondo Vine, mantenere segrete le basi africane statunitensi è vantaggioso per Washington. Protegge gli alleati del continente da possibili opposizioni interne alla presenza di truppe nordamericane, osservava, contribuendo nel contempo a garantire che non ci sia alcun dibattito negli Stati Uniti su tali spese ed impegni militari. “È importante che i cittadini statunitensi sappiano dove si trovano le loro truppe in Africa e altrove nel mondo”, aveva detto a TomDispatch, “perché quella presenza di truppe costa miliardi di dollari ogni anno e perché gli Stati Uniti sono coinvolti, o potenzialmente coinvolti, in guerre e conflitti che potrebbero sfuggire al controllo”.

Quelle basi mancanti
L’Africa non è certo l’unico posto in cui la lista ufficiale del Pentagono non si sposa con la realtà. Per quasi due decenni, il rapporto sulla Struttura delle basi ignorò le basi di ogni sorta nelle zone di guerra attive degli USA. Al culmine dell’occupazione nordamericana in Iraq, ad esempio, gli Stati Uniti vi avevano 505 basi, che vanno dai piccoli avamposti alle megastrutture. Alcuna è mai apparso nei documenti ufficiali del Pentagono. In Afghanistan, i numeri erano ancora più alti. Come riportato da TomDispatch nel 2012, la Forza internazionale di assistenza alla sicurezza guidata dagli Stati Uniti (ISAF) contava circa 550 basi in quel Paese. Se aveste aggiunto i checkpoint ISAF – piccole basi usate per proteggere strade e villaggi, al conteggio di mega-basi, basi operative avanzate, basi da combattimento e basi di pattugliamento, il numero raggiunse un sorprendente 750. E contando tutte le installazioni militari straniere di ogni tipo, comprese le strutture logistiche, amministrative e di supporto, il conteggio ufficiale dell’ISAF Joint Command saliva a 1500 siti. La parte significativa di esse era statunitense, tuttavia, erano anche misteriosamente assente dal conteggio ufficiale del dipartimento della Difesa. Ora ci sono molte meno strutture in Afghanistan, e il numero potrebbe diminuire ulteriormente nei prossimi mesi con la diminuzione delle truppe. Ma l’esistenza di Camp Morehead, Forward Operating Base Fenty, Tarin Kowt Airfield, Camp Dahlke West e Bost Airfield, così come Camp Shorab, piccola installazione che occupava quello che un tempo era il sito delle basi gemelle molto più grandi conosciute come Camp Leatherneck e Camp Bastione, è indiscutibile. Eppure alcuna di esse mai apparso nel Rapporto Struttura delle Basi. Allo stesso modo, mentre non ci sono più le oltre 500 basi statunitensi in Iraq, negli ultimi anni, quando le truppe statunitensi sono tornate da quel Paese, alcune guarnigioni sono state ricostituite o costruite da zero, come il Besmaya Range Complex, Firebase Sakheem, Firebase Um Jorais e la base aerea al-Asad, così come il Qayyarah Airfield West, una base a 40 miglia a sud di Mosul, meglio conosciuta come “Q-West”. Di nuovo, non ne troverete alcuna elencata nel conteggio ufficiale del Pentagono. Oggigiorno è persino difficile ottenere numeri precisi sul personale militare nelle zone di guerra degli USA, per non parlare del numero di basi in ognuna di esse. Come spiega Vine, “I militari mantengono i dati segreti, in certa misura per nascondere la presenza di base agli avversari. Poiché probabilmente non è difficile individuare queste basi in luoghi come Siria ed Iraq, tuttavia la segretezza è principalmente volta ad impedire il dibattito interno su denaro, pericolo e morte interessati, nonché ad evitare tensioni diplomatiche e inchieste internazionali”. Se soffocare il dibattito interno controllando le informazioni è l’obiettivo del Pentagono, fa un ottimo lavoro da anni evitando le domande sulla sua postura globale, o su ciò che il defunto Chalmers Johnson chiamava “l’impero delle basi” degli USA.
A metà ottobre, TomDispatch chiese a Heather Babb, altra portavoce del Pentagono, i dettagli sugli avamposti in Afghanistan, Iraq e Siria assenti dal rapporto sulla struttura delle basi, nonché sulle basi africane assenti. Tra le altre domande poste a Babb: potrebbe il Pentagono offrire un conteggio semplice, se non un elenco. di tutti i suoi avamposti? C’era un vero conteggio delle strutture oltreoceano, anche se non rilasciato al pubblico, una lista, cioè, che in realtà ha fatto ciò che il Report Struttura Base pretende solo di fare? Ottobre e novembre passarono senza risposte. A dicembre, in risposta alle richieste di ulteriori informazioni, Babb rispose fermamente in linea con la ben nota politica del Pentagono di tenere all’oscuro i contribuenti statunitensi sulle basi che pagano, a prescindere dalla difficoltà teorica di negare l’esistenza di avamposti che vanno da Agadez in Niger a Mosul in Iraq. “Non ho nulla da aggiungere”, disse, “alle informazioni e ai criteri del rapporto”. La decisione del presidente Trump di ritirare le truppe statunitensi dalla Siria significa che il rapporto sulla struttura delle basi del 2019 sarà probabilmente il più accurato degli ultimi anni. Per la prima volta dal 2015, l’inventario degli avamposti del Pentagono non mancherà più la guarnigione di al-Tanaf (o, ancora, forse sì). Ma ciò lascia potenzialmente ancora centinaia di basi fuori-conteggio assenti dai dati ufficiali. Considerate un avamposto in meno e chissà quanti ne potrebbero mancare.

Traduzione di Alessandro Lattanzio