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Venezuela. Dal sogno all’inferno

di Roberto Pecchioli - 29/01/2019

Venezuela. Dal sogno all’inferno

Fonte: Ereticamente

Una volta di più, chi cerca di creare paradisi attraverso l’ideologia finisce per costruire inferni. E’ il caso della crisi del Venezuela, giunta a una svolta dopo le manifestazioni del 23 gennaio e l’autoproclamazione a presidente di Juan Guindò, il giovane capo del Parlamento controllato dall’opposizione al regime presieduto da Nicolàs Maduro, il successore di Hugo Chàvez, ispiratore della rivoluzione detta bolivariana morto nel 2013, stroncato da un cancro assai sospetto.
Chi scrive, pur da posizioni ideologiche molto distanti, ha sostenuto con forza Chàvez e oggi non riesce a nascondere un’amarezza profonda per il fallimento di Maduro. Il Venezuela, forte di un’immensa ricchezza di petrolio, le cui riserve non sono inferiori a quelle dell’Arabia Saudita, alla fine del secolo XX e nel primo decennio del XXI riuscì a rovesciare la logica imperiale delle grandi compagnie estrattive americane. Profitti immensi per loro, royalties di modesta entità allo Stato, la direzione strategica di impianti e produzione all’estero, il controllo dei proventi spettanti al Venezuela, ovviamente in dollari, all’alleanza ferrea con i settori dominanti della politica locale, dell’esercito, dell’industria, interessati a trasferire in America i loro profitti.
L’idea di Chàvez era semplice e ovvia: il petrolio è dei venezuelani, dunque il denaro che genera deve rimanere in Patria e diventare il volano del riscatto della popolazione e dello sviluppo della nazione. Il recupero della sovranità nazionale si univa a un acceso antimperialismo nel sogno di ascendenza bolivariana di un’integrazione latino americana. Il presidente, in alleanza con Gheddafi, riuscì a orientare per anni la politica dell’OPEC, il cartello dei paesi produttori di petrolio, tenendo in scacco il gigante USA e le multinazionali del settore. A Cuba il Venezuela vendeva greggio in cambio di assistenza sanitaria (petrolio contro medici), la sua nuova costituzione esprimeva innovazioni profonde. Veniva sancito il diritto al mantenimento dell’identità per le popolazioni indigene, l’intangibilità della natura definita “madre”, l’istituzione di procedure di democrazia diretta sino al referendum revocatorio dello stesso presidente. Chàvez, memore del recente rovinoso fallimento del comunismo sovietico, riuscì anche a mantenere le distanze dall’ortodossia marxista leninista e fu in grado di trovare un equilibrio con gli imprenditori privati, che avevano costruito un discreto settore industriale e di trasformazione dei prodotti agricoli.
La reazione imperialista è stata furiosa sin dall’inizio. Abituati a dominare il continente dai primi decenni del secolo XIX in base alla nota dottrina Monroe (l’America agli americani), gli Usa le hanno tentate tutte contro il Venezuela. Tentativi di colpi di Stato, disinformazione, propaganda, embargo, la manipolazione del prezzo del petrolio. Dopo la morte di Chàvez, tutto è peggiorato. Dal 2014, poi, il prezzo del petrolio è pressoché dimezzato, con drammatiche conseguenze per l’economia del Venezuela. Alla pressione del vicino settentrionale si sono aggiunte quella del Brasile e della Colombia, nulla è stato risparmiato a Caracas. Tuttavia, nessuna pressione esterna può giustificare un fallimento epocale come quello che soffrono sulla loro pelle 30 milioni di venezuelani.
Tre milioni di profughi tra Brasile e Colombia, con le conseguenze civili e umanitarie che possiamo immaginare, la miseria e persino la fame per milioni di persone, una corruzione spaventosa, la distruzione sistematica dell’agricoltura e della fragile industria, un’inflazione che galoppa verso un iperbolico milione per cento, fuga di capitali, mercato nero generalizzato, violenza e criminalità padrona delle strade, con almeno 25mila omicidi all’anno, settanta, ottanta volte l’Italia. In più, l’infamante sospetto che l’esercito e una parte del governo traffichino con i narcos colombiani.

I guerriglieri marxisti della FARC, in effetti, controllano una parte del territorio dello Stato vicino e incassano una parte dei proventi dell’economia criminale, i cui vertici non sono ovviamente i cartelli degli spacciatori, ma cupole finanziarie e politiche indicibili. Il Venezuela è oggi una società spappolata in un tessuto comunitario e nazionale inesistente. Tutto ciò non è responsabilità dei potenti nemici del Venezuela, ma di una gestione del potere assolutamente folle.
I nodi sono venuti al pettine, complice l’inasprimento delle sanzioni americane e l’attivismo politico del presidente brasiliano Bolsonaro, in sintonia con la vicina Colombia. L’opposizione controlla il parlamento e per la prima volta, oltre a un fronte internazionale di sostegno, può contare su un vero capo, il giovane Guindò, e soprattutto su una base sociale nuova e più ampia. Tra la moltitudine scesa in piazza (un milione a Caracas, oltre alla folla di altre 60 città), per la prima volta c’erano masse provenienti dalle favelas e dai quartieri popolari tradizionali bastioni chavisti. La fame non ha bandiera, la disperazione non conosce ideologia. L’innesto del più cupo collettivismo ideologico, unito alla violenza e alla corruzione, ha ucciso una grande speranza.
Nei primi anni di Chàvez, inevitabilmente, le sovvenzioni furono date a pioggia, per combattere la miseria. Successivamente, però, nulla è stato fatto per rendere l’economia meno dipendente dal petrolio, che costituisce il 95 per cento delle esportazioni. La violenza dei cacicchi dell’esercito alleati con il partito al potere ha portato all’occupazione di centinaia di fabbriche, anche piccole e medie, con la conseguenza di bloccare la produzione e rendere disoccupati operai, impiegati, quadri e tecnici. Nelle fertili pianure del Venezuela centrale, dopo aver giustamente colpito il latifondo, si è arrivati all’esproprio violento di migliaia di piccoli contadini, sostituiti da soviet collettivisti tanto rivoluzionari quanto incapaci di sovvenire alle esigenze alimentari della popolazione, con drammatiche conseguenze sulla produzione.
Lo stesso Bolìvar, due secoli fa, dovette fare i conti con i proprietari delle terre agricole, i llaneros che prima lo sostennero, poi lo abbandonarono. Per inciso, il “libertador” “Trentatré” della massoneria britannica, era favorevole a una repubblica politicamente organizzata sul modello inglese. Il modello negativo del suo tempo, che in loco chiamano “rentista”, ovvero fondato sullo sfruttamento della rendita, non è cambiato nella sostanza. A pochi feudatari e qualche centinaio di famiglie creole (una era quella dello stesso Bolìvar) si è sostituito un ceto di burocrati statali e di agitatori politici manipolati dai più scaltri, che hanno in mano tutti i traffici sulla pelle della stragrande maggioranza.
La politica monetaria è folle. Il governo controlla l’ingresso di petrodollari, ma gonfia in modo enorme il valore della moneta nazionale, il bolìvar, alimentando un mercato nero valutario diventato la principale attività economica. I dirigenti dell’agenzia governativa che si occupa dei cambi e dell’importazione hanno divorato in pochi anni 25 miliardi di dollari in attività illecite attraverso espedienti e illegalità di ogni genere, come denunciò il ministro delle finanze Jorge Giordani, poi dimissionario. La banca centrale stampa continuamente nuova carta moneta di valore reale zero, lo stesso errore commesso negli anni 50 in Argentina da Peròn. Milioni di impiegati statali inutili alimentano una spesa improduttiva incalcolabile, accompagnata da sovvenzioni per categorie, gruppi e collettivi a scopo di consenso politico.
Il PIL si è dimezzato in cinque anni, il debito è elevatissimo, la barca non si è inabissata per l’aiuto cinese: Pechino ha prestato oltre 60 miliardi di dollari al Venezuela, oltre il 40 per cento del PIL. La produzione petrolifera, crollata a meno di un milione di barili al giorno, la più bassa da trent’anni, per di più a prezzi dimezzati, serve a due soli scopi: pagare gli interessi alla Cina, che compra in yuan, e tenere in piedi il baraccone clientelare del regime. La Russia a sua volta è creditore di Caracas, con prestiti per 10 miliardi e, per complicare il puzzle geopolitico, è titolare del 49,9 per cento della filiale americana di PdVSA, l’ente petrolifero venezuelano. Gli Stati Uniti soffiano sul fuoco da un ventennio e, nonostante le sanzioni, hanno un comportamento economico ambivalente. Goldman Sachs ha comprato obbligazioni di PdVSA sino a pochi mesi fa e gli Usa continuano ad acquistare greggio da Caracas.
L’unica iniziativa davvero innovativa di Maduro è stata l’introduzione del Petro, una criptovaluta sul modello del Bitcoin vincolata al petrolio e alle infrastrutture estrattive, allo scopo di bypassare i mercati valutari- nessuno vuole bolivares carta straccia- e limitare il traffico di valuta. L’esperimento, interessante anche dal punto di vista politico, sta fallendo per la perdita di credibilità del governo oltreché per il divieto di creare exchanges, i luoghi fisici o virtuali dove scambiare criptomonete. Per di più, poiché nel Paese l’energia elettrica è fornita quasi gratuitamente, moltissimi si sono inventati l’attività di ricercatori (mining) e acquirenti di monete virtuali (Bitcoin, Ethereum), che richiede capacità informatica e consumo energetico, attraverso cui chi ha ancora capitali o risparmi li fa uscire dal Paese. Eterogenesi dei fini…
Madamina, il catalogo è questo. Epperò, i venezuelani hanno diritto alla sovranità nazionale, a un futuro deciso senza lo spettro della fame e il ricatto della violenza. Il petrolio deve restare nelle loro mani e tornare il motore di una ripresa civile e morale da decidere e realizzare in indipendenza, senza intromissioni, destabilizzazione da parte dell’Impero, minacce di invasione. La speranza di vent’anni è svanita per l’ostilità preconcetta degli interessi radicati negli Usa. Lo stesso Fidel Castro fu spinto nelle braccia sovietiche dopo avere abbattuto Fulgencio Batista in nome della Patria e della dignità nazionale e aver sperimentato la dura reazione del potente vicino. Ma il sogno sfuma anche e soprattutto per l’ostinato pregiudizio collettivista e per un’antica, perniciosa abitudine sudamericana.

I venezuelani sono stati indotti a vivere di denaro pubblico, la cultura del lavoro è stata estirpata e sostituita dalle sovvenzioni e dalla rapina ai danni di imprenditori, commercianti, artigiani e operai cacciati dalle attività che costituivano l’indispensabile cornice dell’economia non petrolifera. Sono stati costretti a sperimentare nell’ultimo quinquennio un neomarxismo violento e senza solidarietà, attraverso il quale una banda di agitatori e di gerarchi ha spolpato una nazione intera. Comunisti fuori, rapinatori nei fatti. All’orizzonte, vari scenari: un bagno di sangue che non spiacerebbe a Usa, Brasile e Colombia, interessati a guadagnare sulla ricostruzione successiva; la resistenza a oltranza del regime, con l’arresto di Guindò e la chiusura del Palamento. Infine, una difficilissima trattativa tra venezuelani dagli esiti assai incerti.

Nella speranza che il Venezuela non sparga il sangue della sua gente a vantaggio dei nemici esterni e dei traditori interni, ha perso ed è deluso chi sperava di tagliare le unghie del mostro imperialista senza ricadere negli errori del passato. E’ sconfitto e ha fame un popolo fiero che ha partecipato con entusiasmo autentico e a tratti commovente alle riforme di Chàvez. Perde e si squalifica per l’ennesima volta la distopia collettivista che porta violenza, miseria, ingiustizia non diverse dalla caverna neoliberale. Dio non voglia che vinca ancora l’impero del denaro, della prepotenza e della privatizzazione di tutte le risorse dei popoli il cui centro è nell’altra America, quella contro cui ha lottato- e forse perso la vita – Hugo Chàvez.