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La (vera) eredità dei porti aperti? Criminalità organizzata e scafisti

di Giovanni Giacalone - 30/01/2019

La (vera) eredità dei porti aperti? Criminalità organizzata e scafisti

Fonte: Gli occhi della guerra

Il traffico di esseri umani è un business colossale “che rende più della droga” dichiarava a suo tempo Salvatore Buzzi, il “ras delle cooperative”, attualmente in carcere in seguito all’inchiesta “Mafia Capitale”.
Un business milionario, come sanno bene i trafficanti che possono esultare ogni qualvolta un barcone fatto salpare dalla Libia o dalla Tunisia riesce a raggiungere le coste italiane, magari dopo un intervento della nave dell’ong di turno e con epilogo accompagnato dagli slogan di qualche politico oltranzista dei “porti aperti”.
Lo “sbarco” in Italia (o in qualsiasi altro Paese europeo) non è altro che l’ultima fase di un meccanismo criminale che coinvolge più attori nel continente africano, come illustra anche un'”overview” della Nato Strategic Direction Hub-South dal titolo “Illicit Trafficking in North Africa and Sahel”, pubblicato nella primavera del 2018, dove si può leggere che “il traffico di esseri umani è un’importante fonte di profitto per organizzazioni criminali, gruppi terroristici, milizie e alcune tribù”. Il rapporto mette poi in evidenza come la Libia sia il punto di convergenza delle rotte africane orientali, centrali e occidentali dove confluiscono gli immigrati per poi salpare dalle coste alla volta dell’Europa.
Il traffico di esseri umani è dunque un complesso meccanismo transnazionale particolarmente redditizio ma non necessariamente fine a se stesso in quanto svolge un ruolo di primo piano nell’alimentare attività criminali anche sull’altra sponda del Mediterraneo, in territorio italiano, attività come ad esempio il traffico di stupefacenti, la prostituzione, gli illeciti nella gestione di cooperative inserite nel business della gestione dei migranti, il lavoro nero.

La mafia nigeriana in Italia
Nella notte tra domenica e lunedì un’operazione coordinata dalla Procura Distrettuale Antimafia assieme alla squadra mobile di Catania portava all’arresto di 19 individui legati all’organizzazione criminale nigeriana “Vikings” che faceva base presso il Cara di Mineo; i reati contestati sono associazione per delinquere di stampo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, detenzione, trasporto e cessione di sostanza stupefacente del tipo cocaina e marijuana.
L’organizzazione aveva imposto la propria egemonia sul territorio, scontrandosi con altri gruppi nigeriani rivali, con l’obiettivo di conservare il predominio all’interno del centro di accoglienza.
Nella mattinata di lunedì il ministro dell’Interno Matteo Salvini ribadiva la necessità di chiudere anche gli altri grandi centri entro la fine dell’anno in quanto “più sono grandi e più è facile delinquere”.
Sul caso è intervenuto anche il procuratore Carmelo Zuccaro, già noto per l’inchiesta per presunte connessioni tra scafisti e Ong, che ha definito il Cara di Mineo “un errore che paghiamo in termini di controllo della legalità”.
La lunga mano della mafia nigeriana va però ben oltre i centri di detenzione con attività nell’ambito della prostituzione, l’immigrazione clandestina, la gestione della manodopera per la raccolta nei campi, il traffico di stupefacenti, le truffe telematiche e il racket dell’elemosina.
A inizio gennaio una maxi-inchiesta su flussi di denaro, transitati tramite money transfer e Paypal, provenienti dai traffici di stupefacenti gestiti in Europa dalla mafia nigeriana portava gli agenti dell’Fbi fino a Castel Volturno; secondo quanto emerso dall’inchiesta, il denaro veniva utilizzato per finanziare la tratta di esseri umani, pagando scafisti e accompagnatori e corrompendo funzionari. “Merce” di particolare valore risultavano essere le ragazze che una volta giunte in Italia, venivano avviate alla prostituzione.
La criminalità organizzata nigeriana si è insediata da anni in Italia ed opera in grandi città come Genova, Torino, Milano, Padova, Bologna, Roma, Catania, Palermo ma con forte presenza in Campania, in particolare nella zona di Castel Volturno, dove è riuscita a radicarsi e a creare una zona franca dal quale operare indisturbata.

Le “zone grigie” e gli irregolari
Gli immigrati irregolari possono essere utilissima manodopera per quelle organizzazioni criminali che si occupano di attività che vanno dal lavoro nero nei campi del Meridione alla vendita al dettaglio di sostanze stupefacenti nelle varie piazze di spaccio italiane.
Singoli individui e piccoli gruppi in cerca di stupefacenti da poter vendere, come avviene ad esempio a Milano fuori della Stazione Centrale dove uno spacciatore gambiano arrivò addirittura a dichiarare la propria attività davanti alle telecamere assieme ad alcune altre affermazioni tra cui “Italia tanta mafia, tanta robacce”. Chissà cosa intendeva dire?
Ieri invece ad Agrigento un blitz dei Carabinieri portava all’arresto di uno spacciatore di 19 anni della Guinea ospite in una comunità di accoglienza; l’operazione è scattata dopo che nei giorni precedenti tra gli agrigentini era dilagato l’allarme per lo spaccio di stupefacenti in mano agli immigrati nel centro storico.
Una domanda sorge a questo punto spontanea: questi individui irregolari sono la manodopera di chi? Quali sono i clan criminali che si occupano di rifornirli? Una cosa è certa, è molto più facile far “smerciare la roba” a un esercito di individui senza documenti e con nulla da perdere, dei fantasmi pronti a tutto per pochi spiccioli.
Vi è poi il racket dell’elemosina, ben documentato a Milano da Tullio Trapasso, presidente del Comitato Anti-Racket e Anti-Abusivismo: anche in questo caso dietro tale attività c’è l’ombra della criminalità organizzata nigeriana, ma forse vale la pena andare oltre per cercare di capire quali accordi vi siano dietro quel racket e se i clan nigeriani paghino a loro volta qualcun altro per poter usufruire dello spazio.
Il business dell’accoglienza tra Campania, Calabria e Sicilia
Nel maggio del 2017 un’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, denominata “Jonny”, portava all’arresto di 68 persone tra cui Leonardo Sacco, presidente della sezione Calabria e Basilicata della Confraternita Misericordia e anche il parroco del paese, don Edoardo Scordio, storico fondatore della Misericordia, entrambi accusati di associazione mafiosa.
I due avevano messo in piedi un business milionario per la gestione del Cara di Isola Capo Rizzuto, uno dei più grandi d’Europa, spartito tra le varie famiglie della ndrangheta nella zona, tutto “grazie” ai migranti stipati nel Cara. Un affare talmente ghiotto che vi era persino il sospetto che l’apertura del Cara di dodici anni prima potesse aver contribuito a una specie di pace tra clan.
Il generale del Ros, Giuseppe Governale, durante la conferenza stampa aveva definito il centro di accoglienza e la Misericordia “il bancomat della Ndrangheta”, mentre il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto aveva illustrato che su 100 milioni, 32 erano andati alla cosa Arena mentre il prete, in un solo anno, aveva percepito ben 150mila euro.
Lo scorso dicembre invece, su richiesta delle procure di Gela e Catania, venivano arrestate dodici persone con l’accusa di associazione a delinquere, frode nelle pubbliche forniture e caporalato, reati commessi nella gestione di centri per richiedenti asilo. Sequestrate anche otto tra società cooperative e associazioni operanti nel settore.
Pochi mesi prima, a luglio, la Procura di Trapani sgominava un business illegale legato alla gestione in provincia di alcuni centri di accoglienza per immigrati. Nove gli arrestati tra cui l’ex deputato regionale dell’Udc, l’alcamese Norino Fratello; le accuse vanno dall’intestazione fittizia di beni alla bancarotta fraudolenta.
Un mese prima a Benevento finiva invece in manette Paolo Di Donato, al vertice del consorzio “Maleventum” e conosciuto come “il re dei rifugiati”; assieme a Di Donato venivano arrestate altre quattro persone e altre 36 indagate.
Le indagini della Digos di Benevento, diretta dal vice questore Giovanna Salerno, avevano portato alla luce un sistema criminale che lucrava sulle assegnazioni pilotate dei migranti, sul sovraffollamento dei centri, sulla falsa attestazione di presenze degli ospiti, con la connivenza di alcuni pubblici dipendenti.

La politica dei “porti chiusi” dà i suoi frutti
Come recentemente illustrato da Gianandrea Gaiani, nell’anno appena conclusosi sono sbarcati sulle nostre coste 23.370 migranti, l’80,42% in meno rispetto al 2017 (quando furono 119.369) e l’87,12% in meno rispetto al 2016 (181.436). Decremento ancora più considerevole se si prende in considerazione il solo numero di quelli provenienti dalla Libia: 12.977 dal 1° gennaio al 31 dicembre, l’87,90% in meno rispetto al 2017 e il 92,85% in meno rispetto al 2016. Un successo ammesso anche dall’agenzia Ue per le frontiere Frontex che nel 2018 ha registrato “solo” 150mila immigrati illegali nel Mediterraneo (il livello più basso degli ultimi 5 anni con un – 92% rispetto al 2015) che per lo più hanno raggiunto la Grecia dalla vicinissima Turchia e la Spagna attraverso la rotta marocchina. Tutto ciò a danno delle organizzazioni criminali africane che non riescono più a far arrivare la propria “merce” a destinazione.
Il meccanismo del traffico di esseri umani è oramai ampiamente documentato e comprovato in tutte le sue sfaccettature, dalla fase iniziale “africana” fino a quella finale sulle coste italiane. Un meccanismo che, come già visto, va a sua volta ad alimentare tutta una serie di attività criminali in territorio italiano e non può che essere così, perché quando il flusso di arrivi è fuori controllo e non vi sono filtri adeguati le conseguenze non possono che essere devastanti. Ebbene, la politica dei porti aperti va ad alimentare tutto ciò e i trafficanti ringraziano chi la sostiene.