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L’autonomia

di Marcello Veneziani - 25/02/2019

L’autonomia

Fonte: Marcello Veneziani

Da uomo del sud, con l’aggravante di essere cittadino romano e per giunta fautore da una vita dell’identità nazionale e dell’amor patrio, non posso dirmi contento per l’annuncio dell’autonomia regionale. Capisco tutte le ragioni di chi la sostiene nelle regioni del nord, e capisco tutte le critiche, più che meritate, al malgoverno del sud ma arrivo a conclusioni opposte. Occorre più Stato sovrano, più unità, più autorevolezza decisionale del centro, meno potere alle regioni. Però vorrei provare a ragionare senza paraocchi e tesi precostituite.
In primo luogo, trovo grottesco e disonesto l’allarmismo contro l’autonomia da parte delle opposizioni di sinistra, e non solo. Non saremmo arrivati all’autonomia se il centro-sinistra e poi il centro-destra non avessero inferto quell’orrenda ferita alla nazione e alla Costituzione che fu la riforma del titolo V. L’hanno voluta loro anche se ora lo dimenticano, ma alcuni anni fa facevano a gara a chi fosse più federalista, da sinistra, al centro e a destra, scavalcando Bossi.
E se vogliamo risalire ancora più indietro, ricordo che le regioni furono volute dai governi di centro-sinistra e dai comunisti (ancora infatuati delle repubbliche socialiste sovietiche, l’Urss). Furono un frutto dell’Arco Costituzionale, come allora si diceva. Gli unici ferventi oppositori furono i missini, e un po’ i liberali.
Le Regioni furono l’inizio del declino dello stato italiano, il raddoppio degli sprechi, del clientelismo e del personale politico, un favore fatto a tutte le consorterie, dalla partitocrazia alle associazioni mafiose, dal familismo alla lottizzazione. Ma la riforma del titolo V fu poi la mazzata finale che investì le regioni di compiti e prerogative che furono il colpo di grazia dello Stato nazionale e sovrano. L’istruzione, la sanità, la sicurezza regionali, e una marea di conflitti da logorare il tessuto unitario e ogni prospettiva di efficacia.
Chi conosce un poco di storia sa che l’Italia fu unita nel nome di uno Stato centralista fondato sulle province e sulle prefetture, a imitazione del modello napoleonico; e in cento anni quello Stato, con tutte le sue contraddizioni e le sue ingiustizie, portò l’Italia da paese povero, contadino e analfabeta a paese moderno, sviluppato e istruito, con un ascensore sociale straordinario, una vitalità pubblica e privata da far invidia alle nazioni più moderne. E parlo di tre italie diverse, quella liberale e postrisorgimentale, quella fascista e autoritaria e quella democristiana e repubblicana. L’Italia cominciò a perdere i colpi mezzo secolo fa, in quello sciagurato triennio che va dal famigerato ’68 studentesco e poi eversivo, all’infame ’69 della demagogia sindacale, fino al colpo di grazia del ’70 con l’introduzione delle Regioni. Da allora statale diventò sinonimo di inefficiente, di parassitario, di assistenziale. Scandalo nello scandalo furono proprio le regioni autonome, a statuto speciale, a partire dalla terribile e incurabile Regione Siciliana. Le regioni andrebbero abolite, altro che autonomia. Quella sarebbe la vera riforma, il vero taglio alla spesa pubblica.
Detto questo, l’autonomia è la coerente conseguenza di quella traiettoria, la fase culminante, se non si vuole puntare direttamente alla secessione. E dunque nessuno, a sinistra, tra gli ex dc o tra i berlusconiani potrà rimproverare a Salvini e alla Lega di portare quel processo da loro avviato alla sua tappa finale. Aggiungo che c’è un principio nell’autonomia che io reputo non solo efficace quanto eticamente irreprensibile: è quello relativo al fisco che responsabilizza le regioni e le loro classi dirigenti, premia le più virtuose e più produttive e punisce quelle dedite allo spreco e ai disservizi. Nulla da eccepire che ci debba essere più rispondenza tra prelievi e risorse per il territorio.
Quel che spaventa è l’introduzione di un principio: se chi è più ricco o meglio amministrato può chiamarsi fuori dalla responsabilità nazionale, allora presto vedremo province più ricche e meglio condotte scaricare regioni più povere e aree malandate, anche a nord. Perché la corsa agli egoismi locali va all’infinito e distrugge ogni comunità. Si può proclamare che vengono prima gli italiani e poi distinguere tra padani, romani e terroni?
Ora, però, non vorrei gettare altra benzina sul fuoco e soprattutto non voglio passare per la solita cassandra. Allora facendo un piccolo sforzo mi dico: facciamo di necessità virtù, stringiamo i denti, e cogliamo l’occasione dell’autonomia per rendere il sud maggiorenne, con le chiavi di casa, e con la prospettiva di salvarsi senza paracadute e aiuti altrui. Finora la Questione Meridionale finiva nella Questua Meridionale, con la richiesta di aiuti. Stavolta capovolgiamo l’atteggiamento e chiediamoci non cosa l’Italia debba fare per il sud ma cosa il sud possa fare per sé e per l’Italia. Provate a rovesciare la clessidra, anziché lamentarvi della grana che non scende più. Terapia d’urto.