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La matematizzazione del mondo ne ha eroso il senso

di Francesco Lamendola - 01/03/2019

La matematizzazione del mondo ne ha eroso il senso

Fonte: Accademia nuova Italia

Il dramma dell’uomo moderno consiste in una progressiva erosione del senso del mondo, del suo mondo. Ciò ha a che fare, sul piano filosofico, con almeno due svolte: la svolta matematizzante di Galilei e Cartesio e la svolta antimetafisica di Kant. Le due svolte sono correlate: una volta ridotto il mondo a campo d’indagine matematica, nel quale svanisce il significato del soggetto perché tutto quel che conta sono i “fatti”, i fatti accertabili e misurabili con il metodo matematico, era inevitabile che la metafisica, colonna portante di tutto l’edificio conoscitivo, prima o poi sarebbe stata rifiutata come un inutile “di più”: a che serve andare oltre la fisica, se tutto quel che importa è conoscere il mondo sotto la dimensione fisica?

Scriveva il teologo Tomas Josef M. Tyn (1950-1990), padre domenicano, morto a soli quarant’anni dopo aver lasciato un segno indelebile nel pensiero cristiano contemporaneo (cit. in https://gloria.tv/signummagnum):

 L’uomo è capace di metafisica. Non solo è capace, ma è obbligato ad essere metafisico, giacché lo è per natura. Proprio qui c’è l’opposizione tra San Tommaso d’Aquino e Kant, Kant che determina in gran parte la mentalità moderna, che è nettamente antimetafisica, e perciò stesso, antiumana… Non c’è da meravigliarsi che la vita moderna si disumanizzi sempre più, bisogna tornare alla metafisica per darle di nuovo un’impronta di umanità. Bisogna elevarsi sopra all’uomo, per diventare uomini.

 La devastazione antimetafisica dell’illuminismo aveva avuto le sue premesse nella assolutizzazione del sapere matematico del secolo precedente, il XVII. Ciò è stato visto con chiarezza da Edmund Husserl (1859-1938), il quale ha ben visto come una mera scienza dei fatti si riduce inevitabilmente ad astrarre proprio dal soggetto, divenendo così, per ciò stesso, una scienza anti-umana: come è possibile che la scienza ci dica qualcosa sul mondo (scienze fisiche) e su noi stessi (scienze dello spirito), se prescinde da qualsiasi soggetto in nome di una oggettività astratta? Husserl infatti osservava, nel suo fondamentale studio La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, composta nel 1935-36 e pubblicata postuma nel 1954, che si può considerare un po’ il suo testamento filosofico (titolo originale: Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie: Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie; traduzione dal tedesco di Enrico Filippini e prefazione di Enzo Paci, Il Milano, Il Saggiatore, 1968, I, 5, pp. 41-42):

                                                                                               

UN IDEALE DEFINITO, QUELLO DI UNA FILOSOFIA UNIVERSALE e di un metodo adeguato costituisce l’inizio, per così dire, LA FONDAZIONE ORIGINARIA DELL’EPOCA MODERNA IN FILOSOFIA e di tutte le sue linee di sviluppo. Ma invece di realizzarsi, quest’ideale conosce un’intima dissoluzione. (…) Ma ciò significa che tutte le scienze moderne finiscono col venire a trovarsi in una crisi, di tipo particolare e sentita come enigmatica, che investe il senso in cui sono state fondate, quel senso che esse continuano a recare in sé in quanto rami della filosofia. Si tratta di una crisi che non investe i successi teoretici e pratici della specializzazione professionale ma che tuttavia scuote da cima a fondo il senso della loro verità. Non si tratta tanto della situazione di una forma culturale, particolare, della “scienza”, o della “filosofia”, di una delle forme culturali dell’umanità europea. Perché la fondazione originaria della nuova filosofia coincide, come abbiamo illustrato, con la fondazione originaria dell’umanità europea moderna, di un’umanità  che attraverso la filosofia, e soltanto attraverso la filosofia, vuole rinnovarsi radicalmente rispetto a quella precedente, a quella medievale o a quella antica. Perciò la crisi della filosofia equivale a una crisi di tutte le scienze moderne in quanto diramazioni dell’universalità filosofica; essa diventa una crisi, dapprima latente e poi sempre più chiaramente evidente, dell’umanità europea, del significato complessivo della sua vita culturale, della sua complessiva “esistenza”.

La scepsi rispetto alla possibilità di una metafisica, il crollo della fede in una filosofia universale capace di guidare l’uomo nuovo, indica appunto il crollo della fede nella “ragione”, della ragione intesa nel senso in cui gli antichi contrapponevano l’EPISTEME alla DOXA. È questa ragione che in definitiva conferisce un senso a tutto ciò che si suppone essente, a tutte le cose, ai valori, ai fini, che conferisce loro un riferimento normativo con ciò che dagli inizi della filosofia  indicato dal termine verità – verità in sé – e correlativamente dal termine essente  - ÓNTOS ON. Così cade anche la fede in una ragione ASSOLUTA che dia senso al mondo, la fede nel senso della storia, nel senso dell’umanità, nella sua libertà in quanto attiva possibilità dell’uomo di conferire un senso razionale alla sua esistenza umana individuale e umana in generale. Se l’uomo smarrisce questa fede ciò non significa altro che questo: egli perde la fede “in se stesso”, nel vero essere che gli è proprio, un vero essere che egli non ha già da sempre, con l’evidenza dell’”io sono”, un vero essere che egli ha e può avere soltanto lottando per la sua verità, lottando per rendere vero se stesso. Il vero essere è SEMPRE un fine ideale, un compito dell’EPISTEME, della “ragione”, in contrapposizione  a quell’essere che la DOXA ammette e suppone “ovvio”.

 

La critica di Husserl alla matematizzazione del mondo è senza dubbio legittima e acuta; tuttavia, a noi pare che abbia il difetto di non spingersi abbastanza a fondo. Egli, giustamente, fa coincidere l’erosione del senso del mondo con l’avvento delle scienze moderne: individua, cioè, nell’inizio della modernità, l’inizio di quel processo di assolutizzazione delle scienze matematiche che avrebbe portato gli uomini a darsi scacco matto da se stessi, visto che la scienza moderna si basa su una oggettivazione della ricerca che finisce per trascurar fatalmente proprio colui che fa ricerca, che domanda e s’interroga: colui che cerca il senso del mondo attraverso l’indagine dei fenomeni, e da quella indagine vorrebbe risalire a una risposta complessiva sulla verità che dia senso, a sua volta, al proprio esistere. La critica non è spinta abbastanza a fondo perché il problema non è la matematizzazione del mondo, ma la natura stessa della scienza moderna, e quindi, necessariamente, la natura della civiltà moderna. La civiltà moderna nasce da una rivolta contro l’essere, contro la metafisica, contro la tensione trascendente dell’uomo, e quindi non può che esprimersi attraverso un’idea di scienza che, essendo immanentistica e materialista, conduce per forza di cose allo smarrimento del senso del mondo. È logico: il senso del mondo non può risiedere nel mondo medesimo, così come esso ci appare attraverso gli strumenti, descrittivi e quantitativi, quindi esteriori e contingenti, delle scienze fisiche. Per risalire al senso del mondo, c’è bisogno di altri strumenti e di un’altra prospettiva: gli strumenti della metafisica e la prospettiva trascendente. Se si pretende di trovare il senso del mondo all’interno del mondo stesso, non ci sono che due possibilità: o scendere nell’individuale assoluto, attraverso l’esistenzialismo, il relativismo, il soggettivismo, e da ultimo approdare al solipsismo; oppure oggettivare il modo, ma in forme razionalmente descrivibili, e quindi matematizzarlo. Con la prima soluzione non si esce dall’ambito, asfittico e angoscioso, di una prospettiva totalmente soggettiva; con la seconda, si coglie un senso complessivo, ma un senso puramente formale, che non ha nulla da dire alla individualità di ciascuno, perché tralascia la cosa fondamentale: il soggetto che pone la domanda. Non c’è niente da fare: se il mondo ha un senso, quel senso non può che rinviare al trascendente, a qualcosa che sta al di fuori e al disopra della dimensione visibile, e quindi di ciò che può essere colto con il metodo matematico; altrimenti bisogna rassegnarsi al fatto che il mondo sia il regno del caos, della disarmonia più stridente, e, in ultima analisi, un labirinto popolato di folli. La filosofia moderna, da Kant in poi, ha scelto la seconda strada: eliminando la metafisica, si è condannato a una percezione puramente logico-matematica del reale; ma ciò che esula da essa non viene neppure colto, pur se ne rimane la nostalgia. La frase tanto citata dai professori di liceo, il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me, semplicemente non è coerente con le premesse del pensiero kantiano: è poesia e metafisica, e né l’una né l’altra avrebbero diritto di cittadinanza nell’edificio del criticismo.

D’altra parte, quando Husserl afferma che l’uomo può avere un vero essere solo lottando per la sua verità, ricade in quel soggettivismo che non consente di uscire dalla mera opinione, doxa, per passare alla conoscenza certa, episteme. L’uomo non si realizza lottando per una sua verità, bensì puntando alla verità: alla verità vera, alla verità oggettiva. E se dubita che la verità sia raggiungibile, allora è  meglio che lasci perdere la filosofia e si accontenti di fare poesia, o scienza naturale. Per superare la visione matematica del mondo c’è bisogno di un ritorno alla filosofia, cioè alla metafisica: perché la vera filosofia, che è conoscenza dell’insieme, non può essere che metafisica, che è conoscenza di quella parte di realtà che sta oltre l’apparire degli enti, vale a dire la Cosa in Sé: il Noumeno (quello che Kant dichiara in raggiungibile). Husserl sostiene che l’uomo non ha un “vero” essere da sempre, ma che può averlo, a condizione che lotti per conquistarlo: questo però è un controsenso. Se si accetta l‘idea che l’uomo possiede un essere solo a partire da quando prende consapevolezza di sé, si ricade in quello storicismo da cui pareva che la fenomenologia volesse uscire per riconquistare una certezza esistenziale. Imboccando questa strada, si torna al punto di partenza, cioè alla nascita delle scienze moderne, con le quali, chi sa perché, l’uomo, anzi l’uomo europeo, pretende di aver fondato una nuova categoria culturale, quella della modernità. Il progetto della modernità nasce, infatti, con la fondazione originaria dell’umanità europea moderna, di un’umanità che attraverso la filosofia, e soltanto attraverso la filosofia, vuole rinnovarsi radicalmente rispetto a quella precedente. Ma come è possibile che la scienza moderna faccia da levatrice a un rinnovamento radicale dell’uomo, viste le premesse? E le premesse sono queste: primo, non si tratta di tutta l’umanità, ma solo di quella europea; e neppure tutta, ma solo le élite che intendono attuare questo rinnovamento, in polemica aperta con la tradizione, che è la tradizione cristiana, arricchita della tradizione antica, particolarmente di taluni elementi della civiltà greca. E che fare con il resto dell’umanità, se questo non vorrà accettare con le buone il progetto europeo della modernità? Vi sarà una guerra di civiltà, mediante la quale la civiltà europea (oggi politicamente e militarmente impersonata soprattutto dagli Stati Uniti, che pure non ne sono per nulla i fedeli interpreti) pretenderà d’imporsi al resto dell’umanità? Di fatto, sono proprio gli scenari geopolitici e culturali che si stanno, purtroppo, delineando. Seconda premessa: qui si assiste alla pretesa di una civiltà di creare una rottura con il proprio passato, partendo dall’adozione, o dalla imposizione, di una nuova idea di verità: non è più vero quel che è vero, ma è vero quel che la scienza sperimentale può autenticare come tale. E come potrebbe l’umanità rinnovarsi attraverso una particolare filosofia, cioè attraverso un’imposizione del modello univoco delle scienze naturali quale interpretazione del mondo? Un rinnovamento umano richiede ben altro che un cambio di paradigma scientifico o filosofico: la scienza non fornisce che strumenti d’indagine e risposte parziali; la filosofia, sì, fornisce risposte assolute, ma solo a condizione di essere indirizzata verso la metafisica. Se la filosofia non è metafisica, non le resta che cercar di emulare le scienze fisiche e gareggiare con esse, assumendo una veste il più possibile scientifica: come hanno fatto, appunto, le cosiddette scienze dello spirito. Ma proprio Husserl si è reso conto che questo è un goffo tentativo di aggirare il problema, più che risolverlo: infatti, quanto più si sforzano d’imitare i metodi delle scienze fisiche, le scienze dello spirito si oggettivano, e quindi si allontanano da colui che fa la domanda: il soggetto. E la filosofia tutta, se privata della ricerca della Cosa in Sé, come insegnato da Kant, si pone sulla stessa strada: quella di ridursi a coordinatrice del sapere scientifico moderno, galileiano e sperimentale, meccanicista e oggettivo. Ma una filosofia ridotta a coordina truce del sapere scientifico non è più capace di supportare un cambio di paradigma, tanto meno un rinnovamento dell’umanità. Giambattista Vico, geniale e solitario precursore, l’aveva già visto e compreso perfettamente, e aveva negato che le scienze possano dare una risposta alla domanda essenziale e decisiva dell’uomo, proprio perché le scienze hanno per oggetto la natura, e la natura non è opera dell’uomo, mentre solo la storia lo è.

A questo punto, è chiaro che, se vogliamo tornare a vedere il senso del mondo, dobbiamo rimetterci sulla strada dei nostri padri: dobbiamo tornare alla tradizione, cioè alla metafisica. Con la scienza e la tecnica si fanno le macchine, e con le macchine si fanno tante belle cose, tranne vedere il senso del mondo. Per questo c’è bisogno d’un rinnovamento interiore, spirituale e non fisico-matematico...