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Il mercato giudiziario e il commercio del diritto

di Adriano Segatori - 20/03/2019

Il mercato giudiziario e il commercio del diritto

Fonte: Italicum


Che giustizia e diritto non siano concettualmente dei sinonimi, ma rappresentino due entità spesso conflittuali è un dato di fatto. La Giustizia si rifà a un principio di eternità, al dispositivo simbolico sovratemporale di ordine, di equilibrio, di armonia. La Giustizia rappresenta quel cosmo, da cui etimologicamente deriva cosmesi, bellezza, e che è in perfetta e perenne antitesi al caos, ovvero all’instabilità, alla confusione, alla discordan-za, alla bruttura finale.
La Giustizia si rifà alla virtù: segna, determina e controlla la totalità della perfezione, stimola la tensione al suo raggiungimento e punisce la sua inosservanza. Essa definisce come le persone devono essere e diventare nella prospettiva trascendente di un bene comune oltre l’immanenza della storia.
La Legge si rapporta al Diritto e questo al giusto, alla morale, ai valori. La “giuridizza-zione” dell’esistenza si basa sul sociologismo e sullo storicismo: due criteri che negano il concetto assoluto di giustizia, ma che determinano – contemporaneamente – il parame-tro del divenire, del cambiamento, dell’adeguamento al tempo e all’individuo.
Il poeta Simonide, noto per la sua dedizione al mecenatismo, in uno dei suoi epigrammi sentenziò: “Fare bene agli amici, male ai nemici”. Un canone di giustizia senza sbavature interpretative che, al netto della brutalità valutabile secondo il buonismo odierno, rende perfettamente l’idea di ciò che può, e dovrebbe essere, l’applicazione della norma stabi-lita. Gli amici della comunità, i sodali di un destino, i portatori di un retaggio condiviso; i nemici interni ed esterni dell’ordine costituito e dell’armonia del sistema. In questa cor-nice, il trasgressore non è solo in conflitto con un suo simile, ma infrange direttamente un patto collettivo.
Fatte queste dovute premesse, il problema odierno della giustizia – appositamente defi-nita con l’iniziale minuscola – è il passaggio dalla “giustizia giuridica” di Aristotele alla “giustizia politica” del pensiero moderno. Dove per politica non si intende la concretez-za fattuale delle correnti del Consiglio Superiore della Magistratura, le esternazioni ideologiche di taluni magistrati o la loro appartenenza ad una o all’altra compagine par-titica, ma la deformazione simbolica della sua funzione.
L’etica asettica e centrata al dovere ha lasciato il posto alla morale inquinata e variabile del possibilismo relativista. La sobrietà del giudizio ha lasciato il posto alla dittatura dei buoni sentimenti. Saltano gli stessi tre paradigmi della logica aristotelica: di identità, di non contraddittorietà e del terzo escluso, in una confusione frustrante e demoralizzante che è palpabile negli stessi dispositivi di certe sentenze. Viene meno la chiarezza di ruo-lo tra vittima e carnefice in una indistinta partecipazione all’evento criminoso.
Il reo è quello che ha compiuto un illecito nei confronti di un altro individuo, e il giudice diventa non solo e non più il terzo che applica la sanzione, ma un mediatore tra le moti-vazioni del primo e le conseguenze sul secondo, con il ruolo di esaminatore psicologico e di interpretatore sociale delle esigenze delle parti.
Ad aggravare il già precario quadro della giustizia è l’atteggiamento deresponsabiliz-zante nei confronti del reo, con l’implicito giustificazionismo a riguardo dello stesso, e il carico penale nei confronti della vittima in caso di una sua reazione più o meno violenta.
Ecco, quindi, chiarite talune sentenze che appaiono agli occhi di tutti – o quanto meno di coloro che non sono offuscati dalla retorica buonista e indulgente – come paradossali, inquietanti e sostanzialmente ingiuste: agente o militare condannati a risarcire il rapina-tore fuggitivo, l’esercente condannato per aver ferito il malvivente, cittadino incarcerato per aver reagito ad un’aggressione, spacciatore messo in libertà perché lo spaccio è la sua unica fonte di reddito, rom condannato ai domiciliari e all’obbligo di firma ed altre numerosissime e tragicamente amene distorsioni delle sedicente giustizia.
La giustizia è stata maternalizzata nel suo esercizio, con la prevalenza della scusante per il reo sempre sostenuto nella redenzione (della serie “so’ ragazzi”, tanto per chiarirci in termini popolari), ed è stato espulso dallo stesso esercizio quella funzione paterna che in termini psicoanalitici e non rappresenta la Legge, la Realtà, il Dovere, la Responsabili-tà.
Se poi, alla fine, ci aggiungiamo il mercanteggio della sanzione e la quantificazione eco-nomica della condanna, allora il cerchio si chiude e il tradimento della giustizia si com-pie con la commercializzazione della pena.
Non saranno le più o meno fantasiose riforme a risolvere questo annoso problema, per-ché la questione riguarda una vera e propria rivoluzione del pensiero, una inversione di rotta che è innanzitutto psichica e simbolica. La Giustizia e il Diritto sono due paradigmi troppo importanti per lasciarli ad affrontare ai legulei.