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La psicopolizia del politicamente corretto censura anche Eschilo

di Loris Falconi - 14/04/2019

La psicopolizia del politicamente corretto censura anche Eschilo

Fonte: Revoluzione

Tra i frutti marci della cosiddetta Democrazia Liberale con il suo correlato di eguaglianza, principio tanto sbandierato quanto mostruosamente distorto, vi è il cosiddetto Politically Correct”, sempre più pericolosamente in auge in questo misero tempo presente, con il suo potere censorio e violento, che non ammette altra verità al di fuori della sua verità.

 | La violenza del politicamente corretto |

Oltre il velo dell’illusione mediatico-spettacolare, ci potremmo facilmente rendere conto che si tratta di “verità” del tutto relative e opinabili, spesso ridicolamente meschine, affermate dalla violenza di un mono-discorso tipicamente democratica e occidentale, per cui subdola, mai palese e manifesta, a tratti leziosa, persino bonaria come potrebbe essere una pacca sulla spalla che lo Zio Sam, dismesso il fucile insanguinato, potrebbe dare all’impenitente e irriducibile uomo anti-moderno (e ovviamente anti-puritano).

L’efficacia del politically correct ha principalmente a che fare con l’ormai irrimediabile miopia ed ignoranza dell’attuale homo consumens iper-stimolato, un’idiota nel senso etimologico del termine, privato di un mondo comune, ripiegato sul suo ombelico, che si limita ad assorbire acriticamente la vulgata mainstream propinata da tutte le TV e gli organi di stampa. Quest’ultima sottende un ben preciso Immaginario Dominante, il quale, come una grande cappa scura e obnubilante, avvolge l’intera esistenza di ciascun singolo individuo nella sua quotidiana lotta per “un posto al sole” (anch’esso ovviamente già pre-stabilito e pre-confezionato secondo il mantra non recitato del “desidera ciò che gli altri desiderano”).

 | I “funzionari” del politicamente corretto |

Ed ecco che da questa fitta e asfissiante nebbia compaiono i grigi funzionari del “Grande Manovratore”, gli agitatori delpolitically correct con i loro proni sodali:

 

eccoli i buoni e i giusti, sempre misericordiosamente all’erta nello scovare “ciò che si può dire e ciò che non si può dire”, “ciò che si può fare e ciò che non si può fare”, dal passo deciso, dal volto liscio e lucido, mai solcato da alcuna traccia di dubbio, con in bocca le solite trite parole, ripetute sino alla nausea (tra gli evergreen sempre in voga ricordiamo “razzista”, “fascista” e “populista”).

 

 

| Se pure Eschilo diventa razzista |

L’Università Sorbona di Parigi.

A questo proposito risulta emblematico riportare l’incredibile fatto accaduto pochi giorni fa nella prestigiosa Università “La Sorbona” di Parigi in occasione della rappresentazione teatrale de “Le Supplici” di Eschilo, antica tragedia greca incentrata sulle cinquanta figlie di Danao, le cosiddette “Danaidi”, che per evitare il matrimonio con i cinquanta cugini, figli di Egitto, fratello di Danao, lasciano la terra d’Egitto per rifugiarsi ad Argo, in Grecia.

Lo spettacolo è stato al centro di infuocate polemiche:

 

il Consiglio delle associazioni nere in Francia (Cran) ha accusato la rappresentazione teatrale di “propaganda coloniale” per il fatto che alcuni personaggi vestivano delle maschere bianche mentre altri le indossavano nere, pertanto, a causa delle contestazioni degli studenti “anti-razzisti”, gli attori, impossibilitati a proseguire la recita, si sono trovati costretti a lasciare il palco.

 

Danaidi, dipinto di John William Waterhouse (1903).

Sarebbe opportuno ricordare, come ha fatto attraverso un comunicato la stessa università parigina, che è prassi consolidata nella messa in scena di tale opera utilizzare sia maschere bianche sia maschere nere, seguendo così la tradizione teatrale greca così come ci è stata tramandata.

Eppure questo non è bastato per scongiurare l’annullamento della tragedia di Eschilo: non è accettabile “discriminare” i bianchi dai neri.

In tutto questo delirante quadretto, sintomo di una crisi socio-culturale drammaticamente profonda in cui si è completamente perduto ogni saldo punto di riferimento, risulta estremamente significativo il tentativo del regista Philippe Brunet di giustificarsi così attraverso la sua pagina Facebook:

 

“Nell’ultima rappresentazione dell’Antigone ho fatto recitare i ruoli da uomini a delle donne. Recito Omero ma non sono cieco come lui; ho fatto recitare i ruoli dei persiani a dei ragazzi nigeriani a Niamey; la mia ultima regina persiana era nera di pelle e portava una maschera bianca”.

 

Dunque cosa fa il regista? Invece di rivendicare con forza – come sarebbe lecito aspettarsi – l’incommensurabile valore meta-storico dell’epoca classica dalla quale prende forma la tragedia greca, specificando il necessario radicamento in una certa tradizione culturale, con determinati usi e costumi, egli porge intimidito l’altra guancia al nichilismo egualitario e livellante del politically correct, auto-dichiarandosi anch’esso “democratico e liberale”, sino a sottolineare la sua moderna non-cecità rispetto a Omero, presumibilmente un “razzista ante litteram” (sic.).

Ebbene i greci, pur essendo passati alla storia per aver “inventato” la democrazia – aggiungiamo e specifichiamo diretta, non rappresentativa – non erano affatto dei “democratici” come oggi comunemente intenderemmo, ossia non erano affatto dei deboli e miopi epigoni che pretendono di riportare ai loro miseri e deturpanti schemi occidentocentrici la nobile grandezza del passato. In una società così putridamente ipocrita come quella francese, fulgida bandiera dei cosiddetti “diritti civili” e spietata fustigatrice nei confronti di qualsiasi rivendicazione sociale, non ci dovrebbe di certo stupire la violenta rivolta dei “Gilets Jaunes”, non a caso costantemente ignorati da tutti i media mainstream nonostante i mesi di radicale e assidua protesta.

Ciò non significa – sia chiaro – che gli altri Paesi occidentali non siano alle prese con la stessa follia auto-distruttiva: una macabra danza di nani acefali e tronfi che invece di salire sulle spalle dei propri avi giganti, ben radicati alle loro millenarie tradizioni, per cercare di scrutare l’orizzonte e tracciare una possibile via futura, si crogiolano nel vederli crollare inermi ai loro piedi.

 | Un futuro senza radici |

Senza memoria delle proprie radici, non ci può essere alcun futuro. E senza conoscere ciò che ha forgiato la mia identità, non posso conoscere l’altro, se non riportandolo all’uniformità dell’identico, e dunque misconoscendolo, senza possibilità alcuna di comprenderlo. La comprensione nasce dalla differenza ed è proprio quest’ultima che l’attuale sistema di potere tecno-finanziario globale cerca di annullare, riducendo tutto a un’unica dimensione livellante e fintamente egualitaria.

Antonio de Curtis paragonava la morte a una livella, perché ci fa tutti uguali.

La stessa cosa possiamo dire della mortifera strategia del politically correct, che come una livella normalizza asetticamente ogni forma di dissenso, ogni possibilità di voce altra, riducendola al silenzio, alla non-esistenza. È questa oggi la vera tragedia!

Ed è per questo che oggi più che mai è così importante cercare di esprimere la propria voce.

Ed è per questo che oggi più che mai è così importante cercare di pensare.

A proposito del pensiero, la filosofa Hannah Arendt concludeva il suo splendido saggio Vita Activacon queste parole:

 

“Disgraziatamente, a differenza di ciò che si pensa di solito circa la proverbiale indipendenza dei pensatori, nella loro torre d’avorio, nessun’altra facoltà umana è così vulnerabile, e di fatto è molto più facile agire in condizioni di tirannia che non pensare”.

 

Che queste parole ci accompagnino e siano di monito.