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L'Occidente tramonta da 100 anni! Spengler è più decisivo di Marx (e piaceva tanto a Sgalambro)

di Giuseppe Raciti - 15/04/2019

Fonte: Panagea

In una fotografia del 1929 ha la faccia che si addice a un filosofo d’acciaio. Sguardo severo verso l’infinito e oltre, mento sporgente, fronte spaziosa e cranio pelato. Pare pronto a gettarsi nella mischia per un incontro di boxe. Prima di diventare il pensatore faustiano del Tramonto dell’Occidente, Spengler, intorno ai trent’anni, appuntò il romanzo della sua vita. Il titolo? Vita del ripudiato oppure Solitudine. Opterà per Eis heauton (tradotto da Adelphi come A me stesso, 1993). Un piagnisteo nietzschiano. Spengler si ritrae come “sognatore, ipocrita, vigliacco”, come “goffo, introverso, privo di dinamismo, pieno di sogni ardenti”. “Se considero la mia vita”, appunta, “c’è un sentimento che ha dominato tutto, ma proprio tutto: la paura”. Spengler pare un Calimero, un inetto, una sagoma uscita da un racconto postumo di Italo Svevo. Nel romanzo autobiografico – poi abortito – però, ci sono un paio di frammenti esemplari. Primo. “Non esiste nessuno fra gli autori viventi da cui possiamo attenderci un’opera che segni per noi un’epoca”. Secondo. “Il mio interesse appassionato per la geografia. Tracciare carte geografiche. Disegnavo regni immaginari… tabelle statistiche del mio regno africano”. Shakerando le pulsioni – interesse letterario, facoltà immaginativa, paura, agonismo intellettuale, tabelle – viene fuori, un secolo fa, Il tramonto dell’Occidente, libro sommo, di corrusca bellezza, più citato che letto, in cui – incipit dinamitardo – “si azzarda per la volta il tentativo di predestinare la storia”. La storia del libro, di livida bellezza, è nota: Spengler fa speleologia filosofica nel corpo incancrenito, disfatto, decaduto dell’Europa, sintetizza corsi e ricorsi delle ere storiche, redige decine di ‘tavole’, impone termini nuovi (civilizzazione, civiltà, faustiano). Il suo libro, ‘spaventoso’, è repellente per alcuni e imitato da molti altri (un libro recente pubblicato negli Stati Uniti, Hard to Be a Saint in the City: the Spiritual Vision of the Beats, dimostra ciò che gli studiosi sanno da un tot di decenni: la Beat Generation, fenomeno ‘di sinistra’, in realtà è una filiazione del Tramonto dell’Occidente, donato da William Burroughs a Jack Kerouac nel 1945, “fornì loro il vocabolario concettuale per forgiare l’idea del ‘beat’”). Per festeggiare i 100 anni dal libro più discusso del secolo, Aragno ha affidato a Giuseppe Raciti, docente di filosofia teoretica all’Università di Catania, una nuova traduzione del Tramonto dell’Occidente, che scalzi quella di Julius Evola, vecchia di sessant’anni. Il primo volume è uscito lo scorso, il prossimo è previsto per la tarda primavera. Abbiamo interpellato Raciti per fare la festa a Spengler.

100 anni di ‘Tramonto dell’Occidente’. Verrebbe da dire, è da un secolo che l’Occidente è al tramonto, mai tramonto fu così lungo… Quanto c’è di prepotentemente prossimo, ‘contemporaneo’ nelle ‘profezie’ di Spengler?
SpenglertramontoÈ una storia complicata questa della durata del “tramonto” (o della “decadenza”). Cominciai a parlarne vent’anni fa, in un libro dedicato a Spengler intitolato Critica della notte, che poi ho completamente riscritto nel Quattordici (ora si chiama Per la critica della notte, Mimesis) e che ho rivisitato ancora una volta quest’anno, in previsione dell’uscita della versione castigliana. Questo per dirle della difficoltà della cosa. Difficile venirne a capo. Certo, la mia tesi è discutibile (mi costò, agli inizi della carriera accademica, il dottorato di ricerca). Sostengo in sostanza che la profezia spengleriana sulla durata della civilizzazione (la fase caduca e finale di una civiltà) è poco più di una boutade. Secondo le tavole cronologiche accluse al Tramonto il fenomeno si prolungherà fino al 2200. Come dire: fino alle calende greche. In realtà, il Tramonto è pieno di riferimenti (a volte evidenti, a volte celati; bisogna saperli scovare, ci vuole fiuto) alla natura “eternitaria” della civilizzazione. Che significa? Significa che la decadenza non cesserà di decadere. Non si tratta di “pessimismo”. Il perpetuarsi dello stato di civilizzazione è legato a doppio filo alla “questione della tecnica”, per usare qui un’espressione heideggeriana. Vede, la civilizzazione non è il contrario di una civiltà, ma la sua riproduzione tecnica. La tecnica trasforma la civilizzazione in una civiltà: una civiltà artificiale, sì, ma proprio per questo affrancata dai limiti temporali e storici dell’organismo. La civilizzazione non è un organismo come la civiltà, è un’organizzazione. Qui, beninteso, non si tratta di negare illuministicamente la decadenza, al contrario: si tratta di negare la possibilità di uscirne. È di questo sano realismo che è intriso il Tramonto. Tutto il contrario della nozione comune, intendo non filosofica, mediatica, del pessimismo.

Opera tra le più influenti del secolo, che cosa affascina del ‘Tramonto dell’Occidente’, a suo dire, ancora?
Come ho scritto nella rapida nota che accompagna la nuova edizione del libro, il fascino del Tramonto è intramontabile. A parte il facile gioco di parole, il testo pare fatto veramente di una materia destinata a durare nei secoli. Stilisticamente non è un capolavoro. È ridondante, a volte enfatico, in qualche caso prolisso. E nondimeno vai avanti, non te ne stacchi. Il fatto è che la struttura del testo somiglia a quella di una partitura. Senza neanche volerlo, prestiamo ascolto a una musica ossessiva e avvolgente. Quanto ai contenuti, non è vero che il testo avvince perché è schematico (si pensi alla celebre dicotomia civiltà-civilizzazione). No, in realtà il testo è molto complesso. Del resto nessuno può saperlo meglio di un traduttore (a patto però, ci torneremo tra poco, che non sia un traduttore di professione!). Il concetto di Dasein (“esserci”), di cui si appropriò Heidegger, si avvita al concetto di cosmicità e questo, a sua volta, alla Traumsicherheit, cioè alla sicurezza che viene dal sogno. Si tratta di connessioni raffinate e inafferrabili. Le riflessioni sulla statistica e sull’entropia, che chiudono il primo volume, sono di smagliante originalità. La nozione di pseudomorfosi, che Spengler mutua dalla geologia, diventa nelle sue mani un dispositivo straordinario per spiegare il mancato sviluppo di alcune civiltà. L’idea infine che il cristianesimo sia una propaggine dell’islam e non viceversa, che la sua natura era e resti orientale, è un paradosso molto fecondo e può spiegare più cose di quante riesca a spiegarne l’obiettività storica. Il fascino dell’opera dipende anche da queste provocazioni.

Da un lato Marx, dall’altro Spengler: chi ha ragione? Perché Spengler fa ancora paura ad alcuni, a troppi?
Non credo che Marx e Spengler siano del tutto incompatibili. Non è vero che i filosofi si facciano la guerra a vicenda. Esiste una storia della filosofia che non procede con logica bellica. Ad ogni modo, Marx scrive il Capitale dopo il fallimento del Quarantotto. Nel Capitale la parola comunismo, se non ricordo male, non ricorre mai o forse solo come apax. Che significa questo? Il Capitale descrive la macchina del capitale. La teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto cenna alla possibilità che la macchina collassi. Deleuze ha sviluppato a fondo questo problema. In ogni caso, la rivoluzione non è in questione. O per meglio dire: rimane una questione ­– la questione. Ebbene, Spengler la pensa allo stesso modo. Le rivoluzioni per lui sono fenomeni da civilizzazione, si presentano cioè nella fase senile di una civiltà. Non sono espressioni della forza, ma della decadenza. Pretendere di mutare le cose tradisce un senso di profonda stanchezza. Detto altrimenti: la forza sta nel fare i conti con lo stato presente delle cose. Probabilmente si tratta di una forza innaturale. In ogni caso non parlo di accettazione acritica, ma di comprensione, di conoscenza. È il conoscere che mette paura; oggi, come sempre, se ne fa volentieri a meno. La fatica del conoscere, il “lavoro del concetto”, è un grande tema hegeliano. Non solo Spengler, ma tutta la filosofia, intesa come storia del conoscere, mette paura. Del resto è stato Brecht, cioè un comunista, a dire: il mondo è troppo vecchio per cambiare.

L’impresa di tradurre il ‘Tramonto’ penso sia titanica, lei dice “avventurosa” la traduzione di Evola. Qual è stata la difficoltà principale? Adattare lo stile spengleriano, dettarne in modo consono i termini?
La difficoltà principale di questa traduzione riguarda la lingua di approdo. Cioè l’italiano. Conoscere il tedesco o un’altra lingua non è problematico; al limite sono sufficienti i dizionari. La conversazione, va da sé, è un’altra cosa e non ha quasi niente a che vedere con la lingua. La lingua è solo scritta. Io traduco coll’aiuto di buoni dizionari, disponibili anche online. La difficoltà, dicevo, è conoscere la propria lingua e per questo tipo di conoscenza non bastano i dizionari. Ci vuole l’aiuto della grande letteratura. Ecco perché diffido dei traduttori professionali. Ne diffido perché costoro sono per lo più ignoranti. Per lo più non conoscono la grande letteratura italiana. Non leggono Leopardi, o Curzio Malaparte. O Fenoglio. Oppure Croce, Verga, D’Arrigo. O il mio amico Marzio Pieri.

Dedica il suo lavoro di traduzione a Manlio Sgalambro: perché?
Ho conosciuto personalmente Manlio Sgalambro. Ho avuto l’onore di parecchi colloqui a Catania, nel suo angusto studiolo faustiano. Ho persino coltivato l’illusione che la mia compagnia, non dirò la conversazione, potesse piacergli. Nella seconda edizione del mio libretto su Spengler c’è un’appendice intitolata: Sgalambro lettore di Spengler. Sì, perché finora non s’è accorto nessuno che Spengler era il suo vero autore. Non tanto Schopenhauer, che leggeva per rifarsi il palato, ma Spengler. Il concetto più importante elaborato da Sgalambro, quello che fa di lui un grande pensatore, dico il concetto della contemporaneità alla fine del mondo, è di evidente ascendenza spengleriana. Si tratta infatti di uno sviluppo della nozione di “fine del mondo”, Weltende in tedesco, che Spengler affronta alla fine del primo volume del Tramonto. La Morte del sole, del 1982, è una grandiosa dilatazione del Weltende spengleriano. E lui, Sgalambro, era davvero uno che faceva paura.