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L’Italia che piace tanto agli inglesi

di Francesco Lamendola - 15/04/2019

L’Italia che piace tanto agli inglesi

Fonte: Accademia nuova Italia

C’è un’Italia che gli inglesi amano moltissimo, ancora più dei suoi monti, dei suoi laghi, delle sue spiagge e delle sue innumerevoli bellezze storiche e artistiche; perfino più di quell’Italia che spedisce loro, ogni anno, migliaia di ottimi ragazzi laureati, i quali, senza esserle costati una sterlina, si offrono sul suo mercato del lavoro e danno un contributo immenso, al netto di ogni spesa, alla sua ricchezza e alla sua crescita industriale, commerciale, intellettuale, scientifica e tecnica. L’Italia che piace loro immensamente, sia sotto il profilo politico ed economico che sotto quello intellettuale e culturale, è l’Italia che si auto-mortifica, che si auto-denigra, che si auto-umilia, che si flagella pubblicamente e si auto-disprezza con ardore e perseveranza. L’Italia che si batte il petto e si pente e si duole con tutto il cuore di aver osato sfidarla, quand’ella era la signora del Mediterraneo (Mediterraneo: destinato dal fato, dalla geografia e dalla storia, ad esse il Mare Nostrum della… Gran Bretagna); di aver osato tentare di scacciarla, per tornare in possesso delle sue vitali linee di comunicazione; di aver osato costruirsi un impero coloniale in Africa, che, pur se non faceva affatto ombra al suo (figuriamoci!, con un quarto delle terre emerse sottoposte all’Union Jack!), nondimeno le dava un po’ di noia, un po’ d’incomodo, un po’ di fastidio. Perché non si sa mai, come scrive il buon Winston Churchill nella sua Storia della seconda guerra mondiale (che gli è valsa, niente di meno, il Premio Nobel per la Letteratura; e suppergiù per la stessa ragione che ha visto assegnare il Premio Nobel per la Pace al neoletto presidente americano Barack Obama), se le truppe italiane della Libia e quelle dell’Etiopia avessero compiuto una conversione sull’Egitto e sul Sudan, si sarebbe creato un “enorme” impero italiano su una bella fetta del Continente Nero, e in tal caso, chi sa quale tremendo pericolo avrebbe corso la mite e pacifica Albione, lassù, nel Mare del Nord…
Ora, l’Italia che piace tanto agli inglesi è quella del film I due nemici di Guy Hamilton, del 1961, con Alberto Sordi che, alla testa delle truppe italiane dell’Africa orientale, fronteggia David Niven, il comandante britannico che alla fine, inevitabilmente, vince la partita: cioè un’Italia scalcagnata, velleitaria, fanfarona, un po’ macchiettistica, magari anche coraggiosa, qualche volta; però, vuoi mettere un ufficiale italiano, per giunta romanesco, di fronte a un vero gentleman inglese. Insomma, non c’è paragone; e che la vittoria militare debba andare al secondo, emerge dalla forza stessa delle cose, è una specie di legge del destino: c’è chi nasce destinato a vincere e a dominare, e chi nasce destinato a perdere e a servire (questa gente è pronta per farsi mietere come il grano, diceva il buon Churchill, ingenerosamente, con molto cinismo e non senza una punta di razzismo, quando ebbe notizia della sconfitta italiana di Sidi el Barrani). Perciò, l’Italia che piace agli inglesi è quella dell’Amba Alagi e della resa (italiana) con l’onore delle armi e il suono struggente delle cornamuse a far da sottofondo romantico e cavalleresco: anche se oggi sappiamo, grazie alle ricerche di Franco Bandini, che il Duca d’Aosta si fece bellamente abbindolare dai suoi vecchi amici inglesi e che cascò come una pera nella rete dei loro inganni, e finì per arrendersi davanti a un nemico che avrebbe potuto, se non battere, sicuramente tenere a bada per un bel po’ di tempo, laddove si era illuso che non lo avrebbe attaccato e avrebbe consentito ad un “ridotto” italiano di restare intatto, e neutrale, sino alla fine della guerra. E perché poi andare ad arroccarsi proprio sull’Amba Alagi, in assenza di depositi di viveri e soprattutto di sorgenti d’acqua? Tanto valeva regalare la vittoria al nemico: un autentico delitto, visti i prodigi di valore dimostrati dai nostri soldati nell’epica battaglia di Cheren. Con un altro comandante, ad esempio un tipo come Rommel, quei soldati non si sarebbero arresi, ma avrebbero dato parecchio filo da torcere agli inglesi: mentre col Duca, per loro si trattò quasi di una passeggiata militare. Non stupisce che di costui, in seguito, si sia fatto un eroe, sia pure malinconico e un po’ amletico: sono questi i nostri eroi che piacciono agli inglesi: quelli che si arrendono, dopo aver opposto un simulacro di resistenza. Quel che avrebbero potuto fare i nostri soldati, se avessero avuto un comandante meno inetto e sprovveduto, lo si vide a Culqualber, sotto la guida del generale Nasi, dove si batterono come leoni e tennero alta la bandiera italiana in Etiopia, uno contro dieci (2.900 uomini, senza aerei, contro 22.500 uomini con 100 aerei), fino al 21 novembre 1941, più di sei mesi dopo che il Duca d’Aosta aveva deposto le armi sull’Amba Alagi.
L’Italia che piace agli inglesi è anche quella descritta da un loro storico di nessun valore scientifico, ma che è stato d’immensa rilevanza nel determinare l’immagine dell’Italia presso il pubblico britannico, e anche, quel che più conta, presso lo stesso pubblico italiano, specie negli anni ‘70 e ’80 del Novecento: Denis Mack Smith (Londra, 1920-ivi, 2017). Costui, semplicemente, non è uno storico: la sua tecnica preferita consiste nel non tener conto di tutto ciò che non rientra nella sua tesi ideologica precostituita e nell’accentuare e gonfiare al massimo, fino alla caricatura (involontaria), ciò che, invece, gli è gradito. Il risultato è una melensa e banale biografia di Garibaldi, una storia del Risorgimento, una storia delle guerre fasciste, e soprattutto quel brutto libro intitolato Storia d’Italia, pubblicato in Italia da Laterza, nel 1969, al quale, ahimè, si sono abbeverati migliaia di giovani italiani, imparando una storia della loro Patria che faceva a brandelli ogni ombra di obiettività e che collimava così bene con quel fondo di auto-disprezzo che il nostro popolo ha accumulato a causa delle sue disgraziate vicende passate. Collaboratore e allievo di Benedetto Croce e dunque liberale di ferro (ecco la ragione della preferenza accordatagli dalla Laterza), Mack Smith ha ricevuto anche, incredibile ma vero, l’onorificenza di grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. E ciò nonostante che il suo libro, oltre che totalmente fazioso e fastidiosamente paternalistico e pieno di condiscendenza nei confronti del popolo italiano (i soli italiani buoni sono quelli che, sul modello della liberale Inghilterra, rinnegano gli interessi della loro Patria e si fanno servili imitatori e volontari subordinati della politica imperiale britannica; gli altri, Crispi, Mussolini, sono brutti e cattivi, e la storia immancabilmente s’incarica di castigarli) e sia stato criticato, nel merito e nel metodo, da autentici storici del calibro di Renzo De Felice: il che non gli ha impedito di essere il libro più letto dagli italiani interessati alla loro storia, dopo la Storia d’Italia di Montanelli, mentre si fa fatica a trovare una qualsiasi edizione delle opere d’un vero storico italiano dell’Italia come Gioacchino Volpe, la cui colpa imperdonabile, evidentemente, è quella di esser stato fascista, e sia pure assai moderato. Ne consegue che, nel libro di Mack Smith, ogni tentativo di fare dell’Italia una nazione realmente indipendente e sovrana, dal Risorgimento in poi, da parte dei suoi governanti, incontra la disapprovazione, l’ironia e le continue battute sprezzanti dell’autore; basti dire che, facendo il verso allo storico illuminista Edward Gibbon, non si vergogna d’intitolare il capitolo dedicato alla sconfitta italiana nella Seconda guerra mondiale Declino e caduta di un impero romano. Di un impero romano? Sissignori, c’è scritto proprio così. Tanto per dire la serietà storiografica e l’imparzialità del nostro uomo. Viceversa, l’Italia che tanto gli piace è quella che segue le orme della democrazia anglosassone e, raccontando a se stessa la favoletta del Risorgimento nobile e puro (e disinteressatamente aiutato dalla generosa Inghilterra) e della Resistenza non come feroce guerra civile (sempre alimentata, ma solo per nobili e disinteressate ragioni umanitarie, da Sua Maestà britannica), bensì come eroico riscatto dall’infamia nazifascista, si adatta a fare la parte di Cenerentola nel consesso dei maggiori Stati europei, disponibile come sostanziosa e docilissima materia prima per le spregiudicate operazioni finanziarie della City, per i piani egemonici della Deutsche Bank e per i disegni strategici di potenza neocoloniale della Francia, sua eterna nemica.
Apriamo una pagina a caso, letteralmente a caso, perché una vale l’altra, per dare al lettore un piccolissimo saggio della spudorata faziosità della Storia d’Italia dal 1861 al 1997 di Denis Mack Smith, e consideriamo queste poche righe (Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 513):

Mussolini diede un saggio dello stile fascista in politica estera quando fece bombardare Corfù nel 1923. Il generale italiano Tellini, membro di una commissione alleata, era stato assassinato alla frontiera tra l’Albania e la Grecia. Senza aspettare l’accertamento dei fatti, Mussolini inviò un truculento ultimatum alla Grecia e diede ordine ad alcune navi da guerra italiane di bombardare l’isola. Il fatto è ch’egli voleva eclissare D’Annunzio e guadagnarsi la fama di uomo capace di imporre in tutti i Balcani il rispetto per l’Italia.
Nonostante un avvertimento da parte dell’Inghilterra e il fatto che la Grecia accertasse trattative per raggiungere un accordo a Parigi, l’episodio apparve un successo agli occhi di quanti in Italia credevano nell’uso della forza. Esso stabilì comunque un sinistro e premonitore precedente  di violenza rimasta impunita, e nello stesso tempo rappresentò  una sfida aperta alla Società delle Nazioni. Mussolini cercò di accreditare presso la sua opinione pubblica l’idea che il resto d’Europa fosse ammirata e gelosa del suo atto. Non era nella sua natura rendersi conto che poteva tornare a danno dell’Italia crearsi la reputazione di personaggio tracotante e sleale.
Finché non riuscì ad affermarsi in maniera più appariscente, Mussolini cercò tuttavia di rassicurare il mondo lasciando intendere che il fascismo non fosse un articolo d’esportazione e che l’ideologia non avrebbe influenzato la sua politica estera: le sue simpatie e antipatie erano ben note, affermava, ma non avrebbe fondato la sua politica su di esse.  In momenti di minore controllo, tuttavia, annunciò la sua intenzione di provocare la crisi dell’Impero britannico e di fare del Mediterraneo un lago italiano, scacciandone i “parassiti”.

In questa mezza paginetta c’è tutto lo stile, volgare e derisorio, e tutta la prevenzione e la faziosità ideologica dell’autore, in un perfetto condensato (ma, ripetiamo, potevamo aprire qualsiasi altra pagina, con identico risultato). Il bombardamento navale di Corfù nel 1923? Fu ispirato a Mussolini dal solo desiderio di strappare a D’Annunzio la palma di leader morale del nazionalismo italiano. Esso apparve un successo agli occhi di quanti in Italia credevano nell’uso della forza. In Inghilterra, questa tendenza vergognosa a “credere nell’uso della forza” era, evidentemente, lontanissima dal governo e dal sentire dell’opinione pubblica. Si vede che fucilazioni di Dublino, nel 1916, o il massacro di Amritsar, nel 1919, erano stati quisquilie; e la prima pulizia etnica della storia, quella dell’Acadia nel 1755, e il primo caso di guerra batteriologica, le coperte infettate di vaiolo per i pellerossa nel 1763, e i primi campi di concentramento per i civili, in Sud Africa nel 1900, ove morirono migliaia di anziani, donne e bambini, tutti di pura marca britannica, senza dubbio vanno ascritti agli imponderabili del destino, oppure a stringenti e ragionevoli cause di forza maggiore. Mussolini personaggio tracotante e sleale? Sul tracotante si può discutere, certo; anche se uno storico non dovrebbe sparare giudizi morali senza averli prima motivati. Come definire il buon Churchill, allora che, nel 1944 e nel 1945, fece ridurre in cenere le città tedesche senza alcuna necessità militare, e bruciare vive con le bombe al fosforo bianco decine di migliaia di persone innocenti ad Amburgo, Berlino, Dresda? Sullo sleale, poi, non si capisce bene da cosa nasca un tale giudizio. Certo, il bombardamento di Corfù non è stato un’azione umanitaria: ma perché definirlo un atto sleale? Poi, senza volerlo, e dopo aver fatto della psicologia a buon mercato (non era nella sua natura rendersi conto che…) Mack Smith lascia trasparire le ragioni profonde di tanta viscerale antipatia: Mussolini voleva di provocare la crisi dell’Impero britannico e di fare del Mediterraneo un lago italiano, scacciandone i “parassiti”. È straordinario, detto da un figlio di quella Inghilterra che ha dominato l’impero più grande della storia ricorrendo alla politica di provocare e attizzare sistematicamente le crisi dei sistemi politici altrui, dalle guerre dell’oppio contro la Cina all’indebitamento finanziario dell’Egitto del Khedivè. E quanto a voler fare del Mediterraneo un lago italiano, che orrore! Il Mediterraneo, come tutti sanno, è stato creato da Dio affinché sia un lago britannico. Il fatto è che, dal punto di vista intellettuale, Mack Smith, come i suoi amici italiani liberali, crociani e antifascisti, ai quali piaceva tanto (si scorrano le recensioni di allora alla Storia d’Italia, e si vedrà di quali sviolinate son capaci i nostri esterofili e anglofili) è esattamente quel che Mussolini pensava degli statisti suoi connazionali, convinti che nulla fosse più normale e naturale che Gibilterra, Malta e Suez fossero in mano alla Gran Bretagna: un perfetto parassita.  I suoi libri storici hanno il valore di quelli che il sovietico Erusalimskij dedicava alla Germania imperiale e poi nazista: zero. Quella di Mack Smith, che era tanto simpatico ai nostri giornalisti, anche perché si faceva intervistare sfoggiando un bellissimo paio di calze rosa, non è storia, ma aneddotica di bassa qualità e pettegolezzo da portinai. Cari amici italiani e inglesi, non leggetela: non ne vale la pena…