Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Cinema, tv e telefonino: la vita è altrove

Cinema, tv e telefonino: la vita è altrove

di Francesco Lamendola - 13/05/2019

Cinema, tv e telefonino: la vita è altrove

Fonte: Accademia nuova Italia

Parafrasando Jean Renoir, potremmo dire che stiamo vivendo nel tempo della grande evasione; anche se filosofi, sociologi, psicologi e psicanalisti ci dicono e ci ripetono che la nostra vita è qui e ora, e frotte di psicoterapeuti, di maestri spirituali, di esperti di Yoga e di meditazione trascendentale spiegano ai loro pazienti e ai loro discepoli che bisogna vivere hinc et nunc, la verità è che non c’è forse mai stata un’epoca della storia in cui, come ora, la vita degli uomini sia stata altrove (parafrasando questa  volta Milan Kundera). Magari fossimo qui, coi piedi ben piantati sulla terra e lo sguardo rivolto innanzi: niente affatto, siamo sempre da un’altra parte; con l’avvento dell’informatica, in particolare, siamo costantemente altrove. Perfino mentre camminiamo per la strada, perfino mentre guidiamo l’automobile, perfino mentre siamo seduti a tavola coi familiari o gli amici, in realtà siamo altrove: siamo in compagnia del nostro telefonino, stiamo inviando o ricevendo messaggi da qualcun altro, che si trova da un’altra parte (e forse, ironia delle cose, a pochi metri o a pochi isolati di distanza da noi). Stiamo navigando in rete: ma cos’è la rete, se non un altrove virtuale, cioè l’altrove per eccellenza? E in quell’altrove siamo continuamente immersi: i bambini vanno a dormire col loro telefonino sotto il cuscino, sempre acceso, non si sa mai che arrivi un messaggio e non se ne accorgano, sarebbe una tragedia inespiabile. E chi ha messo in mano a un bambino di sei, sette anni un telefonino di ultima generazione, dal quale non sa più staccarsi, né di giorno né di notte, né quando mangia, né quando dovrebbe dormire? Chi, se non i suoi genitori, cioè quelli che, in teoria, dovrebbero aiutarlo a crescere, a scoprire il mondo (quello vero, possibilmente) e a conquistare la propria autonomia? I quali genitori, a loro volta, si sentono persi se non sono presenti sui social, se non hanno centinaia di “amicizie” virtuali, se non si scambiano con qualcun altro ogni pensiero, ogni fatto, ogni minima circostanza della vita, compreso l’invio delle foto delle pietanze che hanno ordinato al ristorante? Sicché si va al ristorante e si vedono persone singole, o anche coppie, intente non a mangiare, e tanto meno a discorrere fra loro, ma a fotografare in tutte le maniere possibili il proprio piatto di pastasciutta, la propria bistecca e le proprie patitine fritte o la propria verdura cotta (sino a farle diventare completamente fredde, e naturalmente senza scambiare una parola con anima viva), e inviarle a qualche misteriosa entità che, all’altro capo del cellulare, evidentemente si entusiasma nel ricevere in tempo reale e nel contemplare quelle immagini, e ne gode come se si trattasse di ammirare un Rembrandt o un Caravaggio – o, almeno, così suppone che avvenga colui che le manda.

Questo progressivo e metodico straniamento dal mondo e da noi stessi, consumato sull’altare della nuova divinità tecnologica, il telefonino (e, in misura minore, il cinema e la televisione)  nasce, sì, dalla frammentazione e dalla complessità della società moderna rispetto a quella tradizionale, nella quale vivevano ancora, in larga  misura, i nostri genitori e soprattutto i nostri nonni; ma è anche il risultato di una precisa politica culturale condotta dalle élite moderniste dell’Occidente, impegnate a smantellare, uno dopo l’altro, i valori tradizionali e, nello stesso tempo a modificare l’autocoscienza delle singole persone, convincendole di esser fragili, inadeguate, a meno che si affidino totalmente alla scienza, per riceverne benessere  e protezione (ad esempio mediante le vaccinazioni preventive contro questa o quella possibile infezione microbica). Che la vita degli uomini sia labile, inafferrabile, “altrove”, e che sia fatta della stessa sostanza dei sogni, è un’idea tipicamente moderna: non a caso quest’ultimo concetto è stato formulato da Shakespeare, nella Tempesta, al principio del XVII secolo, cioè nel pieno della Rivoluzione scientifica. Una simile idea sarebbe apparsa anomala e aberrante a un uomo medievale: non se ne trova traccia in nessun  filosofo o scrittore del medioevo cristiano; si affaccia solamente al principio dell’Umanesimo, con Petrarca, il quale scopre quel doppio uomo che è in lui, e pretende di riallacciarsi all’interiorità Sant’Agostino. E invece nelle Confessioni di Sant’Agostino vi è, sì, il senso della piccolezza umana e del mistero che aleggia al di sopra di tutto ciò che è noto, e anche quello della sua stessa, personale fragilità, ma non vi è affatto l’idea che l’uomo, in quanto creatura, sia fragile e che la vita sia un enigma indecifrabile, ma tutto al contrario, vi è la chiara consapevolezza che la vita è l’opera che Dio ci ha incaricato di portare a buon fine, ritornando a Lui.

Parlando degli effetti del cinema, ma il discorso si può estendere, e a maggior ragione, alla televisione, al computer e al telefonino, osservava il saggista e filosofo tedesco-americano di origini ebraiche Siegfried Kracauer (nato a Francoforte sul Meno nel 1889 e deceduto a New York nel  1966) nel suo libro Film: ritorno alla realtà fisica (titolo originale: Theory of Film, New York, Oxford University Press, 1960; traduzione dall’inglese di Paolo Gobetti, Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 266-268):

 

La vita come forza –quale si afferma, per esempio, nelle poesie di Walt Whitman e, forse, di Émile Verhaeren – è un concetto d’origine relativamente recente. Sarebbe interessante cercar di seguire l’evoluzione di questo concetto, dall’epoca, diciamo, dei romantici, attraverso Nietzsche e Bergson, sino ai nostri tempi (…) Troviamo, in primo luogo, il sorgere della moderna società di massa e la contemporanea disintegrazione di credenze e tradizioni culturali che avevano stabilito tutto un insieme di norme, affinità e valori, secondo cui gli uomini dovevano vivere. Può darsi che il corrodersi degli impulsi normativi c’induca a concentrarci sulla vita come loro matrice, come loro sostrato sotterraneo.

In secondo luogo, viviamo in un’”epoca di analisi”, il che significa, tra l’altro, che nell’uomo moderno il pensiero astratto tende a prevalere sull’esperienza concreta. Whitehead, per citarne uno, si rese benissimo conto che la conoscenza scientifica è assai meno comprensiva dell’intuizione estetica e che la parola da noi tecnologicamente domina soltanto una parte della realtà accessibile ai sensi, al cuore. Il concetto di vita può anche indicare questa realtà che trascende l’anemico mondo spazio-temporale della scienza. È significativo che, dal materiale della sua intervista, Wilhelm concluda che uno degli effetti di elevazione prodotti dal cinema consiste nel permettere a coloro la cui sensibilità è stata resa ottusa dal predominio del pensiero tecnologico e analitico di riprende con la “vita” un contatto “sensoriale e immediato”. Si definisce così’ precisamente il tipo di realtà che sfugge a ogni misurazione. (…)

Ma come soddisfano i film i desideri dell’individuo isolato? Questi fa pensare al “flâneur” dell’Ottocento (con cui ha altrimenti ben poco in comune) nella sua suscettibilità ai fenomeni passeggeri della vita che riempiono lo schermo. Secondo il testimone a nostra disposizione, è il loro fluire che più fortemente lo colpisce. Insieme ai fatti frammentari a essi legati, questi fenomeni – tassì, edifici, passanti, oggetti inanimati, volti – stimolano probabilmente i suoi sensi, provvedendogli il materiale per sognare. Gli interni dei bar fanno pensare a strane avventure; gli incontri improvvisi fanno balenare la promessa di nuovi contatti umani; gli improvvisi mutamenti di scena sono gravidi di possibilità imprevedibili. Attraverso il suo stesso interesse per la realtà fotografica, il cinema permette così, soprattutto allo spettatore solitario, di riempire il suo Io, rattrappito in un ambiente in cui i nudi schemi delle cose minacciano di sostituirsi alle cose stesse; d’immagini della vita come tale: di vita luccicante, suggestiva, illimitata. Evidentemente, queste immagini sparse, ch’egli può naturalmente intrecciare e legare in molti modi diversi, danno tanta soddisfazione al sognatore perché gli offrono vie per evadere in un mondo, simile a un miraggio, di oggetti concreti, di sensazioni vivissime, di possibilità insolite. (…) Ciò che salva lo spettatore dall’isolamento non è tanto lo spettacolo d’un destino individuale che potrebbe nuovamente isolarlo, quanto la vista di persone che si uniscono e comunicano l’una coll’altra secondo linee sempre nuove. Quel che cerca non è tanto il dramma vero e proprio quanto la possibilità del dramma. (…)

Valendosi di questa possibilità, soddisfa anche un altro desiderio. Come già abbiamo detto, Hoffmansthal sostiene che nei sogni dello spettatore rivivono quelli dell’infanzia, caduti ormai nell’inconscio. Tutta questa vegetazione sotterranea” osserva “trema sino alle sue radici più oscure e profonde, mentre gli occhi estraggono dallo schermo luminoso l’immagine dei mille aspetti della vita.” (…)

Il mondo è diventato così complesso – e non soltanto dal punto di vista politico – che non è più possibile semplificarlo. Ogni effetto sembra separato dalle sue molteplici possibili cause; ogni tentativo di arrivare a una sintesi, a un’immagine unica, fallisce. Ecco perché un diffuso senso d’impotenza di fronte alle varie influenze diventa, in quanto sfugge a ogni definizione, impossibile da dominare. Senza dubbio molti di noi soffrono, più o meno coscientemente, d’essere esposti, inermi, a queste influenze. Cerchiamo quindi compensi. E, a quanto pare, il cinema è in grado di darci un temporaneo sollievo. Nel cinema “siamo in grado di cogliere tutto l’insieme”, come dice l’insegnante. L’uomo più deluso e fallito può sentirsi il re del creato.

 

È abbastanza chiaro che lo stesso ragionamento che Kracauer fa per la funzione svolta dal cinema nella società moderna, una funzione sia di tipo sostitutivo e compensativo, sia di tipo estraniante ed alienante, la si può estendere alla televisione, al computer e al telefonino. Da un lato essi ci offrono, o sembrano offrici, un appetitoso surrogato di quella vita vera, fatta di cose concrete, che sempre più ci sfugge di mano, in una realtà quotidiana sempre più pervasa da forze impersonali e da situazioni che vanno assai oltre la nostra capacità di previsione, di comprensione e di controllo: la famosa “complessità” di cui sempre i pensatori post-moderni si riempiono la bocca, come se fosse una forza estranea, magari marziana, e non un riflesso della confusione e della perdita di autocontrollo da parte dell’uomo stesso; dall’altro ci sequestrano e ci tengono imprigionati, in una condizione di dipendenza assai simile a quella dell’eroinomane nei confronti della droga di cui ha bisogno per vivere, e perciò sono i maggiori responsabili del senso di estraniamento che pesa su di noi e ci separa dal qui e ora. Ed ecco così spiegato il rapporto di amore-odio che lega le persone al loro telefonino, al computer, alla televisione e al cinema: è un rapporto malato, ambivalente, in cui si può leggere sia la causa, sia l’effetto della solitudine dell’uomo contemporaneo e il suo caratteristico senso di fragilità e di vulnerabilità. D’altra parte, abbiamo visto che, a partire dal Romanticismo, ma soprattutto dal Decadentismo, si diffondono in Occidente le filosofie che esaltano la forza, la vita, l’adesione dell’uomo al grande tutto della natura: da Walt Whitman, a Nietzsche, a Bergson, a D’Annunzio, a Jack London, a Spengler: pensatori, scrittori e poeti, anche assai diversi fra loro, ma con un elemento che li accomuna: il vitalismo, il volontarismo di matrice naturalista, l’ammirazione per tutto ciò che è “vita”, intesa come azione, e viceversa il disprezzo per la riflessione, l’introspezione, la rinuncia e il distacco, sia nella forma dell’ascetismo, sia in quella di ogni forma di sottomissione a una morale riconosciuta come superiore agli “istinti”. Abbiamo anche visto come un aspetto tipico della vita moderna sia la prevalenza del pensiero astratto sull’esperienza concreta, culminante nel dominio dello scientismo su ogni altro orientamento culturale, tanto che negli ultimi decenni lo scientismo è divenuto tutt’uno con il tecnicismo, e la figura dello scienziato si è fusa con quella del tecnico. Ma il tecnico, oggi, è anche chiunque sappia usare con destrezza e padronanza un computer o un telefonino, cosa che può essere raggiunta anche da un ragazzino: e infatti vi sono dei ragazzini che hanno stupito il mondo, riuscendo a violare le protezioni delle più segrete reti informatiche istituzionali, anche di tipo finanziario o militare. Ora, una simile potenza del sapere tecno-scientifico è proprio ciò che ribadisce la distanza fra gli uomini contemporanei e il mondo delle cose concrete, della vita reale, sostituendo ad esso una realtà virtuale fatta di formule, di algoritmi, di competenze d’ordine strettamente matematico. Ma il mondo delle cose concrete, cacciato dalla porta, preme per rientrare dalla finestra: il cinema, la televisione e i social network sono le finestre mediante le quali le cose rientrano a far parte della nostra vita, naturalmente, però, nella versione artificiale e illusoria che è propria della tecnologia. Eppure l’effetto è simile: i nostri nonni si commuovevamo e piangevano assistendo alla proiezione dei vecchi film sentimentali, così come i nostri figli, oggi, s’immedesimano a tal punto nei giochi di ruolo informatici, da non saperne più uscire e da andare incontro a drammi emotivi ed esaurimenti nervosi, come se si trattasse di esperienze assolutamente reali. E in un certo senso, lo sono: solo che appartengono a una realtà fittizia, a un altrove che ricorda quello di Alice nel paese delle meraviglie.