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La lezione del Kalèvala: o il mito o la storia

di Francesco Lamendola - 15/05/2019

La lezione del Kalèvala: o il mito o la storia

Fonte: Accademia nuova Italia

Le visioni del reale sono fondamentalmente due: mitica e storica. La visione mitica è la più antica: accompagna l’evoluzione dell’umanità dalle narrazioni più elementari, come quella di una tribù amazzonica, a quella più complessa, più ricca e sofisticata in assoluto: la concezione cristiana, passando per la filosofia di Platone. Il mito, è deprimente doverlo ribadire, ma il concetto oggi è tutt’altro che chiaro, non è una favola, quindi la visione mitica non è una visione favolistica; il mito è una verità di origine soprannaturale, che non è possibile esprimere interamente e che non è possibile, in ogni caso, esprimere solo per la via logico- discorsiva, come si fa con le scienze. Ma l’età moderna è l’età dello scientismo, quindi il mito è stato relegato nella soffitta degli arnesi in disuso, e i pochi che ci vanno a rovistare, lo fanno perlopiù con intenti meramente archeologici. Ma la visione mitica non è sorpassata, per la semplice ragione che non si colloca nel tempo, ma al di sopra (non al di fuori!) del tempo; non può essere relegata fra le anticaglie, perché offre una chiave di lettura del reale che è di perenne attualità. Quando lo scrittore Léon Bloy, per esempio, diceva di non leggere affatto i giornali, ma che, per tenersi infornato sulle ultime novità, leggeva l’Apocalisse di san Giovanni e le Lettere di san Paolo, esprimeva perfettamente questo concetto. Colui che guarda al reale con la lente del mito non è un sorpassato, ma è un uomo che ha colto l’eternità del movimento universale; è uno che sorvola sui dettagli e va dritto al cuore delle cose. Nel cristianesimo, il cuore della cosa è l’amore: non l’amore umano, sempre labile e imperfetto, o interessato, ma l’amore totalmente gratuito del Creatore per le sue creature, che si spinge fino al dono più grande che sia possibile concepire (concepire, per modo di dire: è un abisso insondabile per la ragione): l’Incarnazione, la Passione, Morte e Resurrezione del Figlio. Il cristianesimo non è un mito nel senso di una favola, ma è un mito nel senso di una verità eterna, di origine soprannaturale, che gli uomini sono inviati ad accogliere con un atteggiamento di stupore, gratitudine, adorazione.

La visione storica del reale è senza dubbio più recente, ma non così recente come si potrebbe pensare. Non coincide, per intenderci, col sorge della modernità; anche se a partire dal sorgere della modernità tende a diventare la visione “ufficiale”, ossia quella adottata dalle classi dirigenti. Per qualche secolo, la visione mitica del popolo ha coesistito con la visione storica delle classi dirigenti; poi, lentamente, inesorabilmente, la seconda ha finito per prevalere. Inevitabile, perché le classi dirigenti, con la modernità, hanno utilizzato la scuola, la cultura, l’informazione, in maniera assai più totalitaria e strumentale di quanto avesse mai fatto la vecchia classe dirigente pre-moderna: vale a dire per appiattire le coscienze e uniformare le intelligenze, in modo che al cittadino non restasse altro dio che il progresso scientifico e tecnologico, inteso in senso puramente laico e materiale. Questo processo di secolarizzazione e di modernizzazione, in Italia, si è compiuto definitivamente solo negli anni ’50 del Novecento. L’ultimo intellettuale che ne è stato cosciente e ne ha sofferto intimamente è stato Cesare Pavese, il cui mondo poetico è preso nel dilemma crudele fra il mito e la storia; non è un caso che di quel dilemma egli sia morto: è stata quasi l’offerta sacrificale di se stesso sull’altare della nuova “religione”. A quel punto, era quasi fatale (quasi, perché non stiamo parlando di matematica) che il cattolicesimo, depositario, per duemila anni, della più perfetta e armoniosa visione mitica del reale, cominciasse ad alzare bandiera bianca e si arrendesse alle istanze della modernità e della storia, cioè, come allora si diceva, al progresso del mondo moderno. Il Concilio Vaticano II ha avuto precisamente questo significato complessivo: riformare radicalmente il cattolicesimo, sostituendo, come sua base d’appoggio, la visione storica a quella mitica. Un’operazione impossibile, contraddittoria, sacrilega: e ora ne stiamo misurando tutta la portata sotto il pontificato di Bergoglio, il quale infatti dichiara fin dal primo giorno di voler portare a compimento la rivoluzione iniziata nel 1962, con l’apertura del Vaticano II.

Ma la visione storica del reale non nasce con la modernità: fa la sua comparsa al tempo delle prime civiltà agricole e sedentarie. I poemi omerici, per esempio, esprimono una doppia visione del reale, mitica e storica: ci sono gli elementi soprannaturali, ci sono gli dèi che partecipano alle vicende umane, c’è il fato che domina perfino sugli dèi; e c’è il mondo della volontà umana, il mondo della libertà umana, anche se mai del tutto sciolto dalla sfera del divino. Se Paride rapisce Elena, se Ulisse è perseguitato da Nettuno, c’è sempre una spiegazione soprannaturale: gli uomini agiscono, ma dietro di essi ci sono gli dèi e il fato. La coesistenza dei due elementi, mitico e storico, sopravvive, bene o male, per più di duemila anni: la troviamo ancora nella Gerusalemme liberata di Tasso; la troviamo nei Promessi sposi di Manzoni; la troviamo (anche se qui il “mito” si è sostanzialmente laicizzato) nei Malavoglia di Verga. La troviamo, per l’ultima volta, ne La luna e i falò di Pavese; poi, non resta che l’appiattimento della storia come visione unica del reale. A partire dagli anni ’60 del 900 c’è stata una vera e propria esasperazione della storia, con buona pace di quel che diceva Nietzsche per mettere in guardia contro il danno che una sopravvalutazione della storia può provocare alla società. La classe culturale oggi dominante è quella che, in quegli anni, imponeva ai professori di lasciar perdere il greco e il latino e voleva che si parlasse della Lunga Marcia di Mao Tse Tung o della lotta contro i manicomi di Franco Basaglia.

Abbiamo sin qui parlato della cultura occidentale, le cui radici sono nell’Iliade e nell’Odissea. Tuttavia non tutta la cultura occidentale si è svolta sotto il segno della dialettica fra mito e storia; le aree marginali, quelle raggiunte per ultime dalla modernità, hanno conservato la visione mitica e non hanno assorbito per niente quella storica, fino a tempi assai recenti. Parliamo di isole culturali: una delle maggiori è stata quella delle culture ugro-finnche, che, in effetti, pur collocandosi geograficamente in Europa, sono di origine asiatica, precisamente siberiana, e dunque sature di animismo e sciamanesimo. Il poema nazionale finlandese, il Kalèvala, produce nel lettore moderno un’impressione stranissima: simile a quella che prova il naturalista quando scorge passare, solitario e silenzioso, un formichiere gigante nella foresta sudamericana. Il formichiere è un relitto del passato zoologico e come tale viene percepito anche dagli altri animali; allo stesso modo il Kalèvala sorprende e sconcerta perché in esso gli elementi storici sono pochissimi e indistinguibili, mentre quelli mitici predominano dal principio alla fine. Un poema del genere è nato presso una civiltà che era immersa, fino a tempi recenti, in una visone mitica del reale, e teneva in ben poco conto la storia come noi la intendiamo. Colui che lo ha ricostruito, infatti, Elias Lönnrot, ha potuto cogliere dalla viva voce dei contadini del suo Paese, ma soprattutto delle aree più eccentriche, la Carelia, la Lapponia, la Penisola di Kola, i racconti mitici che si tramandavano da tempo immemorabile, sotto forma di canti popolari.  La musica: ecco la chiave di lettura di un poema come il Kalèvala, che è nato per essere recitato, anzi cantato, non per essere letto. L’eroe del poema, Väinämöinen, è un mago, non un guerriero; e la sua arma preferita è il canto, non la spada. Con il canto, egli opera portenti sovrumani: placa le onde del mare in tempesta, supera i pericoli e vince i nemici.

Scriveva, ricostruendo la genesi e le caratteristiche fondamentali del Kalèvala, il filologo classico Athos Sivieri, nell’antologia scolastica L’anima dei popoli. Poemi epici di tutti i tempi (Messina-Firenze, Casa Editrice G. D’Anna, 1970, pp, 473-475):

 

Nel 1835 apriva in Finlandia la prima edizione del “Kalèvala”, un poema che  di una natura differente da qualsiasi altro poema del mondo, singolare e bizzarra: moderno e antico, opera di un individuo e opera di un popolo, nato dall’anima finnica e, insieme, nato dalla questione omerica.

Un medico finlandese, Elia Lönnrot, che già nella sua tesi di laurea, sulla “medicina magica dei Finni” aveva rivelato la propria inesauribile passione per le manifestazioni dell’anima popolare, nel 1828, vestito da semplice contadino era partito a piedi per un viaggio di studio fino in Carelia, durante il quale egli raccolse, penetrando di casa in casa e avvalendosi anche dell’ascendente che gli derivava dalla sua professione, circa trecento “rune”, cioè dei canti che si tramandavamo di padre in figlio, dai più comuni e meno belli, quelli che i “runoiat” o cantatori eseguivano a pagamento, ai più segreti ed importanti che generalmente restavano nell’ambito del villaggio e difficilmente venivano rivelati a coloro che al villaggio fossero considerati estranei.

Tali canti non erano cantati alla rinfusa, ma secondo un certo ordine che faceva sospettare la loro appartenenza ad una sola ed unica epopea. Il Lönnrot concepì allora il grandioso progetto di riunirli insieme, di collegarli tra di loro, di raggruppare i vari frammenti, e questa idea del poema, questa unità creata artificialmente da un uomo che poeta non era, ma solo un grande appassionato della poesia popolare, ha salvato da certa rovina un tesoro di canti che certamente, qualora fosse rimasto solo affidato alla tradizione popolare, sarebbe andato perduto.

Il Lönnrot consacrò alla sua opera 21 anni di vita, dal 1828 al 1849, andando talora con pericoli e disagi per le foreste e le brughiere, per le sponde degli infiniti laghi di cui è punteggiata la sua terra, per i litorali nevosi.

Ne uscì un poema in cinquanta canti per un complesso di 22.800 versi, giacché all’edizione definitiva del 1849 contribuirono altri viaggi del Lönnrot nella Carelia russa, nella Lapponia, nella remota penisola di Kola, nella Estonia, nella Lettonia, per un complesso di circa mille chilometri all’anno, tutti percorsi a piedi.

Sicché il “Kalèvaka” – come per primo affermò il Comparetti – è il solo esempio che si abbia di un poema nazionale, veramente e di fatto risultante da canti minori i quali non si ritrovano in esso, come cercò di fare il Lachmann per l’Iliade, per un principio presupposti, ma noti come realmente esistenti da sé e chi li mise insieme, il Lönnrot appunto, nulla di essenziale inventò e nulla aggiunse di suo, perché il “poema” era già maturato nella poesia tradizionale del popolo finnico, pur non avendo ancora trovato unità esteriore.

Nel 1882, in occasione del suo ottantesimo compleanno, il dottor Lönnrot venne festeggiato come il padre della patria. Due anni dopo moriva.

A causa del modo in cui l’opera fu composta riesce praticamente impossibile riassumere il contenuto del poeta, nel quale si possono tuttavia distinguere tre filoni principali: 1° la formazione del cielo e della terra e la nascita del poeta Väinämöinen, l’eterno cantore, e la descrizione degli incantamenti, delle formule magiche con le quali egli doma gli elementi, trionfa sui nemici, guarisce gli infermi tra lotte di eroi che combattono più con l’arma della magia che con le armi che impugnano, 2° la conquista della bella fanciulla del Pohiola (cioè la regione nord della Finlandia, la Lapponia), “gloria della terra, ornamento delle acque, risplendente nelle candide vesti”, conquista alla quale si accingono oltre al citato Väinämöinen, anche Ilmarinen suo fratello, un fabbro espertissimo e Lemmikainen, un baldanzoso corteggiatore di ragazze e scioperato vagabondo, che può considerarsi l’incarnazione del lato allegro e avventuroso del popolo finnico, 3° la spedizione dei tre eroi non più rivali alla conquista del Sampo, un enigmatico strumento inventato da Ilmarinen, destinato a diffondere la prosperità sulla terra, dalla molteplice funzione di mulino da grano e da sale ed anche da arnese che serve per coniare le monete.

Nel corso di queste avventurose vicende Väinämöinen, come il mitico Orfeo dei Greci, scende nel Tuonela, cioè il sotterraneo regno della morte, alla ricerca di tre parole magiche che gli servono per mettere insieme le parti di un battello che egli vuole costruirsi e inventa la “Kentele”, una specie di arpa simile alla “guzla” dei popoli slavi, con cinque corde la quale ancor oggi, debitamente perfezionata, si usa nei concerti, uno strumento che doveva certamente rinforzare e accentuare la particolar caratteristica ritmica della recita, creando una specie di rapimento.

 

I filologi, naturalmente, si sono chiesti se, e fino a che punto, il Kalèvala nasce da una civiltà mitica ed esprime una visione mitica; in tempi di positivismo trionfante, ciò sembrava quasi uno scandalo. Si sono confrontate, così, una scuola storica, rappresentata da Krohn, secondo la quale il Kalèvala non era poi così antico, non più di 1.000 anni al massimo, ed era l’espressione di fatti storici realmente accaduti e perfino rintracciabili; e una scuola mitica, capeggiata dal Setälä, secondo la quale il poema è antichissimo e le sue vicende sono puramente mitiche, non storiche. Tuttavia, a ben guardare, questa impostazione oppositiva, o il mito o la storia, è tipicamente moderna. Non abbiamo detto che il mito è il racconto, in forma poetica, di una verità altrimenti inesprimibile, perché di origine soprannaturale? E dunque, perché mito e storia si dovrebbero intendere come due alternative inconciliabili? Il mito non è forse la comprensione più ampia e più profonda della storia?