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La carica dei 60 professori contro il governo

di Gianni Petrosillo - 15/05/2019

La carica dei 60 professori contro il governo

Fonte: Conflitti e strategie

 

Sessanta professori hanno firmato un appello contro “ le politiche fiscali del governo” il quale, irresponsabilmente, ha avviato iniziative come il reddito di cittadinanza e “quota 100” che “incrementano le prestazioni sociali di oltre 48 miliardi di euro”, con coperture insufficienti. Ciò, a loro parere, farà inevitabilmente lievitare il deficit. Orrore! Inoltre, le cose potrebbero persino peggiorare con l’introduzione della flat tax che porterebbe il disavanzo a livelli ancora più incontrollabili. Doppio orrore senza libidine! Chi sono questi insigni luminari della triste scienza così preoccupati per le casse dello Stato? Alcuni di loro, in questi anni, hanno ricoperto incarichi ministeriali eppure i loro contributi non hanno invertito la situazione disastrosa (Brunetta e Padoan), altri hanno amministrato aziende o organismi di rappresentanza delle stesse (Innocenzo Cipolletta) ma non sono passati alla Storia per i mirabili risultati raggiunti. Poi ci sono i figli di…comunisti illustri come Bruna Ingrao e Pietro Reichlin. Su questi stendiamo un velo rosso pietoso. Questo consesso di cervelli sopraffini, sulla cui competenza tecnica non discuto (ma si tratta di un’aggravante date le circostanze), riesce a sviluppare il seguente risibile argomento a supporto delle sue congetture: “il nuovo debito sarà pagato dalle prossime generazioni”. Mecojoni! E si sono messi in sessanta per arrivare alla brillante conclusione epocale? Gli esperti di cui sopra temono che il disavanzo possa aumentare “oltre il 3,4 per cento del pil nel 2020 ed il debito al 139 per cento nel 2024”. Perché queste sarebbero “soglie di guardia” non lo spiegano se non attraverso “logaritmi gialli”, come li avrebbe definiti Marx, frutto della loro fervida irrazionalità. Lo dicono i mercati, le agenzie di rating e la Commissione europea. E Sti cazzi! 
Costoro, più che altro, sembrano aver dimenticato la storia e ignorano la realtà dei tempi. La nostra è un’epoca eccezionale, con una crisi che va approfondendosi da più di un decennio. A mali estremi, dunque, estremi rimedi. 
Il new deal, tanto per fare un esempio, si basò su un forte incremento della spesa statale effettuata in deficit di bilancio (senza dunque preoccupazioni per il Debito pubblico), anticipando così, si può dire, la successiva teoria keynesiana formulata nel 1936. Lo scrive La Grassa nel saggio “Crisi economiche e mutamenti geopolitici”. Qualche sollievo si ebbe da tali scelte, che contraddicevano le teorie dominanti del momento, come quella di Pigou, anche se si uscì “definitivamente” dalla crisi solo dopo la II Guerra Mondiale, allorquando la disputa tra potenze venne a risolversi a favore di due di esse: Usa e Urss che si spartirono il mondo. Tuttavia, Se Roosvelt avesse dato retta ai precetti più in voga anziché a quelli meno seguiti (ma più giusti per la congiuntura) la questione sociale gli sarebbe esplosa tra le mani più di quanto non accadde. 
Lo conferma La Grassa nel saggio nominato (la citazione è lunga ma molto esplicativa):

“Non ci si preoccupò del debito pubblico in conseguente notevole ascesa, poiché il problema fondamentale era occupare il maggior numero di lavoratori possibile. La successiva teorizzazione keynesiana diede però a tale scelta anche una razionalità in termini di politica economica adeguata a combattere la crisi nei suoi termini più generali. La domanda privata era carente. Come già è stato detto sopra, le aspettative imprenditoriali erano improntate al netto pessimismo e la domanda di beni d’investimento dunque cadeva malgrado ogni possibile riduzione degli interessi chiesti sui prestiti. La chiusura delle imprese provocava licenziamenti, riduzione dell’occupazione e perciò della massa salariale con conseguente riduzione della domanda di beni di consumo, ulteriore peggioramento delle aspettative imprenditoriali, nuovi licenziamenti, ulteriore contrazione della massa salariale e della domanda di consumo; e così via nel circolo vizioso della crisi. 
La spesa statale doveva supplire alla deficienza di quella privata. Per il compimento delle opere pubbliche venivano riaperte date imprese; riprendeva la domanda di beni d’investimento di queste ultime, veniva riassunta una quota di lavoratori disoccupati, iniziava dunque a crescere la massa salariale distribuita con aumento della domanda di consumo, che spingeva altre imprese ad entrare in campo, ecc. ecc.; si metteva in moto quello che venne definito il moltiplicatore degli investimenti (pubblici), invertendo così il circolo vizioso precedente e favorendo la ripresa del sistema economico. Il risollevarsi del reddito prodotto, anche a parità di pressione fiscale – o addirittura con il suo alleggerimento per stimolare l’attività imprenditoriale – avrebbe condotto ad un incremento del gettito delle imposte con possibile riduzione del debito nel prosieguo di questa politica economica. Mentre, all’incontrario, calcare sull’imposizione fiscale con l’ossessione del pareggio di bilancio e del debito pubblico, avrebbe avuto influssi negativi sulla domanda, dunque sulla crescita, con il possibile risultato finale di un deficit di bilancio non sanato e di un debito pubblico magari in aumento. 
Questo, molto all’ingrosso, il ragionamento seguito per giustificare una politica di spesa statale in deficit di bilancio, una spesa che si preoccupava il meno possibile della crescita del debito dello Stato. E’ bene chiarire alcuni punti essenziali. Intanto, la spesa pubblica s’interessava tutto sommato meno delle opere che venivano portate a compimento tramite essa di quanto invece non puntasse al reimpiego della forza lavoro (combattendo la disoccupazione che era una piaga sociale e non un mero fatto economico), ottenendo nel contempo un rilancio dei consumi depressi che miglioravano le aspettative imprenditoriali e stimolavano quindi la crescita produttiva tramite la messa in moto del già ricordato circolo virtuoso (con moltiplicazione degli effetti di una spesa iniziale). Per realizzare una simile finalità, era necessario che la spesa pubblica fosse veramente aggiuntiva rispetto a quella privata. Essa doveva dunque essere effettuata in deficit di bilancio, al limite stampando nuova moneta e con questa ottemperando agli obblighi dell’investimento statale. Se si fosse preteso il mantenimento del pareggio di bilancio, ottenuto allora con un incremento delle imposte, si sarebbe tolto con una mano ciò che si dava con l’altra. Lo stimolo alla domanda, e quindi alla ripresa, sarebbe venuto a mancare (salvo considerazioni particolari, contenute nel cosiddetto teorema di Haavelmo, che non credo sia qui d’interesse e nemmeno di possibile discussione).
Altro punto d’estrema rilevanza è che quanto appena detto è valido se si fa riferimento ad un sistema economico capitalisticamente sviluppato, dove non esiste soltanto disoccupazione del “fattore” lavoro, ma inutilizzazione di una corrispondente massa di beni di produzione, del capitale fisso. Devono esserci lavoratori a spasso, ma anche fabbriche chiuse e con impianti in grado di essere rimessi presto in funzione. E’ inoltre necessario che si sia già ampiamente e lungamente sviluppato il cosiddetto spirito imprenditoriale. La domanda d’investimento è caduta perché le aspettative degli imprenditori sono divenute pessimistiche, quindi a crisi già in atto. La spesa pubblica ridà fiducia a questi soggetti, i quali sono già in possesso delle strutture produttive non più funzionanti per la caduta della domanda privata, e non aspettano altro che veder migliorare nuovamente la prospettiva di sbocchi di vendita. 
Ove non sussista questa seconda indispensabile condizione, la spesa pubblica, lo stampare nuova moneta per finanziarla, ecc. conducono solo all’inflazione senza crescita del reddito prodotto in termini reali. Infatti, quando nel dopoguerra, simili teorie furono pure applicate in paesi in via di sviluppo (per non dire arretrati, sottosviluppati), mancanti di industrie o di un’agricoltura appena un 
po’ modernizzata con livelli di produttività almeno in parte paragonabili a quelli dei paesi sviluppati, e inoltre privi di qualsiasi strato sociale che potesse dirsi imprenditoriale, i risultati furono catastrofici o quanto meno nulli”.

La carica dei “sessanta” non fa nemmeno un piccolo sforzo di immaginazione, dettato dal parallelismo storico (mutatis mutandis, s’intende) però pretende di vaticinare i prossimi imminenti disastri, causati provvedimenti sociali che nemmeno lontanamente si avvicinano, per ordine di risorse necessarie, alle reali esigenze nazionali. Un po’ di misura signori! Oltre il disavanzo al 3,4 per cento del pil non c’è la fine del mondo, come sostenete voi. Imponete a voi stessi l’austerità intellettuale che pretendete dal Paese in senso economico. Soprattutto perché, vorremmo ricordarvelo, nessuno di voi fu in grado di anticipare la crisi iniziata nel 2008 mentre si brindava con lo champagne al benessere globalizzato. Ora, invece, vorreste tagliare le mani a tutti gli spreconi di Stato facendo gli smemorati sulle vostre (scarse) doti profetiche. Ci vorrebbe un bel disavanzo al 10 o al 20% accompagnato da centomila pernacchie e calci nel sedere a chi fa l’uccellaccio del malaugurio.