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Evitare l’estinzione attraverso un cambio di paradigma

di Nafeez Ahmed - 04/06/2019

Evitare l’estinzione attraverso un cambio di paradigma

Fonte: Come Don Chisciotte

Nel corso dell’ultimo mese, come giornalista e accademico, ho provato una strana sensazione di paralisi.
Di solito ciò è qualcosa che non provo. Di solito mi trovo spinto dalle pressioni di voler seguire, con la dovuta equità, un ampio spettro di crisi intersecanti e le soluzioni potenziali.
Ma [in] questo mese, assistendo allo spettacolo della follia politica che si sta svolgendo tra Washington, Londra e Bruxelles, mentre il caos e il patimento continuano a innescarsi trasversalmente a Venezuela, Yemen, Israele-Palestina, Siria, Nigeria e oltre, ho provato qualcosa che non percepisco da lungo tempo. Un senso di totale esaurimento. Di inutilità. Di stanchezza.
Guardare le notizie è come salire su un ring di pugilato psicologico, in cui si viene presi a pugni ripetutamente fino a quando non ci si lascia cadere a terra, sfiancati, insanguinati e inerti: impotenti.
Non riesco a immaginare che questa sia una sensazione particolarmente unica. Ma volevo condividerlo con voi perché questo è una base comune. La base comune, trasversalmente ai divari che si approfondiscono, lacerando le nostre società. Indipendentemente da quale parte del divario ci troviamo, quella sensazione di paralisi e impotenza si sta manifestando in forma tangibile nei processi politici che vediamo in campo.
La sensazione di paralisi non è quindi solo un artefatto psicologico. È l’esperienza interna della disfunzione sistemica che si svolge nel mondo. È un riflesso dello stato di collasso che le nostre istituzioni democratiche prevalenti stanno vivendo, quando si dimostrano completamente incapaci di reagire e trovare soluzione, per via dell’intricata complessità di crisi globali convergenti intrinsecamente interconnesse.
Come affrontare l’”Altro” è ormai diventato il punto critico distintivo della politica occidentale contemporanea. È particolarmente esemplificato nella paralisi del governo e del parlamento britannico, di fronte al processo della Brexit; la paralisi del governo statunitense, in merito al “Muro” dell’amministrazione Trump; l’inesorabile tendenza a rendere opinione corrente il sentimento anti-“Altro” in tutta Europa, nella misura in cui il fallimento dell’ordine vigente, per risolvere le crisi interne, ha portato al risorgere di nuove forme di politica estrema, ispirate al nativismo e ai rigetti [di stampo] nazionalista[verso] gruppi di persone considerate sia “straniere”, sia parassiti.
All’interno di questo paradigma, l’espulsione dell'”Altro” è la soluzione finale. Questo è il modello di gioco a somma zero dell’esistenza. Non ce n’è per tutti, quindi abbiamo bisogno di accumulare il più possibile per noi stessi, che siamo strettamente definiti. Più crescita, ma solo per “Noi” – perché “Loro” sono quelli che prendono il nostro lavoro.
Ma il rimbombo sotto la superficie di questa ossessione verso l'”Altro” è un problema più profondo, che troviamo molto difficile affrontare: il fatto è che il sistema di vita che abbiamo costruito per noi stessi, e che molti di noi pensano sia stato indebolito da troppi di “Loro”, sta già collassando a tutti gli effetti.
È stata accolta con favore la copertura mediatica di un sorprendente nuovo report delle Nazioni Unite da parte dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES). Il report decreta che la civiltà umana sta sistematicamente distruggendo i propri sistemi di supporto vitale, determinando la potenziale estinzione di massa di almeno un milione di specie animali e vegetali.
Il motore trainante di questa distruzione è il paradigma di “crescita infinita” della nostra attuale economia globale, un paradigma che ha visto crescere maniera esponenziale, popolazioni e città in tutto il mondo, determinando a sua voltala crescita esponenziale del consumo di risorse, materie prime, cibo ed energia.
Quest’espansione crescente della civiltà industriale, per come la conosciamo, ha devastato gli ecosistemi naturali, portando al declino di numerose specie che sono fondamentali per il continuo funzionamento sano dei servizi naturali che forniscono cibo, impollinazione e acqua pulita, essenziali per sostenere la nostra propria civiltà.
Se continuiamo su questa strada, la nostra continua distruzione della natura, delle foreste e delle zone umide danneggerà fatalmente la capacità della terra di rinnovare l’aria respirabile, il suolo produttivo e l’acqua potabile.
Il report è di gran lunga il più completo per colpire nel profondo, [in merito] alla modalità del collasso della biodiversità che alla fine implica il collasso della civiltà umana. Ma non è certo l’unico studio a confermare la nostra attuale traiettoria.
A febbraio, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) ha emesso una propria valutazione globale e omnicomprensiva su 91 Paesi, avvertendo che le tecniche agricole prevalenti stavano distruggendo la biodiversità necessaria per sostenere la produzione alimentare globale.
Secondo il report, di 7.745 razze di bestiame locali (presenti in ogni singolo Paese) segnalate a livello mondiale, il 26% è a rischio di estinzione; quasi un terzo delle riserve ittiche è sottoposto a sfruttamento eccessivo, con oltre la metà delle quali che ha raggiunto il limite sostenibile; e il 24% di quasi 4000 specie di prodotti alimentari che ci fornisce la natura – principalmente piante, pesci e mammiferi – stanno diminuendo in abbondanza (un numero probabilmente molto più alto a causa della mancanza di dati).
Un altro report di questo mese, da parte del World Wildlife Fund e Global Footprint Network, sottolinea come questa massiccia distruzione sistematica ambientale sia radicata in un modo di vivere basato sul consumo eccessivo di risorse naturali: stiamo crescendo oltre i nostri mezzi. Stiamo prendendo senza restituire.
Il nuovo report mostra [un quadro di] come se tutti nel mondo consumassero allo stesso livello degli abitanti dell’UE, solo nel periodo dal 1° gennaio al 10 maggio, l’umanità avrebbe usato tanto, quanto gli ecosistemi del pianeta possono rinnovarsi durante l’intero anno: ciò significa che 2.8 pianeti Terra sarebbero necessari per provvedere questo livello di consumo.
Quindi c’è qualcosa che, fondamentalmente, non va. Tuttavia, per la maggior parte, i nostri leader politici sono preoccupati dei sintomi superficiali di questa crisi fondamentale della civiltà, piuttosto che della crisi stessa.
La valutazione globale dell’IPBES dell’ONU, ad esempio, conferma che il pianeta sta attualmente vivendo 2.500 conflitti per i combustibili fossili, l’acqua, il cibo e la terra – conflitti che sono quindi direttamente correlati al collasso della biodiversità della Terra che è in corso.
Questi conflitti stanno determinando lo spostamento di massa e le migrazioni di persone in tutto il mondo, che a sua volta radicalizza le burocrazie politiche e innesca reazioni nazionaliste estreme.
In questo mese, un nuovo studio dell’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC) del Norwegian Refugee Council (NRC) –varato presso la sede delle Nazioni Unite a Ginevra – ha rilevato che 41,3 milioni di persone in tutto il mondo sono sfollate all’interno dei loro Paesi a causa di conflitti e violenza. Questo è il [livello] più alto che sia mai stato [registrato], un aumento di oltre un milione dalla fine del 2017 e due terzi in più rispetto al numero globale di rifugiati.
Il report evidenzia crisi particolari: i conflitti in corso nella Repubblica Democratica del Congo e in Siria, un aumento delle tensioni tra comunità in Etiopia, Camerun e nella regione centrale della Nigeria, che insieme contribuiscono per la maggior parte dei 10,8 milioni di nuovi spostamenti.
Molte di questi disagi sono direttamente collegati agli impatti dei cambiamenti climatici. Nel 2018, eventi meteorologici estremi sono stati responsabili della maggior parte dei 17,2 milioni di nuovi spostamenti. I cicloni tropicali e le inondazioni monsoniche hanno portato a sfollamenti di massa nelle Filippine, in Cina e in India, per lo più sotto forma di evacuazioni. La California ha subito gli incendi più distruttivi della sua storia, che hanno causato lo sfollamento centinaia di migliaia di persone. La siccità in Afghanistan ha provocato più sfollamenti rispetto al conflitto armato del Paese, e la crisi nel Nord-Est della Nigeria è stata aggravata dalle inondazioni che hanno colpito l’80% del Paese.
La connessione al clima è stata ulteriormente sottolineata in un importante studio scientifico pubblicato all’inizio di quest’anno su Global Environmental Change, il quale ha decretato che il cambiamento climatico ha svolto un ruolo significativo nella migrazione e nella richiesta di asilo dal 2011 al 2015, creando gravi siccità che hanno provocato ed esacerbato i conflitti.
I conflitti in Medio Oriente, nell’Asia Occidentale e nell’Africa Subsahariana sono stati esacerbati dalle “condizioni climatiche”, dando luogo infine a più di un milione di profughi disperati che si sono riversati sulle coste europee. Quella migrazione di massa, ovviamente, ha svolto un ruolo fondamentale nella campagna del Regno Unito per lasciare l’Unione europea, e nel risveglio del sentimento nazionalista in Europa, negli Stati Uniti e altrove.
Entro la fine del secolo, non sarà solo della migrazione, di cui ci dovremo preoccupare –se continueremo a fare come al solito – sarà anche di un pianeta inabitabile: una situazione in cui anche noi finiremo per diventare l’Altro.
Ed è qui che l’assoluta inutilità delle risposte politiche convenzionali – e il discorso politico prevalente – emerge. Perché, naturalmente, sia che lasceremo o meno l’UE, non avremo veramente alcun impatto significativo sui driver sistemici fondamentali della migrazione di massa. Né riusciremo in ciò, sia che costruiamo per davvero un muro lungo il confine tra Stati Uniti e Messico.
Eppure, mentre il pianeta brucia sotto i nostri piedi, ci preoccupiamo di questioni essenzialmente irrilevanti, le cui risposte non offrono nulla di concreto per affrontare la vera crisi, alla quale, a tutti gli effetti, siamo ciechi.
Non c’è da meravigliarsi, che seguendo la guida ispiratrice di Greta Thunberg, alcuni abbiano considerato poche opzioni, se non scendere in strada, per mezzo di movimenti di protesta come Extinction Rebellion (XR). La speranza è che una sostenuta resistenza nonviolenta possa costringere i governi a intraprendere l’azione urgente necessaria per passare rapidamente alle società senza combustibili fossili.
Ma c’è un limite grave in questo approccio. XR ha sofferto di una grave mancanza di pensiero coordinato. Non era basato sulla comprensione della crisi climatica come una crisi dei sistemi, e quindi non è riuscito a collegare esplicitamente l’azione per il clima ad altri sistemi chiave come l’austerità, il cibo, l’acqua, la politica, la cultura e l’ideologia. Pertanto, XR non è riuscita a fare appello al popolo e si è in gran parte occlusa a persone di colore e ai vari gruppi di fede.
L’altra faglia è che l’obiettivo dell’azione – il governo nazionale – potrebbe non aver colto il punto. I governi sono semplicemente dei nodi in un più ampio sistema di potere che non controllano realmente, ma tendono a essere loro compiacenti – un sistema di potere in cui siamo tutti, in varia misura e in modi diversi,conniventi.
È giustappunto attraverso i governi che il sistema prevalente ha sviluppato, negli ultimi decenni, un’opposizione speciale alla forza delle proteste di piazza. Questo è il motivo per cui le più grandi manifestazioni non sono riuscite a far deragliare la guerra in Iraq. Le dottrine della contro insorgenza, messe a punto nei teatri di guerra, sono state sempre più applicate nei contesti nazionali per contrastare, distruggere e neutralizzare tutte le forme di azione di protesta. La paura di ciò che Samuel Huntington in passato ha definito la “crisi della democrazia”, ha evidenziato che i governi si sono dedicati a garantire che l’azione di protesta diretta abbia possibilmente il minor impatto tangibile. Scendere in strada e sperare che i poteri costituiti facciano ciò che si desidera non è, quindi, una strategia praticabile.
Ciò non significa che XR non dovrebbe far parte di una strategia più ampia.
Ma al momento non esiste una strategia più ampia, non esiste un coordinamento incrociato tra gruppi e settori per creare una comprensione della crisi più a livello di sistema, e quindi consentire un esame delle soluzioni più a livello di sistema. E c’è una ragione molto importante per ciò. La risposta che considera la “ribellione dichiarata” come unica forma possibile di reazione è un risultato diretto dell’impatto degradante di un sistema, il cui intero progetto è evocare un senso di impotenza e apatia nei cittadini.
Siamo stati addestrati a credere che votare ogni tanto, nei sistemi parlamentari, sia sufficiente per un’azione democratica efficace che sia al servizio dei nostri interessi legittimi. Ora sappiamo che questo non è abbastanza. Le nostre democrazie non sono solo infrante, obbligate a interessi speciali appartenenti a una rete interconnessa di energia, difesa, agroindustria, biotecnologie, comunicazioni e altri conglomerati industriali dominati da una piccola minoranza.
Le nostre democrazie sono in uno stato di collasso: incapaci di affrontare la complessità sistemica della crisi della civiltà. Mentre falliscono, stanno virando verso il rifiuto del loro stesso ethos democratico, verso un crescente autoritarismo, puntando su poteri centralizzati dello Stato per scongiurare pericolosi “Altri” e cittadini insubordinati. E quindi è semplicemente naturale percepire che la risposta più diretta deve essere reagire contro questo stato di abbietto fallimento. Eppure, questa risposta in sé è una finalità della stessa sensazione di impotenza e paralisi, indotta dal sistema stesso.
Il problema è che le democrazie liberali nella loro forma attuale sono in uno stato di collasso per una ragione: sono, infatti, incapaci di affrontare la complessità sistemica della crisi della civiltà. Nessuna resistenza non violenta fornirà alle nostre istituzioni politiche esistenti la capacità di affrontare la crisi. Perché il problema penetra molto, molto più in profondità.
Finché non affronteremo la questione della trasformazione delle stesse forze e delle strutture del capitalismo neoliberale contemporaneo per come lo conosciamo, il paradigma economico distintivo della nostra civiltà globale, stiamo parlando una lingua sbagliata.
Ma anche qui, questa trasformazione non è semplicemente una questione di economia. È una questione del nostro intero paradigma dell’esistenza. Ed è qui – nel riconoscere che l’attuale crisi ci chiama non solo a una trasformazione fondamentale nelle nostre relazioni esterne, ma che è contemporaneamente co-estensiva al nostro essere interno – che emerge il percorso per l’azione.
Negli ultimi 500 anni circa, l’umanità ha eretto una civiltà della “crescita senza fine” fondata su un particolare mosaico di visioni ideologiche del mondo, valori etici, strutture politiche ed economiche e comportamenti personali. Questo è un paradigma che eleva l’idea degli esseri umani come unità materiali disconnesse, atomistiche e in competizione, che cercano di massimizzare il proprio consumo materiale come principale meccanismo per l’auto-gratificazione. Questo è il paradigma che definisce il modo in cui viviamo nella nostra vita quotidiana e, costantemente, prende il sopravvento nel modo in cui finiamo per condurre le nostre relazioni con la nostra famiglia e gli amici, nei nostri luoghi di lavoro e oltre. È il paradigma che ha rinsaldato la nostra attuale traiettoria verso l’estinzione di massa.
Questo non riguarda solo i sistemi esterni. Riguarda anche i sistemi di pensiero interni, con cui l’esterno è co-esteso, e per via dei quali ci siamo imprigionati. Il nostro intero modello riduzionista e meccanico di ciò che pensiamo significhi essere umano, deve essere riscritto.
Rompere questo paradigma richiede molto più che fare appello a istituzioni che hanno perso efficacia. Perché a questo punto esponiamo le nostre carte e siamo totalmente onesti; per la maggior parte delle persone bianche dell’ampia classe media che hanno partecipato alle proteste di XR, non è davvero così difficile farlo. Il divario più grande qui è che ciò non richiede necessariamente un atto di cambiamento trasformativo da parte degli stessi manifestanti.
Questo è ciò che manca alla nostra risposta alla crisi della civiltà. Le nostre risposte si basano su un esigente cambiamento da parte dell’”Altro”. Che si tratti di governi, di filantropia o di affari, ciò ha a che fare con il chiamare a rendere conto tutti gli altri da noi stessi. Il problema è sul campo e dobbiamo gridare e puntare i piedi a terra per far sì che Loro ci ascoltino.
Quando ci renderemo conto che Loro siamo Noi?
Non è che non dovremmo protestare o chiedere che le istituzioni cambino. Ma molto più di questo, se prendiamo ciò veramente sul serio, la sfida più grande è che ognuno di noi lavori all’interno delle proprie reti di influenza, per esplorare come noi stessi possiamo iniziare a cambiare le organizzazioni e le istituzioni in cui siamo integrati.
E significa fondare questo sforzo in una cornice di orientamento completamente nuova, quella in cui gli esseri umani sono intrinsecamente interconnessi e integrati nel [pianeta] Terra, dove non siamo atomisticamente separati,come signori tecnocratici, dalla realtà in cui ci troviamo, ma siamo co-creatori di quella realtà come parti identificate di un continuum dell’essere.
Qualunque cosa accada nel mondo, la crisi là fuori sta chiedendo a ciascuno di noi di diventare ciò di cui abbiamo bisogno di essere, [ciò che] veramente siamo e siamo sempre stati. E sulla base di questo rinnovamento interno, agire radicalmente nei nostri contesti fondati sul territorio per costruire i semi del nuovo paradigma, proprio qui, proprio ora.
Come possiamo cambiare alcuni dei sistemi all’interno delle nostre scuole, dei nostri luoghi di lavoro, dei luoghi dove agiamo? In che modo possiamo sfruttare gli insegnamenti tratti dalla nostra pratica personale e dalla trasformazione come persone e unità familiari, e tradurli in collaborazione con le nostre comunità locali per stimolare cambiamenti,fondati sul territorio, nei nostri contesti locali? Come possiamo piantare i semi per nuove organizzazioni, istituzioni, imprese, approcci politici, attraverso le nostre stesse azioni, anche mentre ne invochiamo di preesistenti per intraprendere azioni urgenti, rifiutando tuttavia soltanto di aspettare oziosamente per farlo, iniziando da noi stessi? Come possiamo, attraverso questi sforzi, lavorare per seminare la consapevolezza che il grande compito è costruire un nuovo paradigma post-crescita, post-carbonio, post-materialista?
Cerchiamo di non dare sfogo solamente alla protesta. Costruiamo le nostre capacità come individui e membri di varie istituzioni per pensare e agire in modo diverso, all’interno della nostra coscienza e del nostro comportamento, nonché trasversalmente all’energia, al cibo, all’acqua, alla cultura, all’economia, agli affari, alla finanza. Così facendo, piantiamo i semi di un paradigma emergente di vita e realtà che ridefinisce l’essenza stessa di ciò che significa essere vivi.
Questa è la conversazione che dobbiamo iniziare ad avere, dai nostri consigli di amministrazione, ai nostri consigli di governo – per quelli di noi che hanno preso coscienza di ciò che è in gioco, la vera domanda è: come posso effettivamente mobilitarmi per costruire il nuovo paradigma?