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Cosa sono la verità e il bene, e cosa non sono

di Francesco Lamendola - 08/06/2019

Cosa sono la verità e il bene, e cosa non sono

Fonte: Accademia nuova Italia

Abbiamo affermato e ripetuto tante volte che l’ente ha bisogno di verità e che l‘ente tende al bene; che nella verità e nel bene è felice, nella falsità e nel male è infelice; e che la verità stessa è il bene più grande di tutti gli altri beni, perché senza di essa nessuna cosa è perfetta e quindi veramente buona, mentre con essa le cose buone divengono ancor più perfette, cioè migliori. Si tratta ora di vedere da vicino cosa sia la verità e cosa sia il bene, per avere le idee chiare riguardo alle massime questioni dell’esistenza. Precisiamo anzitutto che qui stiamo parlando della verità e del bene non dell’Essere, che è somma Verità e sommo Bene in se stesso, e quindi è la causa e il fondamento di ogni verità e di ogni bene relativo agli enti, ma della verità e del bene  degli enti medesimi; e che lo facciamo in senso trascendentale, cioè con riferimento ad una proprietà che sia la più universale possibile, vale a dire nell’accezione della metafisica scolastica (e non nell’accezione kantiana o in quella idealista del termine “trascendentale”). Ci rifacciamo, oltre che direttamente al pensiero di San Tommaso d’Aquino, a una sintesi eccellente della filosofia tomista come quella, in lingua latina, di A. Farges e D. Barbedette, Philosophia scholastica, tomo primo, Logica, Ontologia, Cosmologia (Parigi, 1912). Diciamo dunque che esiste una verità metafisica, ossia una verità assoluta delle cose, per quanto le cose finite non abbiano natura assoluta, ma relativa; e che l’assolutezza della loro verità consiste, ed è garantita dalla Verità suprema, quella dell’Essere, dal quale ogni singola cosa deriva, direttamente o indirettamente. Quanto alla natura della verità metafisica, osserviamo che essa può darsi in quattro differenti accezioni:
a) in senso fondamentale, cogliendo la cosa in se stessa, che si riflette con piena evidenza nel giudizio, come nella seguente affermazione: ciò che è, è;
b) cogliendo la relazione immediata e diretta che unisce la cosa all’intelletto, ovvero quando la cosa si conforma e si adegua perfettamente al giudizio dell’intelletto; come quando diciamo, di una mela: questa è una mela;
c) quando l’intelletto coglie la conformità della conoscenza con la cosa conosciuta, il che ci dà una verità logica o formale: ad esempio, una mela è una mela (e non può essere nient’altro, pena una contraddizione logica);
d) quando si tratta di una verità del discorso, che scaturisce da una verità dell’intelletto, come nel caso delle verità morali; ad esempio quando diciamo una frase come questa: amare Dio è il sommo bene, odiare Dio è il sommo male. Quando si parla di una determinata cosa nella prospettiva ontologica, si assume la seconda accezione, cogliendo cioè la relazione fra la cosa e il giudizio, seconda la celebre espressione: adaequatio rei et intellectus.
E già da qui si capisce in che cosa consista e da dove abbia origine la babelica confusione che regna nel discorso filosofico, o pseudo-filosofico, della modernità: dall’indebita trasposizione del giudizio dal piano del contingente al piano dell’assoluto. Tale è il peccatum originalis di ogni filosofia relativista. Ogni volta che si sente dire: non esiste verità assoluta, perché ciascuno possiede la sua verità; oppure: la verità è necessariamente mutevole, perché dipende dal punto di vista che assume l’osservatore, in effetti si assiste a un indebito slittamento di significato dal piano del relativo al piano dell’assoluto. Si pretende, cioè, di assolutizzare ciò che è stato empiricamente osservato, il che è fare della cattiva filosofia. Non è affatto sufficiente svolgere una serie di osservazioni empiriche per dedurne una legge di carattere universale. Per fare un esempio pratico: immaginiamo di trovarci su un’isola dove tutti i funghi sono velenosi; se volessimo formulare una conclusione universale: tutti i funghi sono velenosi, evidentemente sbaglieremmo, perché pretenderemmo di estendere al mondo intero una verità limitata a un’area circoscritta.
La falsità, essendo il contrario della verità, può essere definita come l’inadeguatezza, o l’assenza, di concordanza fra la cosa e l’intelletto. Quando l’assenza di conformità si ha nell’ambito della conoscenza, si chiama propriamente errore; quando si ha nell’ambito della comunicazione, si chiama menzogna. La menzogna pertanto è la negazione deliberata della verità, che viene fatta in relazione ad altri (o anche sa se stessi); l’errore si verifica quando si cade in un ragionamento in cui non viene colta la vera relazione fra la cosa e l’intelletto. L’errore genera la menzogna, perché la menzogna non è altro che un errore comunicato agli altri e diffuso come se fosse la verità. Tutte le cose possono apparire false a causa di situazioni accidentali, mentre per se stesse sono vere, e altrettanto sono vere in relazione a Dio.  Un esempio banale: una mela è una mela, questa è la verità; ma, vista da lontano, una mela può essere scambiata per un altro frutto. Anche davanti a Dio una mela è sempre una mela, così come ogni altra cosa, persona o situazione appaiono sempre nella loro reale natura. Le cose possono apparire false a causa di un errore del giudizio (una mela può essere scambiata per un altro frutto); a causa di un errore dei sensi (un bastone immerso nell’acqua appare spezzato); infine a causa della volontà. Quest’ultima è la menzogna intenzionale e volontaria, che si verifica quando la nostra intenzione è quella di non comunicare la verità delle cose o di alterarla per qualche nostro secondo fine.E adesso, parliamo del bene.  Il bene non è un’altra cosa rispetto alla verità; il bene è tutt’uno con la verità, è un altro nome della verità. La verità è il bene e il bene è la verità. Non esiste verità che non sia anche il bene, e non esiste bene che non sia anche la verità. Quella cosa che chiamiamo verità con riguardo all’aspetto metafisico, la chiamiamo bene con riguardo all’aspetto etico, perché la verità è la garanzia del bene e mostra la strada verso il bene, mentre il bene è il frutto della verità e fa risplendere la verità di una luce ancor più viva.
Possiamo definire il bene come la convenienza o l’attitudine che muove l’appetito verso le cose degne di essere amate. Ora, gli enti sono tutti buoni in se stessi, e buona è la loro esistenza rispetto alla non esistenza (ad esempio, buona è l’esistenza dell’acqua per chi soffre la sete nel deserto, rispetto a un’acqua puramente sognata o immaginata, come accade nei miraggi). Non ne segue, però, che tutti gli enti siano buoni, in qualsiasi relazione vengano a trovarsi fra di loro: il male è un fatto di relazioni e non di enti. È male, per me, il morso di un serpente velenoso; ma il fatto che il serpente sia dotato di veleno non è un male in se stesso, perché è utile al serpente per difendersi dai suoi nemici. Inoltre, gli enti sono caratterizzati da una diversa quantità di bene. Vi sono enti che sono assolutamente buoni, altri che lo sono in maniera relativa. Il male, dunque, è un difetto di bene: è una insufficienza del bene presente in un singolo ente. Pertanto la causa del male non è il male, che è solo un difetto di bene, ma il bene, nel senso che è presente in misura troppo scarsa, o è addirittura assente in quel determinato ente. D’altra parte, il bene non è mai causa del male per se stesso, ma per accidente, come quando il pacifico viandante viene morso dal serpente che si sente minacciato; oppure per una deficienza di bene. Tutti gli enti operano per il bene; il male è un effetto secondario di un appetito diretto verso il bene. Il leone uccide il cervo non per malvagità, ma per assicurarsi il bene della sopravvivenza. E anche gli uomini malvagi fanno il male, in ultima analisi, in vista di un bene, naturalmente di un bene erroneo e illusorio, ossia perché sono convinti che da quella azione deriverà per essi un bene, del quale non possono fare a meno. Il ladro non ruba per il piacere di rubare, né l’assassino uccide per il piacere di uccidere, bensì, rispettivamente, per impadronirsi di un bene altrui o per eliminare un ostacolo alla propria felicità. Questo, naturalmente, nei casi normali, i quali riflettono le leggi di natura; quando il male, infatti, viene compiuto non in vista di un bene, e sia pure deviato, ma per il puro gusto del male, allora si entra nel campo della patologia mentale, ovvero nell’ambito misterioso del male soprannaturale. Anche questo, però, non è altro che un bene deviato dal suo corso naturale. Il diavolo è un angelo decaduto; non potendo più desiderare il bene, opera il male; non potendo più aspirare alla felicità, desidera l’infelicità degli uomini. Perfino lui è la dimostrazione del fatto che il male assoluto, propriamente parlando, non esiste. Il male che il diavolo cerca di provocare agli uomini, corrisponde a quello che, per lui, si è ridotto il bene cui può ancora aspirare: l’amara soddisfazione di trascinare anche altri nella sua stessa infelicità. Istigando gli uomini al male, egli persegue ancora un suo bene, per quanto relativo. La disperazione del diavolo, che è un essere intelligente, deriva dal fatto che egli, razionalmente, sa che tutti i suoi sforzi sono vani; che, se anche riuscisse a trascinare nel male tutti gli uomini, dal primo all’ultimo, la sua situazione d’infinita angoscia non cambierebbe minimamente. Lo stesso discorso vale per quegli uomini che, disperando di poter raggiungere il proprio bene, vogliono almeno provocare ad altri tutto il male possibile: situazione assai più frequente di quel che non s’immagini, anche se, sovente, ben dissimulata dietro comportamenti in apparenza benevoli e altruistici.
Giungiamo così alla conclusione che aspirare al bene è la stessa cosa che aspirare alla verità; e che, posto che tutti gli esseri aspirano al proprio bene, e nessuno desidera, intenzionalmente, il proprio male, allora tutti gli esseri aspirano alla verità. In altre parole, la verità è un bisogno fondamentale e costitutivo della condizione umana: non esiste essere umano che non sia conformato per la verità, cioè che non abbia in se stesso, fin dalla sua origine, sia il desiderio della verità, sia i mezzi atti a conseguirla: i sensi, la ragione, la volontà e il giudizio. Al contrario di ciò che dicono da anni, da decenni, moltissimi intellettuali, filosofi, scrittori, eccetera, gli uomini cercano istintivamente la verità, come i viaggiatori cercano l’acqua, anche nelle regioni più aride, semplicemente perché ne hanno bisogno e non potrebbero farne a meno. La verità non è un lusso riservato a pochi eletti, ma una necessità vitale per tutti. Un’esistenza costruita sulla menzogna, ad esempio quella di un egoista e un ipocrita che vuol presentarsi come generoso e altruista, e che tale pretende di essere creduto anche da se stesso, è l’esempio di un radicale e drammatico tradimento nei confronti della verità essenziale che è al fondamento della nostra vita e che è la nostra ragion d’essere. Noi non abbiamo solamente bisogno della verità; noi siamo fatti e ordinati per la verità; e la verità è la condizione necessaria e ineludibile del nostro essere. Un’esistenza sprecata nella menzogna è un’esistenza completamente tradita. Ma la verità, abbiamo detto, è il bene: dunque, giungere alla verità è la stessa cosa che giungere al bene: e giungere al bene vuol dire essere felici. La felicità, infatti, è il conseguimento del massimo bene possibile, nelle condizioni date. Non è un elemento assoluto, ma relativo: è felice chi sente di aver appagato il proprio desiderio al massimo grado del proprio essere. Da che cosa nasce, allora, il fatto evidente che così tante persone sono infelici, se non dalla loro incapacità di riconoscere e perseguire il vero bene, che è la verità? E quale errore è più frequente e più esiziale di questo: scambiare un bene relativo per il bene assoluto, vendere la primogenitura per un piatto di lenticchie? Se gli uomini vedessero e capissero che il loro vero bene non può essere perseguito a discapito del bene altrui; se vedessero e capissero che il bene individuale è strettamente correlato con il bene generale; e che l’uscire dal proprio egoistico desiderio di bene per entrare nella sfera più ampia del bene generale rappresenta il passo decisivo verso la felicità, senza dubbio vi sarebbero meno persone infelici, e potremmo osservare un più alto grado di armonia nelle relazioni sociali.
Purtroppo, questa è un’intuizione che, per la maggior parte degli uomini, si presenta raramente e solo in circostanze eccezionali e transitorie: per esempio quando una madre, vedendo sopraggiungere un’automobile che sta per investire suo figlio, si getta in mezzo alla strada e si sacrifica per salvare il piccolo. Il bene istintivo dell'auto-conservazione ha ceduto il passo a un bene ancora più essenziale, che quella madre, in quel momento, ha visto e riconosciuto con assoluta chiarezza, senza avere il tempo di fare alcun ragionamento. E ciò che quella madre ha visto e compreso in una frazione d'istante, teoricamente sarebbe alla portata di tutti, se solo gli uomini si prendessero il disturbo di porsi, quale meta  nella propria vita, non il conseguimento di un qualche piacere, ma della vera felicità. La felicità, lo dice Aristotele ma lo dice anche il buon senso, consiste nel conseguimento della massima perfezione possibile per quel determinato ente; e la perfezione consiste nel giungere al vero bene, ossia a quel bene supremo che è la verità. L'errore dell'uomo moderno, suggestionato da cattivi filosofi e da una pletora di poeti alla Leopardi o alla Montale (e magari senza le loro doti artistiche) è stato, da un lato, quello di confonde la felicità con il piacere, mentre sono due concetti completamente diversi; e dall'altro quello di scambiare dei beni minori, parziali, imperfetti, per il bene in se stesso, per avvicinarsi al quale è sempre necessario un certo grado di superamento di sé e di sublimazione delle passioni. Il bene della verità, infatti, consiste in una forma suprema di ordine: quindi è impossibile anche solo arrivare a intravederlo, finché ci si dibatte nel ribollire delle passioni disordinate.
Vuoi essere un cercatore sincero della verità? Incomincia con l'uscire dalla palude vischiosa delle passioni, che intorbidano i sensi, confondono il giudizio e sottomettono la volontà a tutti i loro capricci. Finché sei schiavo delle tue passioni, non arriverai mai neppure a intravedere il cammino che conduce alla verità. E siccome la natura umana, dopo la Caduta, è pigra e voluttuosa (i teologi dicono: schiava della concupiscenza), non è un caso che l'anima si desta a questa superiore consapevolezza solo dopo essere stata investita dalla tempesta della sofferenza: da che mondo è mondo, la sofferenza è l'occasione perché gli uomini scoprano il senso profondo del loro essere; non certo il piacere…